sabato 27 maggio 2023

UN NUOVO MUSEO, UNA NUOVA MOSTRA

APERTURA DEL MAP Museo Arti e Paesaggi

Alla Torre Pentagonale Obertenga di Arcola (SP)

E inaugurazione, ingresso libero, della mostra museale

ARCHETIPI DANZANTI

Opere di Walter Tacchini e del Museo Castiglioni di Varese

Sabato 3 giugno 2023, ore 16.30, Castello di Arcola 

Il centro di Arcola in una foto di Pier Luigi Acerbi

Arcola, il diamante della Val di Magra, è un luogo attraversato nei secoli da eventi, personaggi e avvenimenti che sono stati capaci di costruire un territorio ancora oggi crocevia di un’importante realtà economica, sociale, culturale e ambientale. Un solo Comune, tanti splendidi borghi, una pianura preziosa, la Magra che scorre verso il mare e colline rigogliose fanno da cornice ad altrettanti gioielli che l’umanità ha saputo creare nei secoli: la Torre Pentagonale, il Castello di Arcola, il Castello di Trebiano, il Forte di Canarbino, la Chiesa parrocchiale di San Nicolò, la Pieve dei Santi Stefano e Margherita e il Santuario di Nostra Signora degli Angeli, giusto per fare qualche esempio.

Con l’apertura del MAP_Museo Arti e Paesaggi nella Torre Pentagonale Obertenga di Arcola (XI secolo) inizia una lunga stagione di proposte espositive di rilievo che mirano a valorizzare il territorio e a creare sinergie anche interregionali. Archetipi danzanti con le maschere in ceramica di Walter Tacchini e quelle africane del Museo Castiglioni di Varese vuole far riflettere sulla forza evocativa dell’archetipo in un luogo dove la maschera è importante nella tradizione dell’Omo ar bozo e dove le attività artistiche si moltiplicano per continui scambi culturali.

Una veduta di Arcola in un dipinto di Telemaco Signorini (1884-88)

L’operazione è stata fortemente sostenuta dal sindaco Monica Paganini con la Giunta e i collaboratori, interni ed esterni, per dare al borgo una forza aggiuntiva nell’attrattiva culturale e turistica e convalidare la volontà di valorizzazione del patrimonio storico-architettonico da parte dell’Amministrazione.

Walter Tacchini con Debora Ferrari e Luca Traini davanti Torre e Castello Obertengo

Nelle sculture di Tacchini c'è il segno di una grande stagione della cultura europea che si muoveva tra Sartre, le sorelle De Beauvoir, Cocteau e Prévert, con cui ha lavorato. Oggi ottantenne sempre dedito alla creazione con una verve ineguagliabile (sculture, quadri e mobili rigenerati con Liguria Vintage e le opere nella sede di Crastan Caffè ad Ameglia), Tacchini nel tempo elabora una vena creativa molto personale, dedita al recupero di forme e archetipi ancestrali, ispirati sia alle Steli antropomorfe di 5.000 anni fa della Lunigiana, sia alle maschere tipiche come nella tradizione del Carnevale storico di Ameglia dell’Omo ar Bozo che lui stesso risveglia e rinvigorisce coi suoi costumi. Accanto alle opere di Tacchini nella Torre si possono ammirare, in un dialogo continuo alto ben sette piani, maschere africane della collezione dei gemelli Angelo e Alfredo Castiglioni, noti archeologi ed etnologi a cui è dedicato il museo di Varese. La maschera non è un oggetto a sé stante ma parte di un contesto che comprende danza, musica, ritmo, estetica, sacrificio e cerimonia. Una maschera assume il suo significato completo, infatti, solo nel momento in cui è indossata da un particolare individuo, che esegue determinate azioni, in un preciso contesto. In Africa spesso le maschere rappresentano gli antenati mitici o gli animali totemici. Gli spiriti e le forze incontrollabili della natura vengono rappresentate in forme stilizzate, quasi astratte, perché, in quanto concetti incorporei, prendono vita attraverso la maschera.

L’esposizione, già avviata nel 2022 a Varese e Como e curata da Debora Ferrari e Luca Traini con Marco Castiglioni e Sara Conte, ricercatrice del Politecnico di Milano, è realizzata da Musea Trarari TIPI in collaborazione col Museo Castiglioni di Varese, insieme a vari partner territoriali - liguri e varesini - che ne hanno apprezzato il valore.

Un dettaglio della mostra fotografato da Pier Luigi Acerbi

“Grazie all’incontro col Museo Castiglioni e col Comune di Varese, che hanno messo a disposizione una collezione di maschere africane di rara bellezza - dice il sindaco Monica Paganini - la mostra si arricchirà di suggestione e mistero nell’incessante percorso di ricerca della nostra comune origine. È in questo luogo, testimone del tempo, simbolo della nostra identità e storia, che Walter Tacchini, il nostro Walter, con la sua straordinaria potenza espressiva e la sua arte che si eleva da radici profonde e arcaiche verso orizzonti inesplorati, ha trovato lo spazio per far vivere le sue maschere, “Archetipi Danzanti” capaci di condurci in un fluire di emozioni potentissime che proiettano i nostri vissuti ancestrali”.

Accompagna la mostra un catalogo edito da TraRari TIPI edizioni, casa editrice specializzata in Arte &, e all’interno della Torre il pubblico potrà trovare materiali e brochure gratuite.

All’inaugurazione il 3 giugno 2023, ore 16.30 nella piazza davanti al Castello Obertengo e alla Torre, ci saranno i saluti delle autorità e dei partner, la presentazione delle opere in mostra e l’incontro con Walter Tacchini. Per l’occasione sarà possibile visitare gratuitamente a piccoli gruppi l’esposizione all’interno della Torre e ammirare la Sala Consiliare del Castello (sede del Municipio) inaugurata il dicembre scorso nella sua nuova veste con le opere del ciclo Kronos dello stesso Walter Tacchini. Seguirà un rinfresco con prodotti tipici del territorio in collaborazione coi supermercati Basko.

Sala Consiliare del Comune di Arcola con le opere del ciclo Kronos

Per visitare la Torre occorre prenotarsi scegliendo giorno e ora di visita sul form del sito WWW.MUSEOTORREDIARCOLA.IT perché ogni visita, della durata di 45 minuti, è permessa a massimo 5 persone alla volta.

Gli orari di giugno sono: venerdì 17-21, sabato e domenica 10-12.30 e 17-20.30. Ingresso € 3 con varie esenzioni.

Per info e materiali

culturalbrokers@gmail.comsegreteria.sindaco@comune.arcola.sp.it

mercoledì 1 marzo 2023

ELIODORO, "LE ETIOPICHE"

Amore e geopolitica in un romanzo ai confini di un’epoca
 
Ho letto "Le Etiopiche” di Eliodoro. […] La storia viene abbellita dall’inserimento nel filo del racconto di eventi attesi 
e di colpi di scena, nonché da inopinati salvataggi dalla sventura, il tutto espresso in un linguaggio limpido e puro.
Fozio, Biblioteca

Amore, esotismo, peripezie: tutto a lieto fine. Gli ingredienti fondamentali per un bestseller di successo non sembrano cambiare mai. E sono bene o male gli stessi che caratterizzano quasi tutti i pochi romanzi ellenistici sopravvissuti (altro happy end).

Diverso il discorso per i pochissimi latini (specie se consideriamo il Satyricon), di qualità anche superiore (parliamo di autori come Petronio e Apuleio).

In ambito greco l’unico capolavoro è la mia amata Storia vera del grande Luciano di Samosata, uno dei primi romanzi di fantascienza mai scritti (con tanto di Star Wars fra Seleniti ed Elioti armati di Caulomiceti e Psyllotoxoti), in parte probabilmente splendida parodia del perduto Le incredibili meraviglie al di là di Thule di Antonio Diogene, opera tanto enigmatica quanto ricca di reminiscenze pitagoriche - al contrario del ben più laico e ironico Luciano - e per questo cara a neoplatonici come Giamblico e Damascio (parola di Fozio, Biblioteca, 111b).

Ancora più complessa la stratificazione del Romanzo di Alessandro dello Pseudo Callistene, dalla data di origine altrettanto ignota e perennemente in fieri fra antichità e medioevo, di cui ho già scritto poiché all’origine della mia avventura come curatore d’arte di Neoludica.

Ma torniamo a Eliodoro, la cui opera sta per qualità a metà strada fra Luciano e gli altri romanzieri (per comodità li trovate tutti in Wikipedia). La storia d’amore dei naturalmente bellissimi Cariclea, figlia del re d’Etiopia, e Teagene, discendente di Achille, ambientata ai primordi dell’età classica nell’Egitto sotto la dominazione persiana, viene recensita con affetto nella Biblioteca di Fozio - da bravo bizantino sempre attento a quanto riguardava il regno africano, ormai nel IX secolo cristianizzato da mezzo millennio e potenziale alleato prima contro i Persiani e poi gli Arabi - quindi, riscoperta in Occidente durante l’Umanesimo, diventa fonte di ispirazione per scrittori del calibro di Tasso e Cervantes. Senza contare gli influssi sulla letteratura francese del Seicento e su quella inglese di epoca elisabettiana, in questo caso grazie alla traduzione della versione latina del gesuita polacco Stanislaw Warszewicki (le ironie della Storia qui si sprecano).

In Biblioteca con Fozio, in Etiopia con Nonnoso https://lucatraini.blogspot.com/p/letture.html

La cosa che subito stupisce noi moderni è la formidabile capacità “cinematografica” di Eliodoro - e stupisce sia me che l’ottimo curatore dell’opera per la UTET, Aristide Colonna, che non ne abbiano ancora fatto un film - quella maestria descrittiva nella panoramica che, per quanto mi riguarda, collego a un maestro contemporaneo del  genere come il bulgaro Anton Donchev, non a caso anche sceneggiatore, e al suo Manol e i suoi cento fratelli (dei molti pregi - e di alcuni difetti nazionalisti, preludio delle successive politiche dell’era Živkov - di quest’opera, pubblicata nel 1964 e subito tradotta non a caso da Longanesi, parlerò in un prossimo post).

Basta solo leggere l’inizio delle Etiopiche: “Stava appena sorgendo una ridente giornata e il sole illuminava con i suoi raggi le cime dei monti, quando degli uomini, armati da predoni, affacciandosi al di sopra dell’altura che si estende presso le foci del Nilo e la bocca chiamata Eracleotica, si fermarono un momento e percorsero con lo sguardo il mare sottostante E rivolti dapprima gli occhi al mare aperto, constatando che, privo di navi, non offriva loro nessuna preda, si fermarono a guardare la spiaggia circostante. C’era lì ormeggiata una nave da carico, priva di uomini, ma con tutto il suo carico; questo lo si poteva notare anche da lontano, perché il peso faceva salire l’acqua fino alla terza cintura della fiancata. La spiaggia poi era tutto un groviglio di corpi umani trucidati da poco: alcuni erano davvero morti, altri invece agonizzavano; inoltre era piena di membra che ancora guizzavano e che indicavano che la battaglia era appena finita. E le tracce che si potevano scorgere non erano quelle di una regolare battaglia, ma si potevano vedere, mescolati, i miseri resti di uno sfortunato banchetto, terminato tragicamente. Infatti c’erano tavole ancora cariche di cibi, alcune strette fra le mani di quelli che giacevano a terra, i quali se ne erano serviti come armi durante lo scontro. […] Poco lontano dalla nave e dai caduti si presentò loro uno spettacolo ancor più misterioso dei precedenti. Una ragazza stava seduta su un masso, bella di una bellezza incredibile e tale che avrebbe potuto essere presa per una dea. […] Con lo sguardo fisso in giù, il viso immobile, contemplava un giovane che giaceva ai suoi piedi. Questi appariva deturpato dalle ferite ricevute e sembrava riemergere da un sonno profondo, simile a quello della morte; ciononostante, risplendeva ancora di una virile bellezza”.

Eccoli i protagonisti, due statue pronte a prendere vita in testo e contesto la cui dinamica inizia “in medias res” (a metà dell’azione) come i poemi di Omero, ritenuto dall’autore - altro elemento singolare - egizio. In una serie di avventure ambientate solo nel finale in Etiopia e per il resto, tranne una lunga parentesi a Delfi, proprio in Egitto, terra di mistero, saggezza e occulto per eccellenza fin dai tempi della Grecia arcaica, come esplicitato da Eliodoro nel secondo libro del romanzo: “Per un greco le leggende e le storie egiziane sono le più affascinanti di tutte” (II, 27).

Altra stranezza: la protagonista, Cariclea, pur essendo figlia della coppia regnante etiope e abbandonata nella culla stile Mosè, non è nera, ma di carnagione chiara. Non si tratta di razzismo, perché l’antichità non conosceva questa sciagurata ideologia sorta dal colonialismo in età moderna, ma guardava i diversi coloriti delle carnagioni come semplici curiosità e trattava da pari a pari con i regni “etiopi” di Meroe prima e di Axum poi. Il problema è un altro: la credenza, giunta a livello popolare fino in epoche neanche tanto lontane, che quanto visto da una donna incinta potesse influenzare nel fisico la creatura - e non uso a caso questo termine - che aveva in grembo. Per quello riguarda la regina Persinna il candore epidermico della figlia era dovuto al fatto che aveva contemplato a lungo un dipinto che raffigurava il mito greco di Perseo che libera Andromeda (con tutti i simboli misterici annessi all’omonima Costellazione). Potere magico delle immagini: nel racconto mitologico la stessa Andromeda era già figlia di una coppia regnante etiope (una di quelle possibili esemplificazioni delle radici afroasiatiche della civiltà ellenica del sempre affascinante Atena nera di Martin Bernal) e - per tutta una serie di motivi cui rimando alla lettura de Le relazioni dei Greci con Kush e Axum di S. M. Burstein in STORIA EINAUDI DEI GRECI E DEI ROMANI I Greci oltre la Grecia - fin dalle origini anche lei di colorito chiaro (sempre che non fosse albina o caratterizzata da rutilismo, come il faraone Ramses II).

Fatto sta che nelle Metamorfosi di Ovidio (IV, 663-752) Perseo la crede inizialmente una statua di marmo e Filostrato Maggiore nel sue Immagini (di cui abbiamo già parlato) descrive un quadro sul tema che avrebbe potuto benissimo trovarsi nella reggia di Meroe: “Questo non è il Mar Rosso, né questi sono gli Indi. Sono gli Etiopi, un uomo greco in Etiopia e la lotta che di sua volontà osò affrontare per amore. […] Perseo, che - dicono – abbia ucciso un mostro dell’Atlantico che in Etiopia aggrediva le greggi e gli uomini. Il pittore apprezza questa storia e compiange Andromeda poiché è stata consegnata al mostro; ora il combattimento è già compiuto: il mostro è stato gettato sulla spiaggia e la inonda di rivoli di sangue che rendono il mare scarlatto. Eros però libera Andromeda dai legacci: è dipinto alato come al solito, ma contrariamente alla regola, con l’aspetto di un giovinetto, ansimante e ancora affaticato. […] La fanciulla è graziosa poiché è una bianca in Etiopia. […] Ci sono anche molti pastori che offrono latte e vino da bere, Etiopi, graziosi, con quel loro strano colore e quel sorriso fiero, visibilmente felici. Perseo, apprezzando questi doni, si appoggia sul gomito sinistro, solleva il torace gonfio d’aria guardando verso la fanciulla e lascia al vento il suo mantello purpureo.” (Filostrato Maggiore, Immagini, trad. Letizia Abbondanza, Nino Aragno Editore, 2008). Ulteriore conferma l’affresco della Casa dei Dioscuri a Pompei, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Ma soffermiamoci proprio su Filostrato, che scrive nella prima metà del III secolo, in piena epoca della dinastia dei Severi. È un dettaglio non indifferente, perché proprio uno degli imperatori più enigmatici di questo periodo, Eliogabalo, era sacerdote del dio Sole (El-Gabal) di Emesa in Siria. E proprio Eliodoro nelle due ultime righe a firma del romanzo si definisce “un Fenicio di Emesa, della stirpe di Helios, figlio di Teodosio”. Questo ha portato inizialmente non pochi studiosi, tra cui Erwin Rohde, amico di Nietzsche, a collocare autore e romanzo proprio alla metà del III secolo, in piena temperie della Seconda Sofistica. Dalla metà del XX secolo, tuttavia, a partire da un importante saggio breve di Marchinus van der Valk del 1940 (con successivi approfondimenti dello stesso Aristide Colonna), si è cominciata a spostare la datazione verso la fine del IV secolo, sia perché certe operazioni militari descritte nel romanzo sembrano prendere spunto da testi di Giuliano l’Apostata (imperatore dal 360 al 363), sia perché lo storico della Chiesa Socrate Scolastico (attivo nella prima metà del V secolo) nella sua Historia Ecclesiastica parla di un Eliodoro, promotore del celibato sacerdotale nella regione greca della Tessaglia ai tempi dell’imperatore Teodosio, “divenuto vescovo della città di Tricca, di cui si tramanda un’opera, una storia d’amore, che compose quando era giovane e a cui assegnò il titolo di Etiopiche”. Un romanzo già ossessionato dall’ideale di castità propagandato dalle filosofie “pagane” neoplatoniche e neopitagoriche e per questo privo di qualsiasi riferimento alle pratiche omosessuali dell’antichità greco-romana presenti nei testi di simile struttura che l’avevano preceduto, quindi riferimento privilegiato per l'ortodossia cristiana della cultura bizantina e per il Rinascimento, specie nella sua appendice controriformista.

Un altro elemento che, a mio parere, rende questo testo affascinante figlio di quell’epoca terminale di struttura e sovrastruttura sociale e culturale dell’antichità “classica” è anche la connessione fra Omero e la dimensione misterica ormai assunta della cultura egizia (ne ho parlato rispetto ad Assassin’s Creed Origins nel 2017, prendendo spunto dal fondamentale lavoro di Jan Assmann, Sapienza e mistero. L’immagine greca della cultura egiziana, in STORIA EINAUDI DEI GRECI E DEI ROMANI I Greci oltre la Grecia). Se Eliodoro scrive “Omero, che era egiziano ed era stato istruito nella sacra dottrina […] e l’ha espressa simbolicamente nei suoi versi” (III, 13), chiaramente parliamo di un’interpretazione oggi inaccettabile e antistorica, ma fra IV e V secolo - ne ho già scritto per L’antro delle ninfe del neoplatonico Porfirio,

ma si può benissimo far riferimento anche ai noiosissimi, ma fondanti, Misteri dell’Egitto di Giamblico, punto d’incontro fra neopitagorismo e neoplatonici (e tutti e due i filosofi sono di origine fenicio-siriaca) - di grande vulgata fra gli intellettuali dell’epoca. E tra questi rientra certamente il Nostro, per nulla superficiale, che, stile il Lucrezio del De rerum natura, nelle quinte del suo romanzo, dietro il miele della storia d’amore, celava il responso amaro della fine di un intero, cruciale periodo storico. Fine a cui avrebbe cercato di rispondere con l’unica etica che si era venuta strutturando in modo concreto e diffuso come alternativa per il futuro: il cristianesimo. Le peripezie amorose delle Etiopiche preludevano in un certo senso a quelle mistiche, sempre di ambito egizio (il deserto della Tebaide), narrate pochi decenni dopo da Palladio di Galazia nella Storia Lausiaca.

Eliodoro è anche un finissimo cesellatore dei segni della passione. Amore che pervade le fibre dei corpi ancora tutto pagano, ma già manifestazione di quella predominanza dell’anima che caratterizza la perdita di fisicità della presenza storica. Un ottimo esempio è il primo incontro di sguardi - “Preferiamo la vista a tutto” scriveva Aristotele nella sua Metafisica, titolo e termine tecnico che ormai aveva acquisito il senso trascendente che tutti conosciamo - fra Cariclea e Teagene a Delfi: “Appena si videro, i due giovani si amarono, come se la loro anima avesse riconosciuto fin dal primo incontro l’anima gemella e si fosse lanciata verso ciò che era degno di lei. Dapprima rimasero immobili, colpiti da un improvviso stupore, poi lentamente lei gli tese la fiaccola e lui la prese. A lungo si fissarono negli occhi, come se cercassero di ricordare se si fossero già visti o conosciuti da qualche parte; quindi accennarono a un sorriso rapido e furtivo, svelato soltanto da un lampo dello sguardo.” (III, 5).

Dietro c’è chiaramente la lezione di Euripide - e il Nostro aveva letto a dovere tragici e commediografi tanto da usare spesso similitudini che si richiamano al teatro - arricchita da tutta una serie di letture che spaziano fino al IV secolo e da una notevole capacità, sia quantitativa che qualitativa, di creare nuove parole, termini originali di cui non troviamo riscontro negli autori precedenti.

Domina il piacere di raccontare e di inserire racconti nei racconti (a volte mi ha ricordato il caro Jan Potocki), finché la matassa non si sbroglia nel finale alla corte di Meroe dove, tra mille peripezie e altrettanti riconoscimenti, l’eroina e l’eroe possono finalmente sposarsi e diventare sacerdoti rispettivamente della Luna e del Sole (questa in armonia, contrariamente alle "guerre stellari" di Luciano).

L’autore - che quindi non a caso si definisce “della stirpe di Helios”, del Sole - può mettere la parola fine al suo romanzo con i “dei ex machina” teatrali da lui preferiti. Fra gli applausi del grande pubblico degli Etiopi e dei loro saggi gimnosofisti - che avrebbero dovuto trovarsi in India (come ho scritto nel mio dramma su Plotino), ma nell'antichità potevano essere tranquillamente spostati in un altro luogo favoloso come l’Africa interna - il re Idaspe abolisce anche i sacrifici umani

Lo stesso monarca che, nel Libro IX del testo, aveva appena sconfitto i Persiani assediando la città strategica di Siene (l’odierna Assuan), è ora un prezioso - e purificato - precedente per giustificare quella politica anti Sasanide che unisce imperatori romani pagani e cristiani nel cercare l’alleanza prima con Meroe e poi con Axum.

Romanzo d’amore raffinatissimo, certamente filosofico, probabilmente anche politico, di uno scrittore siriaco diventato vescovo nella Tessaglia dove il mito aveva posto il regno di Achille.
Non mancano certo i motivi per rileggere ancora una volta Le Etiopiche.

venerdì 13 gennaio 2023

50 ANNI CON PICASSO

Commento musicale Eliane Radigue, L’Île Re-Sonante 

Altri miei testi recuperati in tempo per l’anniversario della morte di Picasso. Altri dialoghi fra lui e protagonisti dell’arte fotografati dal caro, compianto amico André Villers per la mostra REFLEXions dans les chambres d'André Villers, curata da Debora Ferrari e dal sottoscritto ad Aosta nel 2008. Letti durante la presentazione del nostro catalogo al Salone del Libro di Torino dello stesso anno.


ARTI QUOTIDIANE


Picasso

La conquista del quotidiano, la più difficile per un artista. Dipingere una casa. La casa. Ma le sue linee devono compensare quelle di un cardiogramma. Tetto, pareti, finestre, contenere tutte le vertigini di quegli impulsi e non darlo troppo a vedere, sennò i vicini, il prossimo, si spaventa. Il fuoco, uscendo dal camino in forma di fumo, continuerà il suo dialogo col cielo. E sulla terra, qui, a Mougins, sarà come condividere sigarette con amici. Parlando del più e del meno che fa battere i nostri cuori.

Hans Hartung

La conquista dell’arte ogni giorno, Pablo. Specie se una patria te la marchia come “degenerata” e devi combatterla in una guerra vera, in una legione straniera, perdendo l’uso delle gambe. La meravigliosa ciclicità del vivere, allora, è questo rullo che stendo su ogni tela per incidere i miei graffi. André lo sa che io cerco di strappare in questo modo al tempo della storia i suoi perché. Non spreca inutili parole, richiede azioni precise la nostra vita, la nostra arte.

Michel Butor

Anch’io che prendo forma nella foto e scrivo non perderò tempo. Metro dei versi: 0,75 litri. La misura concordata con André per il progetto Bouteilles de Survies. Bottiglie di sopravvivenza, perché non si vive di solo pane ma anche di quelle acque intellettuali care agli antichi filosofi, meglio se vino. Bere poesia: la cerimonia giusta oggi per consacrare pensieri, parole, opere a un tempo diverso da quelle due lancette in  competizione.

 

FORME NECESSARIE DEL SOGNO


Picasso

Evocatemi pure la metamorfosi, il sogno, il gioco e vi ringrazierò. Ma fate bene attenzione anche mentre facciamo un autoscatto io e il giovane André. Sognatori, la vostra carezza impalpabile per me è come trovarmi concretamente in Africa: comprendere la vita di ogni maschera e poi tornare in Francia a combattere ogni colonialismo, convinto dall’eredità più onesta del mio continente. Esperti dell’incubo che può diventare sogno, utopia, lotta per una realtà migliore, è dai tempi del cubismo che rimetto in discussione le vecchie prospettive. Da Guernica alla Colomba della pace, da un esilio di cui non vedrò la fine, io ricerco da sempre un punto di vista più alto certo della bellezza del mondo.

Max Ernst

Le mie mani quando accarezzano hanno unghie così lunghe che possono graffiare. Sogni o incubi, lasciano sempre un segno. Sta a noi, Pablo, a tutte le tecniche da inventare, cercare la strada per ricomporre grafie che altrimenti restano dentro come ferite aperte. Se il viaggio andrà a buon fine, la Loira disvelerà ancora una volta un bellissimo corpo di donna. Parola del mio sorriso e di questi capelli bianchi fotografati liberi e scarruffati al vento.

Hans Arp

Io accarezzo sempre le mie opere, perché hanno le forme tonde e sinuose della vita. Le scolpisco, le accarezzo e le lascio subito andare, perché la vita è inafferrabile. Ogni giorno cerco di rinnovare la mitosi di queste cellule e lascio prendere loro la forma dei miti ancestrali che sono dentro di me. Devi sentirle come ho scritto in poesia: “Lamentarsi, cantare, gemere, sospirare”. La cura che riservo a queste esistenze che vanno oltre la mia è la risposta alle forme imposte dagli orrori della storia. Il caso mi ha dato questa necessità.

Joan Mirò

“Noi ci salviamo in giochi più profondi”, Pablo: l’ha scritto Arp. E ci sono anche donne che hanno 100 teste -  Max ne ha fatto un romanzo-collage. Facciamo 1+1 e prima della somma inventiamo una nuova matematica. Usciamo dalla nube degli atomi come nella mia foto in bianco e nero. I colori poi daranno un’altra presenza. Quella dei bambini che fanno un mosaico di tutti i sassi colorati di Pollicino e poi lo disfano subito per dar vita a un altro. Tu resti in Francia e io torno dove la Spagna è meno Spagna nel ’40, a costruire labirinti dove giocare con biglie sempre di nuovi colori. Mi servono 35 anni per vincere la dittatura di Franco. Poi vince anche l’arte.


TRATTI, RESPIRI E ALITI DI VENTO


Picasso

C’è un ultimo ritratto che ho lasciato alla tela un anno prima della morte. Dopo tante opere dedicate all’amore ho visto in faccia proprio lei. E forse non era qualcosa di diverso. Ogni passione ha la sua sindone. Ogni tratto dipinto, per quanto fluido, conosce il gelo quando è compiuto. È una questione di passaggio di stati. Chi vedrà il quadro, se lo ama, riattiverà la chimica dell’arte.

Fellini

André mi ha fotografato per strada, per La strada. E in ogni tratto di strada, quando sono in crisi, trovo te, Pablo, come compagno di viaggio. Eppure ci siamo visti una sola volta a Cannes, forse era il ’61. In sogni a occhi aperti non so quante altre, perché cerco di riprendere ogni scena muovendo i macchinari come un pittore cubista. Ti dedico la mostra contemporanea di artisti antichi nel mio Satyricon. Lascio agli spettatori tutte le illusioni della realtà, dello schermo. Noto che muori ma io tornerò a trovarti, in un’altra Prova d’orchestra. E questa volta non dovremo abbattere muri.

Léo Ferré

Parli del futuro in una foto, Fellini, ma io di muri ne avevo già abbattuti tanti prima che tu cominciassi a fare film. Perché le note possono abbattere ogni muro. E se ci riescono diventano canzoni. D’amore e di anarchia: quelle pareti devi averle già infrante dentro di te. Poi torna il tempo, che gioca a farci costruire, costruire anche inutili difese contro di lui. Respira, Leo, respira quest’aria di Toscana. André ha trattenuto il respiro per fare questa foto. Respira anche per lui. È come una pausa in un’altra canzone. La stessa di quando altri canteranno le tue.

Alexander Calder

Tu non sai quanto ho dovuto respirare, Leo, quando giocavo a football o a lacrosse. Amici che avete nel cuore l’Europa, ricordate uno sportivo americano che finì a Parigi per fare giocattoli e si ritrovò a doversi inventare un circo in miniatura per tirare avanti da una costa dell’Atlantico e l’altra. Arte portatile, come il mio amico Duchamp. Questione di correnti, oceaniche. Sennò perché fare il fuochista in una nave che aveva il mio stesso nome? Al largo del Guatemala ho visto nello stesso tempo il sole sorgere e la luna tramontare. E chi siamo allora per diventare artisti? Plasmiamo, attenti al ritmo, al respiro: se una cosa cade, l’altra sale. Quindi continuiamo a costruire. Statue ben piantate per terra e poi altre che si alzano in volo, mobili come rami leggeri e foglie al primo colore. Sto parlando di questo mentre mi fotografa André. E il respiro non muore se un’immagine è la sua. Tu sai che basterà un soffio o un alito di vento a far danzare ancora una volta la vita che hai scolpito.

Luca Traini


ANDRÉ VILLERS: PICASSO E GLI ALTRI Dialoghi in bianco e nero

Prévert, Boulez, Le Corbusier, Cocteau, Simone De Beauvoir, Xenakis, César, Clouzot, Ionesco


ANDRÉ  VILLERS, IL FOTOGRAFO DI PICASSO

Debora Ferrari, Luca Traini, REFLEXions (Aosta, Brenta, Venezia 2008-2010)

mercoledì 11 gennaio 2023

NON SOLO ALESSANDRO: FRANCESCA MANZONI, POETESSA Nel 280° dalla scomparsa

Commento musicale Maria Teresa Agnesi, Non piangete, amati rai 

Visto che tutti parleranno di Alessandro Manzoni per il 150° dalla morte io ricorderò invece la sua antenata Francesca, vissuta quasi un secolo prima e a lui congiunta, più che nel segno della biologia (lo scrittore è quasi certamente figlio della relazione fra Giulia Beccaria e Giovanni Verri), nel comune amore per la poesia. Perché Francesca, alias Fenicia per gli Arcadi, fu una protagonista della vita culturale milanese - ed europea, in quanto strettamente legata alla corte degli Asburgo - anche se purtroppo per breve tempo. Morì di parto nel 1743 a soli 33 anni, la canonica età di Gesù. E infatti l’intensa ispirazione cristiana dei suoi versi è proprio il segno distintivo che la accomuna al suo discendente. Un sentimento profondo poco di moda tanto agli albori dell’Illuminismo che durante il vuoto conformismo religioso della Restaurazione. Li unisce inoltre la professione di fede nella scrittura per drammi, il teatro in versi.

Tuttavia, se Adelchi o Il conte di Carmagnola li trovate in qualsiasi libreria, per avere subito a disposizione il capolavoro di Francesca, L’Ester, dovete rivolgervi a Google Books e sfogliare virtualmente l’edizione originale del 1733 (avendo fede 290 anni dopo nella rivelazione di una nuova edizione a stampa).


Artemisia Gentileschi, Ester e Assuero (1628-35)

Dramma tratto naturalmente dal Libro di Ester presente nella Bibbia, testo dalla genesi quanto mai complessa, presentato dalla scrittrice in un’introduzione dottissima (trenta fitte pagine), dove fa sue le interpretazioni del testo biblico greco dei Settanta e dello storico Giuseppe Flavio, che ambientano la vicenda alla corte del re dei re persiano Artaserse I Longimano.

C’è da sottolineare che la Manzoni, quasi da femminista ante litteram, ha quasi sempre posto al centro della sua drammaturgia donne come protagoniste. Ne fanno fede altri titoli che aspettano una riedizione contemporanea come La Debbora, La madre de Macabei, L’Abigaile. Tutte eroine bibliche, tutte scritture anche in forma di libretto per oratori o azioni sacre messe in musica da compositori in voga come Francesco Bartolomeo Conti o Luca Antonio Predieri. Stella polare di riferimento e colta mecenate l’imperatrice Elisabetta Cristina, consorte di Carlo VI.


J. G. Auerbach, Ritratto dell'imperatrice Maria Cristina (1730 ca.)

Di questa donna eccezionale, coronata di aura aristocratica, venni a conoscenza per caso, per lavoro, in tutt’altro contesto. Nel biennio 1987-88, ventenne ben lontano dall’essere laureato, ero stato chiamato a insegnare italiano alle Serali - le mitiche, preziose 150 Ore dedicate a encomiabili studenti adulti che di giorno lavoravano e riuscivano pure a trovare la forza di studiare - nelle Scuole Medie di Arcisate dedicate a un famoso artista, arcisatese, del Settecento: Benigno Bossi.


Più noto come il re degli stuccatori del Secolo dei Lumi, come scoprii nella biblioteca dell’università, era stato anche pittore e incisore. Ebbene dobbiamo proprio a questo artista, agli inizi della sua carriera, l’unico ritratto rimasto della poetessa: volto deciso, che ha chiaro quello che sa e vuole, ma fatica a emergere dal buio.


E pochissime notizie allora, poco tempo per me fra studio e lavoro. Il cognome da sposata dopo una parentesi in monastero, Giusti, da Luigi Giusti, letterato e librettista di quell’opera singolare che è il Motezuma (Montezuma) di Vivaldi: all’epoca un raro matrimonio d’amore (alla morte di lei, addoloratissimo, il vedovo si fece sacerdote). Il ruolo del padre, il giurista Cesare Alfonso, che, come il concittadino Pietro Agnesi con le figlie Maria Gaetana e Maria Teresa, aveva tenuto, controcorrente, all’educazione di Francesca tanto che la ragazza padroneggiava con totale sicurezza latino, greco, francese, spagnolo oltre a geometria e, chiaramente, diritto. Il fatto che lei, oltre a rime petrarchesche e in milanese, avesse tradotto i Tristia di Ovidio, sembrava un presagio…

Ma ne parlai alle mie splendide signore alunne della sezione distaccata di Cuasso al Monte, quando m’invitavano a prendere un tè prima dell’inizio delle lezioni del turno delle 17.30? Temo di no, ma sarebbe stato bello, anche perché i drammi di Francesca, al contrario di quelli di Alessandro, erano a lieto fine, come un diploma di terza media delle 150 Ore: il ragionevole ottimismo del nostro secondo dopoguerra, in fondo, era strettamente imparentato a quello dell’Età dei Lumi.


L'Ester di Francesca e la morte di Ermengarda nell'Adelchi di Alessandro a confronto

Dal 1733 al 1822, da L’Ester all’Adelchi: certi passaggi, specie nei cori, sembrano avere proprio lo stesso afflato. Quanto differisce è la speranza a chiare lettere nei versi della prima rispetto al pessimismo dei drammi romantici del secondo (che dovevano di prammatica celare fra righe e tenebre la loro brama di luce). Entrambi si mettono in gioco fra endecasillabi e settenari, ma è nel coro delle Donzelle ebree al seguito di Ester alla fine del secondo atto che sento degli echi vibrare in positivo attraverso un secolo, fino alla morte di Ermengarda (“Sparsa le trecce morbide”) o al confuso popolo italico che dovrebbe destarsi “dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti”: “Talor mentre si teme/ Che più non sia riparo/ Alle ruine, e ai danni/ Sorge la viva speme,/ Quasi un bel raggio chiaro/ Fra l’ombre; e i tristi affanni/ Fuga; indi scioglie i vanni/ A mille alti pensieri,/ E bei desiri ardenti/ Ch’eran sopiti, e spenti,/ Qual zefiro, dai fieri/ Geli oppressi, ravviva/ I fiori in prato, o ‘n riva”.


Nella metrica dell’antenata trova sempre spazio armonico quella Provvidenza protagonista della prosa dello scrittore de I promessi sposi, così ben descritta da Ester nella quinta scena dell’ultimo atto: “Non dorme providenza, ma ogni cosa/ Osserva, e in suo saver si riconsiglia:/Solleva chi è depresso, ed i superbi/ Di confusion ricuopre; ond’io ristretta/ Entro me stessa, a lei tutta in governo/ Mi pongo, e l’alto suo Giudizio adoro”. Sembra di sentire parlare Lucia Mondella prima di passare da regina a operaia (e di questo ringrazio il mio caro Alessandro).

Al di là questi riverberi c’è da sottolineare come anche la Manzoni dia rilievo a personaggi femminili legati a corrispettivi maschili negativi, sottolineando una superiore forza di spirito. È il caso della moglie di Aman (il persecutore degli Ebrei impiccato alla stessa forca da lui fatta costruire) che, dopo aver visto sterminare tutti e dieci i figli, di fronte al terrore della morte del marito grida “Dirassi almeno ch’io morii da forte” e si suicida pugnalandosi al petto.

“E l’alma disdegnosa si fuggì”. Un verso per lei, due rimembranze per la fine dei poemi di Virgilio e Ariosto. E tre Accademie che la videro prima attrice: la colonia milanese dell’Arcadia, quella dei Filodossi  e infine l’Accademia dei Trasformati, da cui avrebbe preso vita il primo Illuminismo milanese. Ironia della sorte, quest’ultima rifondata da Giuseppe Maria Imbonati, il padre di Carlo, compagno di Giulia Beccaria e soggetto del primo importante componimento poetico di Alessandro Manzoni. Dramma della storia, dramma ancora una volta tutto al femminile (per la vita sempre a rischio di tragedia delle donne dell’epoca): Francesca non poté assistere all’inaugurazione del 6 luglio 1743 perché era morta il 28 giugno, dieci giorni di calvario dopo il parto della figlia Angiola.


Ci piace ricordarla felice ancora al lavoro - magari impegnata nella stesura di quella storia delle donne erudite che il tempo e l’epoca le impedirono di completare - quando suscitò la meraviglia anche di un viaggiatore avvezzo a tutto come Charles de Brosses, a Milano nel 1739: “La Biblioteca Ambrosiana è così celebre in Europa... È aperta tutti i giorni, sera e mattina e l’ho sempre trovata, a differenza delle nostre, piena di gente intenta allo studio; ma trovai strano di vedere una donna lavorare in mezzo a un mucchio di libri latini: è la signora Manzoni, che ha il titolo di poetessa dell’imperatrice”.

Noi oggi non lo troviamo strano affatto, ma è merito di tante lotte che non devono mai cessare.

È merito anche di Francesca Manzoni. Che deve essere ricordata insieme ad Alessandro.

Luca Traini

Per un quadro della Milano dell'epoca vedi anche

Montesquieu a Milano: pagine e musica


martedì 10 gennaio 2023

LA MUSICA DI RAMEAU Finesse de la géométrie de l'esprit

340 anni dalla nascita dell’uomo, 35 dal sorgere del mio amore per la sua musica immortale.Un amore nato nel reparto dischi della libreria dell’università. Les Indes galantes come preparazione alla lettura de L’architettura dell’Illuminismo di Kaufmann.

A seguire, Castor et Pollux, l’aria “Nature, amour,qui partagez mon coeur” per il trapasso delle forme. Completando la trasfigurazione grazie a un altro compositore a me caro, Rebel: dal “Chaos” dei suoi Élements la metamorfosi del reticolato da minuetto nella Casa per i guardiani del fiume di Ledoux - o l’irrigazione dello stesso in nuovi , precisi, canali danzanti secondo la geometria appassionata di ”Orfeo-Euclide” (puntuale definizione di Rameau offerta da Voltaire).

I progetti dei miei compagni visionari Boullée, Ledoux, Lequeu erano l’alter ego crepuscolare del luminoso pomeriggio di Rameau ,l’incendio della rivoluzione rispetto al fuoco del tè o del caffè degli illuministi.

Ho ritrovato un frammento stralciato dai miei Teatri di guerra, breve dialogo fra il compositore e Voltaire:

Rameau

Ditemi dove l’armonia dovrebbe divergere dalla natura umana e io straccerò ogni pentagramma.

Voltaire

Non occorrono “venti furiosi né tristi tempeste”. Non siete compositore? Anch’io cerco di esserlo. Per questo dobbiamo mantenere esatte quelle scienze, come fisica e geometria, per cui occhi, cervello  e mani provano e riprovano al compasso cercando di mettergli le ali.

Rameau

Si parla di note, ma noi cerchiamo di stringere fra queste cinque dita qualcosa d’ignoto che sembra sfuggire a righe e pause. C’è una chiave per comprendere tutte queste fughe? Io credo di sì. Me lo conferma il richiamo degli uccelli - loro sì che volano alto - l’accordatura del mio vecchio clavicembalo. E voi, mio caro Voltaire, sapete bene che “corda” significa “cuore”. Un cuore che pulsa secondo un crescendo preciso, nella fisica come in musica. E nell’amore.


Le sue Fêtes d'Hébé anche a commento del Quadro 7/15-L’imbarco per Citera-della mia opera teatrale su Watteau:

Watteau

Partiamo

Esitanti amor mio

Preghiamoci l’un l’altro

Su alzati

È tempo di partire


Fanciullo

(tirando per la gonna l’amata)

Svelta signorina

Che è tempo di morire


Amante

(che l’aiuta a rialzarsi)

Non è vero amor mio

Là ci ameremo per sempre


Fanciullo

Svelta signorina

Che dovete morire


Amante

Il vascello vi assicuro

È rivestito di un drappo rosso come l’amore


Coro dei Cupidi

Nudi e immortali

Vestiti a festa

Morti


Erma

Gelo


Watteau

Rose


Erma

Gelo


Watteau

Faretra e frecce


Erma

Gelo


Watteau e l’Amante

Destiamoci amor mio

Che è tempo di morire


Watteau 

Un sogno

È tutto un sogno


Battelliere

Agli amanti, con solennità.

Partite per amarvi e morire?


Coro degli Amanti


Coro dei Cupidi

Nudi e immortali

Vestiti a festa

Morti


“Finesse de la géométrie de l'esprit” è definizione mia, perché la precisa "géométrie des esprits" dell’autore del Traité de l'harmonie reduite à ses principes naturales è inscindibile dall’appassionato incisore di tutta una coralità di affetti che troviamo solo nei grandi.

Progressione esponenziale di Bellezza esemplare anche in epoca di geometrie post-euclidee.

Luca Traini