venerdì 18 dicembre 2020

UNA PINACOTECA VIRTUALE A NAPOLI NEL III SECOLO Le "Immagini" di Filostrato Maggiore

Orsù, Muse, mentre mi unisco al vostro coro
Ponetemi accanto il multiforme Proteo: che si mostri
Nei suoi cangianti aspetti, perché io modulo
Un inno screziato.

Nonno di Panopoli


Volete visitarla? Sfogliate l’elegante edizione pubblicata da Aragno a cura di Letizia Abbondanza. In epoca di gallerie virtuali eccone una fantastica – reale? immaginaria? immaginaria e reale? – a Napoli, “città di abitanti di origine greca e raffinati” (Proemio 4), in un portico a più piani forse a Posillipo. Descritta da un sofista dalla curiosità insaziabile (autore anche - Dario Del Corno docet - di quella Vita di Apollonio di Tiana che fu il mio Adelphi preferito al liceo).
L’epoca è quella della dinastia dei Severi (e l’autore faceva parte del circolo dell’imperatrice Giulia Domna, “ammiratrice di ogni arte dell’eloquenza”): mosaico brillante attraversato da crepe sempre più grandi (ritorno all’ordine, cittadinanza universale – prima soltanto sogno da filosofi – tassazione crescente per l’aumento di spesa degli eserciti, nuova anarchia militare). Età d’oro del sincretismo religioso (dove l’imperatore Alessandro Severo poteva adorare icone di Orfeo con Cristo e Abramo) e dell’eclettismo nelle arti, in primis la Seconda Sofistica, dove la parola dei retori cerca di dominare qualsiasi argomento.
Con la sua esposizione appassionata Filostrato cerca di mettere in ordine, con soave disperazione, tutto il patrimonio figurativo della tradizione greco-romana classica in 64 quadri esemplari, innestandolo, con le sue maniacali descrizioni (ekphraseis), di tutti i chiaroscuri espressionisti della sua epoca (già testimoniati, solo per fare un esempio, dai rilievi della Colonna di Marco Aurelio).
Un programma da visita scolastica d’istruzione: “Il discorso non riguarda i pittori, né la loro storia, ma alcuni aspetti della pittura, raccolti per i giovani come lezioni, dalle quali imparino a interpretare e curare il proprio giudizio” (Proemio 3).
Una fantasmagorica via di fuga dai problemi economici, politici e sociali sempre più drammatici che tendevano a sbiadire il grande affresco della restaurazione severiana, una tumultuosa fuga immersiva costellata da tutta una serie di affabulate Sindromi di Stendhal: “Ma cosa mi è successo? Sono preso dal quadro e penso che i personaggi non siano dipinti ma che esistano realmente, si muovano e amino… Tu non hai pronunciato parola, nemmeno tanto da allontanarmi dal delirio, poiché sei vinto come me, e non sai risvegliarti dall’inganno e dal sogno” (Cacciatori I, 28).
E’ proprio questa contraddizione di fondo che ce lo rende così attuale (ha certamente influenzato anche la pinacoteca surreale del Satyricon di Fellini).
Contraddizione che non poteva essere avvertita dai grandi pittori del Rinascimento, che consideravano ancora l’antichità come un tutto unico. Infatti lo presero come pura fonte di ispirazione classica. Tradendolo meravigliosamente.
Stiamo parlando della fortuna del libro come repertorio iconografico: dall’editio princeps delle Eikones  curata dal grande Aldo Manuzio nel 1503, alla prima traduzione italiana operata qualche anno dopo da Demetrio Mosco per Isabella d’Este fino a quella francese di Blaise de Vigenère (1609).
Il Trionfo di Galatea di Raffaello alla Farnesina è una rivisitazione del Ciclope (II, 18) così come i capolavori di Tiziano Omaggio a VenereBacco e Arianna Baccanale degli Andri prendono spunto, più o meno fedelmente dagli  Eroti (I, 6), dall’Arianna (I, 15) e da Gente di Andros (I, 25). Il successo di quest’ultimo quadro della pinacoteca di Filostrato è testimoniato anche dalla versione seicentesca di un altro innamorato del classicismo come Nicolas Poussin (Baccanale con suonatrice di chitarra) che, sulla scia della traduzione del Vigenère, dipingerà anche una Nascita di Bacco, mescolando liberamente Semele (I, 14) e Narciso (I, 23).
Dosso Dossi riproporrà invece ironicamente Eracle tra i Pigmei (II, 22), aggiornando questi ultimi in veste di soldati contemporanei. Tramontata l’utopia del Principe machiavelliano, almeno il sogno di un eroe ex machina per l’Italia devastata dagli eserciti stranieri.
Ma è il suo Giove pittore di farfalle la traduzione perfetta, per immagini, di quanto affermato con coraggio (pendeva la condanna di Platone) nel Proemio, dopo l’abbraccio di arte e poesia: “La pittura è una creazione degli dei” (Proemio 1).

martedì 15 dicembre 2020

MONTESQUIEU A MILANO Pagine e musica

Commento musicale J. F. Rebel, Les Caractères dela danse

Mi hanno sempre interessato in modo particolare queste pagine del Viaggio in Italia. Anche perché lo scrittore vi giunge con le lettere di presentazione del mio caro abate Conti, di cui ho già illustrato in un post il poema “fantascientifico” Il globo di Venere, che immagina pianeta abitato da automi (potrebbero essere loro a produrre la fosfina:-). Inoltre il finale della sua tappa lombarda è quella meraviglia del Lago Maggiore dove, in un’altra gita di piacere, quarantotto anni dopo, Alessandro Volta scoprirà la natura organica del metano.

È dai tempi dell’università che immagino quell’autunno del 1728 in cui Montesquieu visita una Milano di passaggio: non è più quella spagnola dei Promessi Sposi, non è ancora quella teresiana, illuminista, de Il Caffè. Remoti i ricordi  delle conquiste di Luigi XII e Francesco I, inimmaginabile la capitale del Regno d’Italia napoleonico del secolo dopo. Sette pagine per ventitré giornate invece dell’unica per due scarse dedicata alla città da Montaigne nel 1581 (ricca, popolosa, che somiglia a Parigi ma non ha i palazzi di Roma: tutto qui), ma siamo lontani dalla seconda patria di Stendhal.

Nobile accolto da nobili (Borromeo e Trivulzio in primis), l’ospite illustre ha ormai dismesso i panni esotici delle Lettere Persiane e lo scrittore alla moda sarà consacrato filosofo con l’Esprit des Lois solo venti anni dopo. Insomma, un periodo sospeso fra due epoche, come la Reggenza appena terminata in Francia. L’uomo, fresco membro dell’Académie, ha da poco superata la mezza età dell’epoca (39 anni) e si presenta a metà strada fra il ritratto ideale di Dassier e la caricatura di Pier Leone Ghezzi, entrambi dello stesso anno del viaggio.

Deluso dal declino di Venezia, attraversata quella strada che il suo conterraneo Philippe de Commynes aveva descritto quasi tre secoli prima come “la più bella del mondo”, raggiunge il capoluogo lombardo dividendosi subito fra studio, amore e ragione (con supervisione finale dell’ultima). Non c’è da stupirsi, dopotutto diventerà il teorico della distinzione e separazione dei poteri (con sottintesa egemonia dei magistrati razionali custodi delle leggi).



Commento musicale J. P. Rameau, Anacréon, Air gai

In primis è la visita alla Biblioteca Ambrosiana, che entusiasmerà anche De Brosses dieci anni dopo: “È pubblica e vi forniscono di carta, inchiostro e penne… Ed è tenuta benissimo. Si vede che ci sono stati bravi bibliotecari”. Un posto serio e ben organizzato non un rifugio modaiolo per quelli che “han sott gamba el Petrarca” (parola di Domenico Balestrieri, poeta dialettale dell’epoca), dove già iniziava a brillare l’astro - purtroppo di breve durata – di Francesca Manzoni, antenata di Alessandro ma soprattutto raffinata traduttrice di Ovidio e autrice di tragedie-oratorio come L’Ester (che le varrà il titolo di “poetessa dell’imperatrice” nel 1733). “Perché”, come scrive il compianto Giovanni Macchia nella prefazione, “a Milano brillavano in quel tempo, e in misura maggiore che a Parigi, molte dame attratte, secondo la moda, dai piaceri della scienza. Non si scorgevano donne tra i leggii della Biblioteca Reale di Parigi”. Citando la Manzoni/Ester: “Cedon gli editti ove leggiadra donna/ Prieghi”. C’è poi un’affermazione dello studioso francese che, se da un lato è acuta, dall’altro lascia perplessi: “La lingua italiana ha questo di abbastanza singolare: che non c’è nemmeno un libro che si possa proporre come modello: ognuno scrive a modo suo… Taluni propongono il Boccaccio; altri, Guicciardini”. È vero che all’italiano mancava un modello principe come il Dictionnaire de l'Académie française del 1694 (così come mancava uno stato nazionale assolutista regolatore), ma questo riguardava soprattutto la prosa. Montesquieu, figlio del classicismo stile Luigi XIV, sottovalutava, dimenticava o semplicemente non accennava alla poesia e all’ancora fin troppo vivo dogma petrarchesco.


Commento musicale G. B. Sammartini, Concerto per flauto di Pan e organo

Nel frattempo - ma questo si scopre dalle lettere – nel busto del presidente del parlamento di Bordeaux s’insinua il fuoco della passione. Per la matura e coltissima contessa Clelia del Grillo Borromeo: “È molto dotta: conosce oltre alla sua lingua materna, il francese, l’inglese, il tedesco, il latino e perfino l’arabo, le matematiche, la fisica, l’algebra. Ha fatto molti esperimenti di fisica. Mi colmò di gentilezze di ogni genere: la femme la plus admirable de l’univers”. E, soprattutto, per la bella e vivace principessa Archinto Trivulzio, alla quale molto probabilmente invia quella lettera in italiano in cui si descrive perfetto cicisbeo che deve “desiderar molto, sperar poco, tacere sempre” – confidando in un inevitabile tradimento del marito che la porti per vendetta fra le sue braccia – e alla cui partenza per la villeggiatura in campagna cambia registro dando libera uscita a una disperazione degna di una tragedia di Racine (dal Bajazet aggiungo io, i miei preferiti: "Soupirs d'autant plus doux qu'il les falloit celer,/ L'embarras irritant de ne s'oser parler", "I sospiri più dolci perché dissimulati,/ La snervante tensione, il non essersi parlati").

Teatro delle passioni, teatro delle convenzioni, sincerità dietro le quinte o nello spazio del suggeritore. Sincero l’interesse per l’eros, anche reazione al bigottismo degli anni del tramonto del Re Sole. In un’epoca in cui estetica ed erotismo (ma sarebbe il caso di aggiungere voyeurismo) andavano di pari passo nella raccolte d’arte Montesquieu, a Firenze, era rimasto turbato dalla visione della Venere Medicea e ipnotizzato da altre statue callipigie, lamentando di fronte alla piccola scultura di un Sileno la fine del paganesimo. Un interesse che talvolta sconfina nel morboso. Non è un caso che inquadri fra il grande elogio dell’Ultima cena di Leonardo ("uno di più bei dipinti del mondo") e i paesaggi di Palazzo Trivulzio il bassorilievo decisamente esplicito che trova in casa del conte Archinto e che ornava Porta Tosa: “È chiamata così perché durante un assedio, mentre i nemici si preparavano a dare un assalto, una ragazza si mise tutta nuda sulle mura e si rase la fica. Ciò attirò l’attenzione degli assedianti e diede il tempo di fare una sortita per liberare la città”. La notizia è tratta dalla Patria Historia di Bernardino Corio (ma oggi si danno altre spiegazioni).

Poi il presidente si ricompone e scrive con entusiasmo dell’Ospedale Maggiore, la Ca’ Granda, capolavoro del Filarete: “Un edificio bellissimo, con un cortile molto vasto, intorno al quale gira un porticato”. È quello che poi è diventato la mia mia università, la Statale, dove iniziai a interessarmi al libro di Montesquieu proprio studiando le righe che seguono per un esame di storia moderna dove si trattava anche dell’infanzia abbandonata: "Tutto fa capo al grande cortile, dove si ha cura dei malati e si accolgono i bambini abbandonati. Ce ne sono stati nell'ultimo anno 360... Chi ha reso incinta una ragazza la conduce di nascosto all'Ospedale e lì la fa partorire, in segreto”. Quanto spesso oggi luoghi così pieni di luce sono stati posti da incubo: è bene non dimenticarlo mai. Si tratta di dati terribili, che resteranno tali ancora a lungo - nell'ultimo decennio del XVIII secolo la media annuale salirà a 1464! - e mi hanno insegnato a non provare certe ingenue nostalgie per il tempo che fu. Per approfondire vi rimando all’ottimo studio di Flores Reggiani ed Elisa Parisi L'esposizione infantile a Milano fra Seicento e Settecento.


Commento musicale J. J. Quantz, Trio in Do Minore, Andante

È quindi la volta del politico ad analizzare sotto il lume (francese) della ragione storia, attualità ed economia del Milanese, rimproverando a spagnoli e austriaci di non trarre frutto adeguato dalle grandi risorse agricole del territorio: "Le terre sono abbastanza ben coltivate per un paese appartenuto alla Spagna... Ho sentito dire che Minorca, da quando appartiene agl'Inglesi, produce quattro volte più di prima". È il modello inglese che si fa strada insieme alla nascente Rivoluzione Industriale, leitmotiv di tutto l'Illuminismo. "Ho sentito dire che  conta ancora 800.000 anime. La Lombardia è molto più popolosa del resto dell'Italia. I Tedeschi mandano in rovina questo paese: sono odiati più di quanto si possa dire; non fanno nessuna spesa, non portano proprio nulla, come invece fanno i Francesi, ma portano via, continuamente... C'è una bella differenza fra il commercio delle province in Francia e quello del Milanese; e quindi credo che il Milanese è più tassato... Il conte di Daun, governatore di Milano, buon uomo, che pensa solo ai fatti suoi, rinvia tutto al Senato... Le signore italiane non hanno mai voluto entrare al servizio dei governatori di Milano e i milanesi hanno fortemente disapprovato che due nobili della città abbiano accettato d'essere uomini di camera del governatore: è il primo che l'abbia avuta vinta su questo punto... La Lombardia è tutta quella pianura che si stende fra le Alpi e l'Appennino... la più deliziosa pianura del mondo". Poi, una volta giunto alle Isole Borromee, per bocca dell'abate-principe di Melfi, aggiunge: "Nello Stato di Milano non nasce nulla senza concime, ma i contadini hanno i mezzi e grandi capacità per procurarsene; mentre in Ungheria non c'è che da seminare il grano perché nasca. Ciò dipende dal fatto che l'Ungheria non è così ben coltivata e che le terre riposano di più. Le carni del Milanese sono più nutrienti di quelle della Germania e della Francia: e questo è da notare bene... Anche il pane è più nutriente".

C’è inoltre un commento tecnico militare sul Castello Sforzesco che lascia adito al sospetto di un consiglio per futuri conquistatori francesi (era ancora fresco il ricordo della resa delle truppe franco-spagnole, anche se con l’onore delle armi, nel 1707): "Sono stato a vedere il Castello. È troppo grande: occorrerebbe una guarnigione di 6.000 uomini, almeno, per difenderlo. Attualmente ce ne sono solo 5 o 600... Dicono che a causa degli orecchioni che ci sono, le gole dei bastioni non sono sufficientemente larghe, tra un fianco e l'altro, per poter entrare e uscire". L'immagine che ho inserito è il pacifico, solatio paesaggio del Bellotto (circa 1750). Per i diversi bagliori della conquista bisognerà attendere Napoleone.



Il finale è un degno happy end stile melodramma dell’epoca con tanto di prospettive scenografiche del fondale che mutano illustrando il panorama luminoso delle Isole Beate del Lago Maggiore: le Isole Borromee. Ma prima di raggiungerle e conquistare una laica beatitudine occorre naturalmente attraversare la tempesta, che lo blocca per un’intera giornata a Sesto Calende il 17 ottobre. Anch’io ricordo una bellissima giornata autunnale di pioggia e vento nella mia cara Sesto fine anni ‘80, armato di walkman e Chaos degli Élémens di Jean-Féry Rebel. Ma qui ho scelto Campra per la giornata di sole regale in cui il filosofo approda nelle sue Isole Fortunate: “Sono un vero incanto... Terrazze poste le une sulle altre con i muri coperti di aranci, di limoni, di cedri. C'è n'è una estremamente curata; l'altra più rustica, e tutto corrisponde a questa rusticità... Non è possibile vedere qualcosa di più bello dell'isola che si chiama La Bella. C'è un edificio o corpo centrale capace di accogliere un principe.. Vi si accederà per un anticortile, che non è stato ancora fatto, e che sarà costruito sul lago... C'è una specie di grotta rustica con al centro l'Ercole Farnese" - oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli - "la quale determina un grande prato erboso... Si arriva nel giardino e c'è da notare che, siccome l'edifico non è a squadra col giardino, la doppia scalinata, o scalinata a corna, è più lunga da una parte che dall'altra, per nascondere questo difetto. Si entra quindi nel giardino e si sale poi, di terrazza in terrazza, fino a uno spiazzo dov'è un uomo che cavalca un liocorno, e dietro c'è un'altra bella porzione di giardino, con balaustre, da dove si vede il lago da ogni parte: un effetto stupendo... Il palazzo è pieno di eccellenti copie dei più bei quadri e anche di alcuni originali. Si lascia a malincuore questo sito incantevole”.

Il sipario sul soggiorno milanese si era alzato sui lumi della scienza della contessa Borromeo nella città reale e cala sulle scenografie, a metà fra Barocco e presagio delle architetture illuministe di Ledoux, nel suo piccolo, magnificente, arcipelago di utopie aristocratiche: percorso circolare, orbita intorno a un sole che da culmine di gerarchie nobiliari diventerà luce per tutti gli esseri umani.


Dopo le gioie lacustri lo scrittore dovrà incontrare fiumi ancora in piena per raggiungere Torino. Attraverserà anche questi. L’ottimismo della ragione non temeva ostacoli.

Luca Traini

sabato 12 dicembre 2020

PITTRICI NELL'IMPERO ROMANO Iaia di Cizico e le altre



Un capitolo poco conosciuto, perso nella monumentale Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (il 147 del Libro XXXV). Pochi anche i nomi: Timarete, Aristarete, Olympias, Irene, Kalypso.
E su tutte Iaia di Cizico, “perpetua virgo” (quindi libera da mariti padroni), greca ma attiva a Roma fra II e I secolo a.C., autrice su tavola e avorio soprattutto di ritratti femminili: “Nessun’altra mano fu più veloce a dipingere e con tanta arte da superare i due ritrattisti più celebri dell’epoca, Sopolis e Dionysos, le cui tavole riempiono le pinacoteche”.
Nella grande assenza della pittura d’autore dell’arte antica non ci resta che immaginarla sulla scia delle pittrici ritratte negli affreschi di Pompei, nelle miniature medievali delle Donne famose di Boccaccio (dove passa alla storia come Marcia) o nel quadro di Michel Corneille nel Salon des Nobles a Versailles (in buona compagnia prefemminista con Penelope, Saffo e Aspasia).
Torna alla memoria quello struggente verso della poetessa Sulpicia (altra rarità), che visse qualche decennio più tardi:
“Hic animum sensusque meos abducta relinquo”
“Trascinata altrove è qui che abbandono /Il mio animo e gli affetti”.


venerdì 11 dicembre 2020

TEATRI DI GUERRA 7 Georg Büchner: teatro di scienza della rivoluzione

Io e Georg siamo fratelli dal 1986, quando incontrai il suo Teatro dopo il dramma di Hölderlin ricomposto da Peter Weiss. Ho sempre amato questa Germania che sfugge ai soliti schemi, materia sempre viva che sente lo strazio e si ribella contro la condanna a uno “spirito” che la vuole schiacciare, anche quando riveste le forme impeccabili della filosofia di Hegel. Poi, vicina e inquieta, dentro e altra, la Francia. I drammi dello scrittore e medico, “La morte di Danton”, “Leonce e Lena”, “Woyzeck” sempre al mio fianco da quando lui, morto a ventitré anni, era di due più grande di me.

[…]

BÜCHNER

Le scoperte della scienza hanno questo che le rende simili all’arte: l’inevitabilità. E lo scienziato, come l’artista, è sopraffatto da questa rivelazione. La sensazione è quella di un pezzo di legno alla deriva che sulla schiuma del mare in tempesta viene ritrascinato a terra. Tutto è solido sotto i piedi, ma che fine ha fatto Ulisse? È tornato ad Itaca. Il Barbo europeo invece, il pesce di cui ho studiato il sistema nervoso, lo studio che ha permesso a un rivoluzionario in esilio di trovare una cattedra a Zurigo, è capace, anzi, adora nuotare controcorrente, risale cascate, lambisce rocce taglienti e rive accidentate. Teme solo il freddo glaciale, come un governo tedesco assoluto restaurato o falsamente riformato. Si può morire a 23 anni quando si sta ancora imparando da pesci e anfibi?

[…]

WILHELMINE JAEGLÉ

Il mio Georg è morto di tifo. Eravamo fidanzati da cinque anni, ho fatto di tutto per raggiungerlo. Dovevano trovarmi per forza una compagna di viaggio per arrivare qui da Strasburgo, maledette convenienze! Dovevo trovare dei medici, degli scienziati come lui che mi dicessero di no: “Si faccia coraggio, non la riconoscerà”. “No, no, mi riconoscerà” è stata la mia risposta. Chiara e forte come la sua parola. E infatti mi ha riconosciuto, ha sentito la mia vicinanza, ho portato pace su di lui. È spirato dolcemente e gli ho chiuso gli occhi con un bacio.

[…]

GRANDUCA D’ASSIA

Georg Büchner… il figlio del medico? Il rivoluzionario che studiava i pesci? Ah, è morto? E quanti anni aveva? Era giovane. Ventitré? Un pesce piccolo. È morto a Zurigo? Bene, la Svizzera è quella piccola boccia dove possiamo lasciarli nuotare. Basta che ci restino, anche quando finiscono per galleggiare. Da noi è contro natura che i pesci che devono restare muti parlino: neanche la sua tomba voglio qui. Ho già i possidenti che disturbano il pagamento regolare dei miei debiti. Cos’è che aveva scritto con quel prete che abbiamo torturato? Ah, è morto anche lui? Suicida. Due problemi in meno. Cosa avevano scarabocchiato in quel fogliaccio, Il messaggero dell’Assia? “Pace alla capanne! Guerra ai palazzi!”, già. Poveri illusi, i contadini ci hanno consegnato uno per uno questi quattro studentelli rabbiosi, perché non sanno leggere. Perché hanno, e devono avere altri problemi. Altro che studiare: devono pagare anche loro i miei debiti! Vogliono la pace per le loro capanne: questo è il prezzo. E se il Congresso di Vienna avesse fatto riposare in pace anche i miei debiti - non ci vuole il pensiero di quel prussiano, Hegel voglio dire, ho fatto anch’io l’università - non sarebbe una pace perfetta? È tutta una questione di soldi. Chi prima ci arriva… Come dice il Vangelo? I talenti stanno sottoterra. E i poveri li avremo sempre con noi. Quando si dice che trono e altare devono parlare la stessa lingua. Se lo tengano i repubblicani svizzeri questo cadavere di ateo che parlava ai pesci. La sua moltiplicazione di pani non è prevista qui.

 […]

CORO DEGLI EDITORI

Un dramma non finito

Tutti i fogli in disordine

Pessima la grafia

Pessimo anche l’inchiostro

E poi il protagonista

Pezzente, delinquente

Woyzeck… Wozzeck… che nome

Roba che non si vende

[…]

CORO DEI VINCITORI DEL PREMIO BUCHNER

Quel Barbo sott’acqua, controcorrente

Nuota finché la scrittura riaffiora

Un secolo dopo, come il coltello

Di Woyzeck, della vittima omicida

Del pesce più piccolo, la sua donna,

Tutti e due proprietà del Granduca.

Su, pesci fuor d’acqua, bisturi e inchiostro:

Sarà sempre ora di incidere, scrivere!

Luca Traini

da Teatri di guerra (Ideazione 1999, Frammenti scelti)

EPISODIO I Agatarco di Samo ad Atene: questione di prospettive

https://lucatraini.blogspot.com/2019/12/teatri-di-guerra-1-agatarco-di-samo-ad.html

EPISODIO II Ambivio Turpione: commedie?

https://lucatraini.blogspot.com/2020/02/teatri-di-guerra-2-ambivio-turpione.html

EPISODIO III Rosvita di Gandersheim: avanguardia in clausura

https://lucatraini.blogspot.com/2020/04/teatri-di-guerra-3-rosvita-di.html

EPISODIO IV Albertino Mussato e Dante Alighieri: teatro horror per virtù civiche

https://lucatraini.blogspot.com/2020/06/teatri-di-guerra-4-albertino-mussato-e.html

EPISODIO V Poliziano e Botticelli: componimento di Orfeo, crepuscolo dell’Umanesimo (1494)

https://lucatraini.blogspot.com/2020/08/teatri-di-guerra-5-poliziano-e.html

EPISODIO VI Pietro Metastasio: Arcadia al potere

https://lucatraini.blogspot.com/2020/10/teatri-di-guerra-6-pietro-metastasio.html

giovedì 10 dicembre 2020

QUANDO CLASSICISMO FA RIMA (E MALE) CON MASCHILISMO I casi Eton e Rocci



Come non bastasse quanto successo a Eton qualche settimana fa ci si  è messa pure la pagina Facebook del dizionario Rocci. Brutte pagine che si pensava ormai archiviate come esempi di un passato da non ripetere mai più.

In Gran Bretagna, sembra pazzesco, ma le scuole miste sono ancora un’eccezione e solo nel 2017(!) Oxford ha ammesso più ragazze che ragazzi. L’elitarissimo collegio sfornapremier di Eton, modello di successo privilegiato come di nonnismo istituzionalizzato fino al 1980 (una brutta atmosfera che ho già descritto in Tucidide e Boris Johnson: il lato oscuro dei classici), è poi ancora sprangatissimo contro qualsiasi accesso femminile e si è distinto in negativo per una doppia levata di scudi. Il preside, coadiuvato da buona parte del partito conservatore, contro il ministro dell’istruzione Gavin Williamson – tory anche lui ma mosca bianca, forse perché viene da una famiglia di laburisti – per aver timidamente auspicato: “"Spero che in futuro apra le porte anche alle ragazze"… Gli studenti contro il preside per il licenziamento di un insegnante (diciamo così) di inglese - probabilmente la mummia scongelata di un inquisitore di epoca Stuart - che in una lezione ha sostenuto che le donne desiderano essere "schiacciate dalla potenza mascolina". Un insulto becero rivolto anche a chi fa storia seriamente e alla vera tradizione di studio scientifico della scuola storica inglese.



Perfino da noi qualche reazionario ha blaterato di persecuzione da parte del “pensiero unico dominante”, del “mainstream” e fesserie simili e ha cercato di difendere una specie di principio di “democrazia” interno al collegio. A parte il fatto che in democrazia deve rientrare anche il parere delle donne, che, non dimentichiamolo, sono maggioranza e a Eton non hanno voce, la questione, gravissima, non può essere trattata come un affare interno del collegio, perché investe il comportamento che questa massa di studenti avrà una volta uscita da questo specie di paradiso artificiale da padreterni, bellicosamente schierato contro Eve, presunti serpenti e mele. La democrazia non è questione di privilegi ma di diritti, universali e inviolabili, dove la parità di genere è fondamentale e qualsiasi forma di schiavitù (in questo caso sessuale) non può e non deve essere mai contemplata, teorizzata, divulgata o tantomeno praticata. Inoltre, l’ignoranza di docente, studenti e loro difensori non tiene conto della lampante evidenza a livello mondiale della media superiore delle valutazioni ottenute dalle studentesse. Evidenza che avevo già felicemente sperimentato come studente delle nostre preziosissime classi miste e che il decennio da insegnante nelle Medie Inferiori e Superiori mi ha perfettamente confermato.


Ma torniamo alla questione del privilegio, che è importante per collegarci all’altra pessima uscita social del Rocci (che mi spiace doppiamente perché è stato uno dei dizionari di greco che ho usato fra liceo e università). Andare a pescare un termine raro come “gineconomo”, un magistrato sovrintendente in Atene e altre città greche ad abiti e condotta delle donne durante le loro uniche occasioni di uscita (feste e funerali) e porlo, con ironia da quattro soldi, a modello per la nostra società che immagino, nella sua mente bacata, consideri “corrotta” o, con un altro aggettivo idiota, “decadente”.

Un altro triste caso del 2019, prontamente risolto grazie a un deciso e fermo intervento.

In primis lo squallore della freddura che segue la traduzione (parziale) del termine greco, degna di un goliardo di quart’ordine degli anni ’50, che sia opera di un semplice ignorante addetto alla comunicazione o di uno di quei docenti indecenti a cui “cade l’occhio”. E, soprattutto, la ripugnante crudeltà della stessa se si pensa agli orrori attuali dei tanti femminicidi e alla terribili condizioni di vita delle donne in tante parti del mondo. Se a questo aggiungo poi quella recentissima assoluzione per “delirio di gelosia”, mi verrebbe voglia di dire che oggi avremmo bisogno di magistrate “andronome che diano una regolata a certi maschi: altro che vecchi (o giovani invecchiati) bavosi controllori di una “morale femminile”!

Ma per fortuna non siamo più nell’era geologica del “dente per dente”, non viviamo più nelle epoche del privilegio legalizzato che  sono giunte, in pratica, fino alla fine della seconda guerra mondiale se non alla metà degli anni ’70 (la riforma italiana del diritto della famiglia data, non a caso, 1975). La risposta a questi “laudatores temporis acti”, apparenti o meno (specie ai più perfidi, che fanno passare certi messaggi fra le righe), è sfrondare i loro miti e portare alla luce i loro loschi fini.


"Democrazia": da maschile a femminile


Il mito della “classicità” o di altre epoche passate piazzate come pietre di paragone rispetto a una presunta inconsistenza del tempo presente è una tentazione che, purtroppo, non appartiene solo a loro. C’è tanta gente anche giustamente stanca della massa di chiacchiere o immagini effimere diffuse esponenzialmente, rispetto al passato, dalle diverse forme della comunicazione online. Ma questo aumento è soprattutto di carattere quantitativo e lo è sempre stato ogni volta che una nuova tecnologia ha favorito una maggiore diffusione e un maggiore accesso alla comunicazione. Ci si dimentica troppo spesso della grande quantità di immondizia presente nei media dei “bei tempi andati”: roba per specialisti, storici, come il sottoscritto, utile per quella che genericamente viene definita “storia dei costumi”. Lo storico contestualizza, non fa manifesti per il ritorno a chissà quale “età dell’oro” anche se il rischio di parlare sempre bene dei morti è sempre in agguato.

La Grecia antica (e ancor più Roma) non sono esenti da questo discorso, tanto più che la tecnica scientifica del loro studio si è venuta sviluppando soprattutto nella temperie nazionalistica imperversante da metà Ottocento a metà  Novecento, spesso con coloriture, anzi, biancore assoluto di stampo xenofobo e razzista (il vecchio modello di Europa maestra del mondo come Atene dell’Ellade). E a livello più basso la dotta citazione greca o latina da sfoggiare come segno, in piccolo, del proprio innalzamento di status.

La Grecia antica (arcaica, classica o ellenistica che sia), presa nel suo insieme, non è certo un modello valido oggi. Neppure Atene con la sua “democrazia”, privilegio esclusivo di cittadini maschi figli di padri e nipoti di nonni materni in possesso di una cittadinanza quasi mai elargita a stranieri, anche se domiciliati nella polis da decenni (forse questo ci richiama qualcosa di attuale). Stranieri e schiavi, che rappresentavano la maggioranza degli abitanti. È chiaro, contro ogni evidenza storica, che tutti questi amanti della classicità ateniese si immaginano Pericle, Sofocle o Platone. Certo non schiavi, magari fuggiaschi marchiati a fuoco, nell’inferno delle miniere del Laurio o piagati e piegati in due come strumenti agricoli nelle campagne.

E parliamo del caso migliore. Solo per fare un esempio, a Sparta sarebbe stato molto peggio, anche facendo parte della classe dominante dei carnefici (a meno di non arrivare, privilegio di pochi, alla vecchiaia).

Per le donne il discorso si fa ancora più cupo. Nella democratica Atene quelle nate da cittadini sono confinate in casa, come abbiamo detto, tranne che per feste e funerali, sotto tutela di un maschio per tutta la vita e in pratica considerate semplici strumenti di riproduzione. Una gloria per loro? Parlarne il meno possibile. Parola di Pericle, che infatti come compagna si era preso una straniera come Aspasia, coltissima e con nessuna voglia di tacere in compagnia di politici e filosofi. Ma era un’eccezione, non solo in Atene. E se le prospettive di vita erano squallide per le cittadine delle polis greche, figuriamoci per le straniere comuni o le schiave. Facile immaginarsi Saffo, Corinna, Aspasia o qualche regina ellenistica, meno la massa delle donne prigioniere, sequestrate o comprate sottoposte a ogni genere di soprusi e brutalità fin dall’infanzia. Senza contare le bambine abbandonate nelle varie discariche - perché erano soprattutto femmine – rifiutate dai padri e preda dei vari lenoni e mercanti di schiavi sempre in agguato fuori dalle mura delle città. Le poche donne riuscite a salvarsi da queste sabbie mobili, in massima parte, hanno considerato questa conquista un privilegio senza mettere assolutamente in discussione patriarcato e maschiocrazia. Cosa che si è ripetuta nei secoli, specie negli ranghi più alti (ancora con la regina Vittoria ma anche con le regnanti della prima metà del ‘900). Questo modello è stato dissotterrato negli ultimi tempi in diversi partiti populisti di stampo conservatore, specie nell’Est Europa, con certe dirigenti in prima linea contro i diritti conquistati dalle donne e considerati fondamentali dall’UE in nome di una tradizione tutta maschilista e sciovinista.


Pina TrainiAspasia, 2016

Tornando alla Grecia sappiamo tutti che ha dato contributi fondamentali anche per la nostra civiltà, ma secondo il nostro punto di vista, frutto dell’analisi e della rielaborazione di tutte le interpretazioni precedenti. Una scelta difficile, faticosa e tormentata che le migliori menti della nostra cultura democratica hanno selezionato per sottoporre a un confronto continuamente in fieri, dipanando fili conduttori in grado di riunire aspetti fondamentali ma comunque minoritari di quella cultura, anzi, delle sue diverse culture.

Non lasciamoci quindi abbacinare solo dai resti della sua arte. Se ci si perde
 nei suoi frammenti o si assolutizzano soltanto i cocci rischiamo di perdere la comprensione del suo insieme e finiamo per lasciare spazio, anche qui, ai deficienti e ai furbi.

mercoledì 9 dicembre 2020

UNA RAGIONE PER CREDERE, FAR CREDERE, DOVER CREDERE L'esempio negativo del "Fedro" di Platone

Commento musicale Luigi Nono, ...Sofferte Onde Serene..




Un filosofo abusato per citazioni da Baci Perugina che invece va sempre contestualizzato. Il rischio è di finire con la solita mediocre manfrina che “siamo nani sulle spalle dei giganti”.
Il prologo del Fedro di Platone, in riva a quel fiume Ilisso oggi cementificato, forse esorcizzato, è esemplificativo di un pensiero reazionario che vuole – e deve – rinnovarsi senza rinunciare ai miti fondanti del proprio potere.
Di fronte alla domanda di Fedro se proprio dove avviene il dialogo – in apparenza libero – sia avvenuto il mito di Borea che rapisce la figlia del re di Atene Eretteo, Orizia, Socrate, un Socrate rivisitato e corretto, risponde, mentendo, di sì. Pur “sapendo di non sapere” – o proprio per questo, visto che il motto è un’eredità aristocratica sapienziale dell’Apollo delfico -  ci crede  e non sarebbe il personaggio strano, fuori moda che è se non ci credesse.
I motivi di questo credo antico riattualizzato sono due e tutti politici.
In primis,Borea è ormai un dio nazionale per l’Atene democratica, perché si crede a furor di popolo che sia intervenuto contro la flotta di Serse durante la seconda guerra persiana e, in ogni caso, è meglio che le masse credano a un dio della tradizione che a chissà quale nuova scienza (il naturalismo, l’atomismo o, peggio del peggio, la critica radicale di certi sofisti). E’ necessario non farsi nemici per blasfemia, specie se ci si deve presentare come tradizionalisti.
Due, perché, proprio innovando l’antica tradizione religiosa alla base dell’antico potere aristocratico, se lo si vuole rinnovare e scalzare la democrazia in crisi, bisogna tenere in piedi quel mito come primo gradino di un processo di conoscenza riservato a pochi che porta a una nuova verità assoluta e indiscutibile per un nuovo potere assoluto e indiscutibile: quello della nuova nobiltà proprietaria – terriera e non -  che rigiustifica il proprio dominio sociale, politico e culturale usando lo strumento che aveva aggiornato il nemico, quella parte della borghesia imprenditoriale che, in Atene, si era alleata con le classi lavoratrici (schiavi e stranieri purtroppo sempre esclusi nell’antichità): il metodo filosofico. Pochi nuovi filosofi che sanno cos’è bene e male per tutti gli altri. Nuovi legislatori che sanno usare la parola della tradizione come lo strumento rivoluzionario della scrittura per imporre la loro verità in forma di assoluto, sciolto da qualsiasi convenzione condivisa fra tutti come una Costituzione moderna: l’idea, le idee superiori che organizzano materia e materie inferiori.
Ecco perché, secondo Platone e tutte le migliori menti conservatrici, bisogna far credere a tutti che la tradizione dica la verità, a pochi che la tradizione indichi il primo passo verso la stessa e che la vera realtà sia un potere assoluto come quello di un dio, ma, fino a un certo punto, comprensibile. Oltre, c’è la punizione, la reclusione anche per i dissidenti della classe dirigente e, in assenza di pentimento, la condanna a morte perché tutto resti come prima. Anche se tutto cambia, “tradizioni” in primo luogo: è la contraddizione di fondo di tutte queste filosofie-teologie.

P.S. Consoliamoci, noi democratici contemporanei, con la filosofia. Siamo tolleranti, anzi, comprensivi nella migliore accezione di questo aggettivo (lo dico senza ironia) e qualcosa di “vero” c’è in questo tipo di sapere: non si può far finta che la tradizione, le tradizioni non abbiano la loro importanza (sul nulla non s’innesta niente). I legami che impediscono qualsiasi “assoluto” (“sciolto da tutto”) vanno sempre presi in considerazione così come vanno evidenziati, per quanto possibile, interessi e finalità che ci stanno a cuore. “Per quanto possibile”: la maledizione platonica diventa aristotelica. Ma se non ci affidiamo ad atti di coraggio, a pensieri responsabili finiremo solo per cementificare fiumi che presto o tardi romperanno ancora una volta gli argini.

Per approfondire vedi anche