mercoledì 31 gennaio 2024

HO RITROVATO PROUST ALLA KOLYMA

Ed ecco che il mondo (il quale non è stato creato una volta sola,
ma tutte le volte che è sopraggiunto un artista originale) ci sembra
completamente diverso da quello di prima, ma perfettamente chiaro.

I Guermantes, trad. M. Bonfantini, Einaudi, p. 354



Ho ritrovato Proust alla Kolyma. Lo devo agli occhi di Varlam Salamov, che avevano visto quello che avevano visto eppure notarono un volume dove non avrebbe dovuto essere. Alle sue grandi mani piagate che scrissero uno dei racconti più belli e strazianti del secolo che fu. Marcel Proust nella sezione La resurrezione del larice o di come pagine leggere volino alte anche sopra l’inferno. I Guermantes ricoverati in un ospedale dell’Arcipelago Gulag, parte amputata di una Recherche tradotta in russo in anni impossibili (1934-38) e subito censurata.
L’inizio è già la fine della lettura: “Il libro era sparito. Il grande e pesante volume in folio posato sulla panca era sparito sotto gli occhi di decine di malati. Chi aveva assistito al furto non l’avrebbe mai ammesso. […] Il furto  di un romanzo di Marcel Proust non è in sé un segreto tanto tremendo da dover essere serbato per sempre. […] Chi ha visto manterrà il silenzio per un buon motivo: ’ho paura’. Quanto questo silenzio porti benefici e vantaggi è confermato non solo da tutta la vita del lager, ma anche dall’intera esperienza nella vita civile.”. E Salamov era fin troppo esperto di quanto costi la parola. Due anni di lavori forzati alla Višera (dal ’29 al ’31), poi l’abisso dell’ Ežovščina con l’arresto nell’anno più terribile, il 1937. Stessa accusa: "attività trockiste contro-rivoluzionarie" (i dogmi amano gli ossimori). La monotonia è uno strumento fondamentale del potere quando deve stritolare ogni diversità, specie se affine (parliamo di eresie). Se poi una singolarità riesce, nonostante tutto, quel “tutto”, a sopravvivere, allora dall’alto cala di riserva come una pressa anche la variazione di stampo: condanna a dieci anni per “agitazione antisovietica” nel 1943 (agitazione estetica compresa: definire Ivan Bunin “un classico della letteratura russa”).
Bunin e Proust (per le affinità l’articolo di Anna Lushenkova), due leggerezze apparenti che pesano. Il prezzo di copertina dei Guermantes tradotti doveva certamente essere alto, specie nel Paese che ancora si definiva “dei Soviet”, ma, chissà da dove e da chi, la copia aveva raggiunto quell’ospedale sperduto del Dal’stroj nella figura dell’infermiere Kalitinskij, un imboscato che nel ‘47 poteva permettersi un paio di calzoni da golf di velluto che non sarebbero dispiaciuti allo scrittore francese. A Salamov ricordavano quelli di un comunista olandese che li aveva ricevuti dieci anni prima e non era riuscito a scambiarli con un po’ di pane. Si era spento in piedi occupando un posto di troppo fra i detenuti stipati come sardine in una “compagnia disciplinare” (“Rur”): “Il mio vicino Fritz David prima morì, e solo in un secondo tempo cadde a terra. Tutto questo era accaduto dieci anni prima: cosa c’entrava Alla ricerca del tempo perduto? Io e Kalitinskij rievocavamo insieme il nostro tempo perduto. Nel mio, di tempo, non c’erano i pantaloni da golf, ma c’era Proust e io ero felice di leggere i Guermantes. Non andavo neanche a dormire. Proust valeva per me più del sonno. E poi Kalitinskij mi faceva fretta.”.
La fretta dei giudici, degli aguzzini nelle miniere d’oro e di carbone, dello scrittore che cerca di fuggire e non è mai più veloce dei cani. E ora anche quella, più tollerabile, come la condizione di prigioniero-infermiere, sopravvissuto alla schiavitù, ai 50° sottozero, al tifo; salvato l’anno prima da un medico-prigioniero, il cui nome va ricordato: A. M. Pantjuchov. Se possiamo leggere un testo fondamentale per l’umanità lo dobbiamo anche a lui.
“Il libro era sparito. Ma chi avrebbe dunque letto questa prosa così strana, quasi senza peso, come pronta a involarsi nel cosmo e nella quale tutte le proporzioni sono scompigliate, rimescolate, in cui non c’è più né il grande né il piccolo? Davanti alla memoria, come davanti alla morte, tutti sono uguali ed è facoltà dell’autore ricordare il vestito della domestica e dimenticare i gioielli della padrona. Questo romanzo allarga in modo straordinario gli orizzonti dell’arte letteraria. Io, uno ‘zek’ della Kolyma, ero stato trasportato in un mondo perduto da tempo, in altre abitudini, dimenticate, inutili. Il tempo di leggere non  mi mancava. Ero infermiere al turno di notte. Ero stato sopraffatto da I Guermantes.”.
La storia racconta di un deportato rapito dalla lettura di un prigioniero volontario, uniti dal segno di una malattia che va oltre il tifo dell’uno o l’asma bronchiale dell’altro. Una malattia sociale, l’odio tradotto in politica, che condanna l’oppositore sovietico così come l’ebreo omosessuale francese. Salamov non vedrà mai pubblicati in Unione Sovietica I racconti di Kolyma (lo saranno solo in era Gorbaciov, 1987), finendo i suoi giorni in una triste casa di riposo in piena stagnazione brezneviana. L’anno prima (1981) aveva ricevuto il Premio della Libertà proprio dalla sezione francese del Pen Club. Meglio tardi che mai, come il Premio Goncourt a Proust tre anni prima di morire, nel 1922, risparmiandosi almeno la visione del rogo dei suoi libri da parte dei nazisti, così come, stella gialla o triangolo rosa, il lager e la camera a gas. L’ultimo autodafé della Recherche, è bene ricordarlo, data 1976, opera dei generali golpisti argentini.
[...]

Continua in

sabato 27 gennaio 2024

GIOVANNI SCOTO ERIUGENA E IL MAESTRO DI ECHTERNACH Connessioni di arte e poesia fra il Dante e il Michelangelo dell'Alto Medioevo

Commento musicale Resurrexi pregregoriano, Ensemble Organum, Marcel Pérès

I versi del filosofo Giovanni Scoto Eriugena e i quattro avori attribuiti al Maestro di Echternach. Il Dante (quello del Paradiso) e il Michelangelo dell’alto medioevo. Uniti da una formidabile potenza espressiva, divisi da qualche secolo - lo scrittore franco-irlandese è del IX, lo scultore tedesco fra X e XI - e dall’ispirazione. Aristocratica e tutta tesa verso orizzonti metafisici quella del primo, il pensatore più importante della sua epoca, sodale e cantore dell’imperatore Carlo il Calvo.  Popolare e fortemente carnale, una vera eccezione per il suo periodo, il secondo, col suo Mosè che quasi strappa le Tavole della Legge al Creatore, il suo Tommaso che dà le spalle senza curarsi dello spettatore e affonda la mano nel costato umanissimo di Gesù e quel Paolo con piedi e mani grossi, la faccia da contadino.
Amo questo contrasto di spirito e carne composti con mirabile, diverso dosaggio. Si parte dalla personificazione della Terra che sostiene la croce per superare il Sole che piange e la Luna che copre il volto per ascendere a quel pentametro del secondo Carme dell’Eriugena che sembra definire la fluttuazione quantistica di Dio:
“Est quod, quod non est, te colit omne super”
“Ti venera sopra ogni cosa ciò che è e ciò che non è”.
[...]

Continua in

martedì 23 gennaio 2024

IL REGNO DEL CONGO, IL PRIMO VESCOVO DELL’AFRICA NERA (1518)

Primo viaggio nella storia delle civiltà africane. Primo amore: il Regno del Congo (oggi soprattutto Angola del nord), conosciuto da piccolo nella meravigliosa enciclopedia I Popoli della Terra, da ragazzo su Africa di Hosea Jaffe, quindi nei libri del grande Basil Davidson e nel saggio letto e riletto di Randles. Fino alla recentissima biografia dello storico del Congo Brazzaville A. F. Nganga su Dom Henrique Ne Kinu a Mvemba (1495-1531), consacrato da vescovo della diocesi di Utica (odierna Tunisia) nel 1518 da papa Leone X Medici e caso unico fino a Joseph Kiwanuka, vescovo di Masaka (Uganda) nel 1939.
Henrique, figlio del grande re (“manikongo”) Dom Afonso I (Mani Sunda) e nipote di João I (Nzinga a Nkuwu), che aveva scelto di convertirsi (spontaneamente) al cristianesimo dopo l’incontro – è bene sottolinearlo: alla pari – con navigatori e stato portoghesi. Sarebbe stato bello vedere il vescovo Henrique partecipare al Concilio di Trento. Purtroppo morì a soli 36 anni nel 1531, quando le  nuove strategie pastorali avevano già iniziato a emarginare gli africani dal sacerdozio.
Il rapporto con la Chiesa di Roma fu comunque più proficuo che col Portogallo. D’altro canto la scelta di diventare cristiani era stata anche, se non soprattutto, politica. C’era tutta la magia di nuove tecnologie e prodotti che approdavano dall’oceano, un tempo ritenuto sfera del sacro, dimora degli spiriti di antenati che si incarnavano in corpi bianchi... E non mi riferisco solo alle armi arrivate con Vele e cannoni (titolo di un libro fondamentale di Carlo M. Cipolla), ma anche a strumenti altrettanto formidabili come libri e scrittura. Afonso I, un gigante della politica dell’epoca, si dedicò subito anima e corpo alla fondazione di scuole per i figli della classe dirigente e, contrariamente all’Europa, l’insegnamento fu aperto anche alle donne (una delle sue sorelle fu apprezzata professoressa). Il corpo docente era però principalmente composto da religiosi europei e continua era la richiesta di nuovi maestri per avere classi meno numerose (proposta lungimirante sempre valida, anche da noi, oggi). Tuttavia, col passare degli anni, appelli come questo e altri finalizzati a un maggior apporto di specialisti nei campi delle più diverse tecnologie rimasero lettera morta alla corte lusitana. In un’Europa che ancora non aveva elaborato teorie di superiorità culturale, ma soltanto cultuale, si faceva strada il timore per la grande intraprendenza del manikongo e del suo popolo. Come ha sottolineato Randles: “Le lettere di Dom Afonso mettono in luce la delusione di un uomo che aveva aderito di tutto cuore alla civiltà europea, che credeva ancora alla buona fede e alla generosità di suo ‘fratello’ – è  la parola da lui usata nel rivolgersi al re del Portogallo – ma che si trovava profondamente sorpreso e rattristato dal comportamento interessato, disinvolto, vedi insolente, dei portoghesi residenti in Congo”.
Afonso I, in una lettera del 1516 al re del Portogallo Manuel I, era stato descritto in termini entusiasti: “Sembra che non sia un uomo bensì un angelo […] conosce meglio di noi i Profeti e il Vangelo e tutte le vite dei santi e tutte le cose di nostra Santa Madre Chiesa […] poiché non fa che studiare e spesse volte gli succede di addormentarsi sui suoi libri e sovente dimentica di mangiare e bere per parlare delle cose di Nostro Signore”.
Soltanto dieci anni dopo il re congolese già denunciava con forza il coinvolgimento dei portoghesi nella tratta degli schiavi, anche a danno dei suoi sudditi:
[...]

Continua in

mercoledì 17 gennaio 2024

IL DIAVOLO E L'ACQUASANTA Due cardinali, tre libri e un tentato omicidio


La biblioteca di norma è un buon anestetico, ma ci sono casi in cui è meglio non mettere accanto certi autori. Due teste calde come il cardinale di Retz e La Rochefoucauld è meglio separarle con un attento mediatore come De Bernis, anche se vissuto un secolo dopo. Infatti il secondo stava per ammazzare il primo, all’epoca solo arcivescovo coadiutore di Parigi, e l’omicidio fu evitato solo per il calcolo politico di quelli che dovevano essere i complici.

Quando leggo i frammenti acuminati di La Rochefoucauld sento prima la spada dell’uomo che cerca di infilzare la carne dei simili come fosse un prosciutto, poi le garze eleganti, essenziali dell’aforista sulle cicatrici mai rimarginate della vita a corte.

La storia delle due Fronde nella Francia di metà XVII secolo è un bel ginepraio e alla fine ha la meglio chi non ha tempo di scrivere Massime o Memorie: il cardinale Mazzarino. Il presente profondo della riflessione letteraria è figlio della sconfitta politica e della sopravvivenza dei due scrittori all’ombra del Re Sole.

Poi c’è chi sconfessa con tale limpida chiarezza la geopolitica di Luigi XIV tutta allori (mutati in piante carnivore), ribalta alleanze di secoli col sorriso e finisce coi denti cariati dalla Guerra dei Sette Anni, quella dove il giovane capitano de Sade sperimentò le prime fiamme dell’inferno.

È De Bernis, poeta e accademico di Francia prima ancora che ministro, amante della pace e amico di Voltaire. Che io sappia le sue poesie non sono state pubblicate in italiano. Quel suo amore per la terra da fiera piccola nobiltà con radici nel XII secolo, che saprà traslare anche in prosa fisiocratica e non sarebbe dispiaciuto a Saint-Beuve (lo definì precursore di de Lamartine), provo a tradurlo da qualche passo di Sur l'amour de la patrie:

[...]

Continua in

https://lucatraini.blogspot.com/p/letture.html


domenica 7 gennaio 2024

AMORI LONTANI? Guglielmo d'Aquitania e Beatrice di Dia

Nei sogni di ragazzo c’era l’incontro dei miei trovatori preferiti: Guglielmo, duca d’Aquitania, e Beatrice, contessa di Dia.  E un grande amore superava come niente cento anni di distanza. Meglio, come il “nulla” della canzone di Guglielmo, che inventava così, con questa noncuranza, mille anni di poesia in volgare. In quella Provenza dove tutto ti stordisce, dal calore del sole alla terra che sa di lavanda.

Gugliemo

“Una poesia farò di puro nulla:

non su di me né sopra gli altri,

neppur d’amore e di gioventù,

e di null’altro,

che anzi fu scritta mentre dormivo

sopra un cavallo.”

Il cavaliere dorme e sogna la sua bella. O la sogna ancora dopo essere stato con lei. Che a sua volta lo ricorda nel sogno a occhi aperti che ci unisce agli altri, la poesia.

Beatrice

“Bell’amico, gentile e valoroso,

Quando vi terrò in poter mio?

Giacere con voi almeno una sera

Per farvi dono d’un bacio d’amore!

Voi,invece che il marito,

A patto d’avermi giurato 

Di far tutto ciò ch’è in mio volere."

Ecco, nella poesia dell’amore avevano perso i loro titoli. Due esseri umani: tanto cercavo. Breve, fragile incanto.

Poi lo studio, com’è giusto, mi ha fatto riconoscere l’entità del privilegio e della convenzione. La mano che accarezzava, la stessa del macellaio: una spada per la crociata, una mannaia per il banchetto. La donna regina della luna alla luce del sole: semplice pedina di una politica matrimoniale.

E poi quello strano, misterioso rapporto...

[...]

Continua in

https://lucatraini.blogspot.com/p/amori.html