mercoledì 19 febbraio 2014

ZURBARÁN A FERRARA, QUEVEDO IN SOGNO

Da un lato era giovane e dall’altro era vecchia.
A volte camminava piano, a volte velocemente.
Ora sembrava esser lontana, ora essere vicina.
Le chiesi chi fosse e lei mi rispose: “La morte”.

Francisco De Quevedo, Sogni e Discorsi


Commento musicale I Girolamo Frescobaldi, Toccata VIII, Libro I, clavicembalo


Francisco de Zurbarán, Natura morta, 1630

Francisco de Zurbarán e Ferrara non hanno in comune quasi nulla se non una data.
Il 1598, quando nasce il pittore e la città e la Spagna perdono la loro grandezza: la prima finendo assorbita dallo Stato Pontifico, la seconda con la morte di Filippo II e tre bancarotte.
Non molto. Certo, fare la stessa esposizione a Hong Kong sarebbe stato ancora più surreale (meno a Macao, Casinò Venetian permettendo), ma le mostre, si sa, non contano tanto per i singoli quadri quanto per l’insieme delle opere in simbiosi con tutto l’apparato multi e cross mediale che fa da cornice.
Sono, in sintesi (anche chimica), delle installazioni, arte contemporanea. Quindi vanno bene dappertutto.

Questo non significa che il restauro delle singole opere non debba essere condotto col massimo rigore filologico, né che allestimento e catalogo non debbano cercare di ridare vita a una dimensione storica, tutt’altro. Ma essere coscienti, sempre, che la complessità di tutto questo travaglio corrisponde alle aspettative consce o meno di restauratori e allestitori in carne e ossa, che lavorano confrontandosi con una tradizione di fedeltà all’originale che data sì e no due secoli, quando prima, tranne rare eccezioni, neppure ci si poneva il problema.

Insomma, non c’è niente di male: il rapporto col passato non può che essere straniante. Dopotutto state leggendo un blog impalpabile e vedrete dei file Jpg.
Inoltre fare oggi una mostra di Zurbarán in un convento, luogo di elezione dell’artista, non ricreerebbe che in minima parte la fatidica “aura” delle origini – e nemmeno la sua puzza e il fanatismo che solo una grande arte riuscì a sublimare.
Un’arte ufficiale, benedetta da Stato&Chiesa, ma sentita fino al midollo. Noi oggi per questo siamo disposti a perdonare Damien Hirst, figuriamo quindi Francisco e i suoi francescani.

Francisco de Zurbarán, San Francesco (1639, 1645, 1635)

Incenso consigliato: i versi di Giovanni della Croce.

O fiamma d'amor viva,
Che sì dolce ferisci
Nel centro dell'alma, ove s'interna e cela!
Or che non sei più schiva,
E che lo vuoi, finisci:
5
Rompi del dolce incontro omai la tela!

Profumo: la prosa di Teresa d’Avila.

Se i rapimenti mi fanno uscire di me per la gioia, la mia anima viene colta da sospensione anche per un dolore molto forte e rimango priva di sensi. (Libro delle relazioni e delle grazie, 15).


Anche visitare le uniche tele rimaste in loco, al Monastero di Nostra Signora di Guadalupe, senza la percezione di spazio e tempo tipiche dell’età barocca è illudersi, una splendida illusione, una “dissimulazione onesta”, ma pur sempre una finzione, come chi ripete a piedi il cammino di Santiago senza feudatari, Inquisizione, epidemie, denti cariati.


Francisco de Zurbarán, Visione di San Pietro Nolasco, 1629

¿Qué es la vida? Un frenesí.
¿Qué es la vida? Una ilusión,
una sombra, una ficción,
y el mayor bien es pequeño;
que toda la vida es sueño,
y los sueños, sueños son.


Pedro Calderón de la BarcaLa vida es sueño


Dicevamo, la mostra a Ferrara… Beh, è una bella cartina al tornasole per mostrare le tenebrae del pittore spagnolo, esaltate dal chiarore del  capoluogo emiliano. Perché il Secolo d’Oro della cultura spagnola fu anche il secolo della sua ombra, la grande ombra politica che sarebbe scesa sulla penisola iberica. Capolavori proiettati come splendidi fuochi d’artificio dalle sconfitte dei suoi eserciti, strappati al “magazzino in cui si custodisce il buio delle notti” (ancora Quevedo, ancora Sogno della morte).


Commento musicale II Tomás Luis da Victoria, Tenebrae factae sunt


Si può citare come madre l’arte di Caravaggio, che arrestato proprio dagli spagnoli perse l’ultima fatidica nave per Roma, e padre il Rinascimento italiano riflesso nelle opere degli artisti della corte multietnica di Carlo V, ma tanta originalità sarebbe stata impossibile senza lo strano connubio fra il nazionalismo castigliano nascente e la rivoluzione estetica di un pittore straniero come El Greco.
Eccolo, “Il sogno di Filippo II”.

Dominikos Theotokopoulos El Greco, Il sogno di Filippo II, 1600

E il doppio del sogno di Filippo II, la morte dell’artista cantata da Góngora:

Tanta urna, a pesar de su dureza,                 Un'urna così insigne, benché dura,
lágrimas beba y cuantos suda olores            lacrime beva e quanti essuda odori
corteza funeral de árbol sabeo.                     funebre scorza d'albero sabeo.

Il sogno che si sarebbe trasformato nell’incubo della restaurazione aristocratica seguita alla morte del re, nonostante i tentativi del Conte-Duca d’Olivares, potente primo ministro di Filippo IV (quello del Manzoni dei Promessi sposi anche se, per l’arte del Secolo d’Oro, sarebbero più adatti certi passaggi degli Inni sacri).
Ecco allora che forme e contenuti del Barocco spagnolo vengono a configurarsi come un grande esorcismo contro la decadenza.
Dalla vena popolare sanguinante di Jusepe de Ribera nella Napoli dei vicerè

Jusepe de Ribera, Il bevitore, 1637

al perfetto e futuribile ritratto in piena luce di un’epoca nelle tele di Velázquez, il Raffaello spagnolo,

Diego Velázquez, Ritratto del Conte Duca di Olivares a cavallo, 1634

all’Agnello di Dio pronto per essere macellato: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice”.

Francisco de Zurbarán, Agnus Dei, 1640

Fra i primi capolavori del Nostro c’è lo splendido, prostrato San Serapio, un santo medievale inglese, certo scelto per propagandare la solidarietà con i cattolici anglosassoni emarginati ma quanto mai vivo nella sua trasumanata sofferenza, preludio a uno di quei martìri atroci (gli furono strappati gli intestini con un argano) di cui si nutriva tanto teatro barocco (pensiamo solo alla Tragedia spagnola di Thomas Kyd, al Tito Andronico di Shakespeare o all’Aristodemo del nostro Carlo de’ Dottori).
Ma Zurbaran allude, non indulge mai in dettagli truculenti. La sua è una religiosità visionaria ma sommessa. La luce si sprigiona dalla visione aperta nella tela come una piaga. Che non sanguina più.
E’ il gioco divino che illumina due parallele che si incontrano nel San Pietro Crocifisso appare a San Pietro Nolasco.

Francisco de Zurbarán, Apparizione dell'apostolo San Pietro a San Pietro Nolasco, 1629

Poi, negli anni ’30, il mistico sembra trasformarsi in creatore di moda. E’ l’epoca di un mirabile defilé di sante a cui si è certamente ispirato Almodovar nel suo Entre Tinieblas. Eccovi quindi una scelta di tre sacre Grazie dall’inquietante bellezza impassibile con tanto di strumenti del loro martirio e una vezzosa borsetta. Quella di Santa Margherita sembra appena uscita da una bottega del commercio equo e solidale. E non a caso: l’America Latina fu una meta privilegiata per la produzione in serie della bottega del pittore.

Francisco de Zurbarán, Santa Casilda (1635), Santa Margherita (1634), Santa Marina (1650)

In parallelo a questa metafisica trasfigurata in corpi sognanti si apre la stagione delle “nature morte”. Il termine italiano, naturalmente, non rende giustizia a questa vera e propria arte da mangiare. Anzi, da transunstanziare.

Francisco de Zurbarán, Natura morta, 1633

E l’elenco sarebbe ancora lungo.

Ma non servì al genio. Che morì povero e dimenticato in un lontano 1664. Nel crepuscolo del regno di Filippo IV. Prima della lunga notte triste dell’infelice Carlo II.


Alla Vergine sfugge una lacrima.

Francisco de Zurbarán, Cristo e la Vergine a Nazaret, 1640