venerdì 27 novembre 2020

LETTERE VIRTUALI

IL FALSO EPISTOLARIO FRA SENECA E SAN PAOLO 


Rileggo le note al libro che la prima volta divorai cercando traccia di quei passaggi sublimi che illuminavano le opere del filosofo e del teologo.

Paolo
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore… (1Corinzi, 13)
Seneca
Quando avrò misurato Dio, saprò che tutto è meschino (Questioni naturali I, 17)
Paolo
Non sei tu che porti la radice ma è la radice che porta te (Ai Romani, 11)
Seneca
Comandare se stessi è il comando più alto (Lettere a Lucilio, CXIII, 30)

E invece cosa mi sembrò di aver trovato? Due vecchi amici che si scambiano cartoline e bigliettini stile lista della spesa o consigli per gli acquisti. E l’apostolo che ci fa una figura da ignorante quale non era affatto!

Paolo
Secondo me la pensi come noi e poi scrivi delle lettere che quasi parlano
Seneca
Ragioni da dio, però dovresti scrivere meglio: ti ho spedito un libro di latino

Questa la mia sintesi dall’originale. Con l’aggravante: quale latino? La lingua colta per questo tipo di dialoghi era il greco e Paolo la conosceva bene. Il Iatino avrebbe assunto tutti i crismi di lingua filosofica (e teologica) solo nel medioevo occidentale.
In realtà le cose stavano diversamente. A una seconda lettura più tranquilla, più da Seneca che da Paolo di Tarso, le quattordici brevi missive che componevano il libretto presero tutta un’altra luce. Si trattava di una di quelle affascinanti operazioni letterarie tipiche del IV secolo dove, con diverse modalità, si tendeva a mostrare  contatto e continuità, in contenuti e poi in forma, tra pensiero e letteratura pagana e nuova egemonia culturale cristiana (sullo stile di quanto compiuto in ambito politico da Costantino).
Inoltre la filosofia di Seneca era sentita vicina al cristianesimo già dalla fine del II secolo, da quel “Seneca spesso nostro” nel De anima di Tertulliano (certo non uno dei più concilianti). E questo – sarà un caso? – mentre il filosofo e la sua scrittura venivano criticati da maestri della retorica classica come Quintiliano. Senza contare che il genere dell’epistolario fittizio era in voga da secoli nelle scuole e aveva trovato la sua consacrazione letteraria, solo per fare un esempio, nelle Heroides di Ovidio (delizioso scambio di lettere in distici elegiaci fra eroine famose).

Vincenzo Foppa, Cicerone fanciullo (1464)

E poi non ritenevano autentica la corrispondenza tra filosofo e apostolo personaggi del calibro di Sant’Agostino e, soprattutto, San Girolamo. Specie quest’ultimo, così “ciceroniano” al punto di sentirsi in colpa, sapeva bene che la semplicità apparente della forma colloquiale era stata tipica anche del suo idolo nelle Lettere ai familiari (quando, mille anni dopo, le riscoprì Petrarca ci restò così male). Possiamo quindi affermare che il lavoro dell’Anonimo autore dell’Epistolario tra Seneca e San Paolo fu decisamente ben fatto. Un falso che ha sortito, se non altro, il positivo effetto di tramandare l’opera dello scrittore romano senza sospetti per tutto il medioevo (un po’ come la statua equestre di Marco Aurelio scambiata per il Caballus Constantini).
Ma da dove sarebbe sbucato fuori? Dalle segrete di una cancelleria, come quattro-cinque secoli dopo la Donazione di Costantino? Da una congrega segreta di uomini di potere, come la fronda senatoria pagana che avrebbe sovrinteso alla stesura della Historia Augusta, classico di falsi storici per tutti i servizi segreti a venire (vedi Historia augusta: un fantastico libraccio indecente)? Parrebbe di no. Sembra più trattarsi di un buon elaborato “mimetico” di alta  scuola (nel senso proprio di istituzione scolastica).

Ecco allora rivivere come in un mediometraggio l’incontro di due protagonisti agli antipodi della storia del I secolo: l’uomo di potere a Roma poi in disgrazia con l’ex pupillo Nerone e l’ex persecutore ebreo illuminato cristiano che cerca di ampliare gli orizzonti del suo movimento religioso. Insieme a un affascinante elemento di congiunzione (ma fino a un certo punto): l’imperatrice Poppea, protettrice della comunità giudaica a Roma e i cui funerali, stando a Tacito, non furono svolti secondo la tradizione ma con cerimonie “orientali”.
Un panorama complesso e ricco di chiaroscuri dove due brillanti intellettuali impegnati su diversi fronti cercano un punto d’incontro e lo trovano in un happy end che certo sottintende ma esclude la descrizione  del reciproco martirio. Acqua e sangue passati. Ora anche le guide cristiane, i vescovi diventavano amministratori dell’impero. La simbiosi era compiuta.

Seneca
Se a me e al mio nome è non dico unito, ma strettamente associato un uomo così grande e  amato da Dio in tutti i modi, al tuo Seneca andrà benissimo… Tu sai di essere un cittadino romano. Infatti, il mio posto è anche il tuo, vorrei che il tuo fosse anche il mio. (Lettera XII)

Paolo
Nelle tue riflessioni ti sono state rivelate cose che la divinità ha concesso di conoscere a pochi… Ti farai nuovo fautore di Gesù Cristo, mostrando con proclamazioni retoriche quella sapienza irreprensibile che hai ormai raggiunto e la farai penetrare nel sovrano temporale, nei membri della sua corte e nei suoi amici fidati. (Lettera XIV, traduzione di Manica Natali, Rusconi Libri, 1995).


A questa fake news di classe dedicai anche un episodio del mio dramma Misteri laici della parola (di cui ho già presentato il frammento che vede protagonista il più tardo Virgilio Marone Grammatico):

[...]

Maestro

“Un figlio saggio dà gioia al padre” (Proverbi 10, 1).

Studente

“Le correzioni della disciplina sono un sentiero di vita” (Proverbi 6, 23).

Vescovo

“La lingua dei saggi risana” (Proverbi 12, 18).

Funzionario imperiale

“Se uno viene chiamato in giudizio e non ci va, sia trascinato a forza”. Voi la Bibbia, io le Dodici Tavole. San Paolo e Seneca. 

Maestro

Un filosofo antico, un uomo di stato.

Vescovo

Uno che spesso la pensava come noi.

Studente

Io avevo pensato anche a Lucano, il nipote.

Maestro

Basta già Virgilio come precursore.

Funzionario

Un poeta basta e avanza.

Vescovo

E questo è un piccolo peccato a fin di bene, come quando nostro Signore andò in sinagoga senza avvisare i genitori. La legge degli uomini giudica il passato, quella di Dio guarda al futuro, quindi siamo perfettamente giustificati se affermiamo a chiare lettere quello che sarebbe dovuto essere.

Maestro

Uno stile colloquiale, come quello delle lettere del grande Cicerone, ma che vale come l’oro delle monete di Costantino.

Funzionario

Ho capito. Conversione dei pagani, conversione in oro. Tuttavia converrete anche voi che questo libretto dovrà passare sotto silenzio e scaturire dal nulla come un miracolo. Ci penseremo noi.

Vescovo

Naturalmente. La Chiesa è troppo impegnata a ripulire i testi sacri dagli apocrifi, ma questo lavoro pertiene più alla sfera della devozione che a quella del sacro. I papi e gli imperatori comprenderanno.

[...]

giovedì 19 novembre 2020

DONNE OLTRE OGNI MURO: KAROLA BLOCH, SALLY MORGAN, OLIVE SCHREINER


#IoRestoaCasa ma sono felice che non vi siano rimaste queste tre meravigliose donne che hanno saputo unire così bene e con grande coraggio pensiero e azione nella scrittura. Ogni parola con cui circoscrivono, abbracciano la loro vita unendola a quella degli altri testimonia grande dignità, un sentire profondo in grado come pochi di unire in simbiosi la propria avventura umana con la Storia.
Karola è più conosciuta come la moglie del filosofo Ernst Bloch, a cui devo molto, ma, oltre a essere più simpatica, è stata un architetto ben capace di vivere di vita propria. La sua ironia, il suo sorriso è una luce in grado di descrivere con chiarezza le tragedie del Novecento cercando ogni volta di superarle (l’antisemitismo russo e polacco, il nazismo, il maccartismo, lo stalinismo): è lei il vero Principio Speranza, di cui ha scritto il marito.
Il brano in cui racconta un’esperienza lavorativa in un cantiere americano è il perfetto esempio in piccolo del suo modo sereno e consapevole di affrontare ogni avversità: “Nell’estate del 1939 in genere la sera disegnavo qualche particolare, leggevo o scrivevo una lettera, e la mattina presto ero già in cantiere; per arrivarvi dovevo attraversare un vasto spiazzo erboso che brulicava di serpenti: la maggior parte erano i cosiddetti milksnakes, innocui, ma per maggiore sicurezza portavo sempre i calzettoni e un paio di scarpe robuste e avevo sempre con me una lametta da barba per poter incidere e succhiare la ferita se fossi stata morsicata”.
Il capolavoro di Olive, Storia di una fattoria africana è del 1883 ma poteva essere scritto un secolo dopo tanto è stato il coraggio di questa femminista antirazzista sudafricana, sempre sostenuta da un marito fuori dal comune, Samuel Cronwright. Si scorda troppo facilmente quanto sia stata forte questa lotta per buona parte dell’Ottocento prima delle censure galanti della Belle Époque e della cortina di piombo di due Guerre Mondiali nella prima metà del Novecento. E' lei ad aprire la strada alla grande letteratura sudafricana e a fondamentali scrittrici del calibro di Doris Lessing e Nadine Gordimer: “Poteva anche darsi che quel mondo non fosse altro che un miraggio malefico, ingannevole; nondimeno era un mondo bellissimo e sedere lì al sole ad ammirarlo era la cosa migliore da fare. Valeva la pena essere stato bambino, e aver tanto pianto e pregato, per poter starsene ora seduto. Si fregò le mani come se le stesse lavando alla luce del sole. Ci sarebbe stato sempre qualcosa per cui valeva la pena vivere finché ci fossero stati pomeriggi brillanti come quello”.
Sally infine descrive in un crescendo particolarmente coinvolgente quanto sia traumatico, ancora e solo dopo gli anni della Contestazione, scoprire di avere origini aborigene. Un gioco di parole che costa ancora caro, dato l’impegno profuso dai colonizzatori per eliminare le tracce della cultura dei primi abitanti dell’Australia. E il libro viene pubblicato nel 1987 non un secolo prima: “Quando Nan (la nonna) era più giovane gli aborigeni erano considerati subnormali e incapaci di venire educati allo stesso modo dei bianchi. Sai, l’industria degli ovini è stata edificata sul lavoro degli schiavi. Gli aborigeni furono costretti a lavorare e,  se non lo facevano, i proprietari della stazione chiamavano la polizia. Ho sempre pensato che l’Australia fosse diversa dall’America, Mamma, ma anche qui abbiamo avuto la schiavitù. Forse la gente non veniva venduta sui ceppi come i Negri d’America, ma allo stesso modo avevano un padrone”.
E’ questo secolo che passa dalla fattoria africana a quella australiana che unisce queste tre donne nella lotta contro i lati oscuri della nostra civiltà. Una lotta che vale sempre la pena di continuare nel segno di una grande lezione di forza, eleganza e fiducia nel futuro che soprattutto le donne sanno donare.

giovedì 12 novembre 2020

IL DIAVOLO E L'ACQUASANTA

Due cardinali, tre libri e un tentato omicidio


La biblioteca di norma è un buon anestetico, ma ci sono casi in cui è meglio non mettere accanto certi autori. Due teste calde come il cardinale di Retz e La Rochefoucauld è meglio separarle con un attento mediatore come De Bernis, anche se vissuto un secolo dopo. Infatti il secondo stava per ammazzare il primo, all’epoca solo arcivescovo coadiutore di Parigi, e l’omicidio fu evitato solo per il calcolo politico di quelli che dovevano essere i complici.

Quando leggo i frammenti acuminati di La Rochefoucauld sento prima la spada dell’uomo che cerca di infilzare la carne dei simili come fosse un prosciutto, poi le garze eleganti, essenziali dell’aforista sulle cicatrici mai rimarginate della vita a corte.

La storia delle due Fronde nella Francia di metà XVII secolo è un bel ginepraio e alla fine ha la meglio chi non ha tempo di scrivere Massime o Memorie: il cardinale Mazzarino. Il presente profondo della riflessione letteraria è figlio della sconfitta politica e della sopravvivenza dei due scrittori all’ombra del Re Sole.

Poi c’è chi sconfessa con tale limpida chiarezza la geopolitica di Luigi XIV tutta allori (mutati in piante carnivore), ribalta alleanze di secoli col sorriso e finisce coi denti cariati dalla Guerra dei Sette Anni, quella dove il giovane capitano de Sade sperimentò le prime fiamme dell’inferno.

È De Bernis, poeta e accademico di Francia prima ancora che ministro, amante della pace e amico di Voltaire. Che io sappia le sue poesie non sono state pubblicate in italiano. Quel suo amore per la terra da fiera piccola nobiltà con radici nel XII secolo, che saprà traslare anche in prosa fisiocratica e non sarebbe dispiaciuto a Saint-Beuve (lo definì precursore di de Lamartine), provo a tradurlo da qualche passo di Sur l'amour de la patrie:

“L'olive sous mes yeux s'unit à l'oranger.
Que j'aime à contempler ces montagnes bleuâtres
Qui forment devant moi de longs amphithéâtres,

[…]

Cet amour, trop actif pour être concentré,
S'échappe de nos coeurs, se répand par degré
Sur nos biens, sur les lieux où nous prîmes naissance,
Jusque sur les témoins des jeux de notre enfance.

L’ulivo ai miei occhi si unisce all’arancio.

Amo contemplare queste montagne

Bluastre, a forma di lunghi anfiateatri!

[…]

Questo amore che sfugge ai nostri cuori,

Troppo attivo per esser concentrato,

Si spande per gradi sui nostri beni,

Su quei luoghi che ci hanno visto nascere,

Fino a chi vide i nostri primi giochi.

Uno spiraglio lirico su questo cardinale poco noto e più sfortunato degli altri che lo avevano preceduto nelle stanze del potere. Quasi proustiano nel descrivere la sua infanzia e decisamente avanti nella considerazione dell’intelligenza femminile (non a caso entrò nelle grazie della Pompadour): “Ho sentito spesso dibattere la questione della superiorità degli uomini sulle donne. A pensarci bene è solo fondata sulla forza fisica e su una migliore istruzione”. Illuso, invece, come il suo illustre precursore Commynes, su una possibile riforma dell’aristocrazia. Restò il sogno di un nuovo Enrico IV (“il miglior principe del mondo”), la realtà di riforme fallite e il brusco risveglio provocato dalla Rivoluzione.

Troppo tardi. Già un secolo prima si era illuso anche La Rochefoucauld, di nobiltà ancora più antica (XI sec.), prendendo le parti del Gran Condé e aveva rischiato di lasciarci la pelle, gravemente ferito al volto nel combattimento della Porte Saint-Antoine (1652): “L’espérance, toute trompeuse qu’elle est, sert au moins à nous mener à la fin de la vie par un chemin agrèable”, “La speranza, per ingannevole che sia, serve almeno a condurci alla morte per una strada piacevole”. Quella che lo portò ad autoesiliarsi nel suo castello di Verteuil e in ancora più innocui salotti.

L’aristocrazia francese era già sulla via di unire le armi allo studio - e il patronato del re al collegio Louis le Grand (1680) avrebbe sancito definitivamente questo passaggio storico – ma, per quanto rinchiusa nella prigione dorata di Versailles, nella grande maggioranza dei suoi esponenti, non era affatto disposta a mettere in discussione i suoi privilegi secolari: si illudeva anch’essa di sopravvivere nel guazzabuglio di giurisdizioni feudali (o neo-feudali) dello “Stato Assoluto”.

Con le Memorie del cardinale di Retz concludo questo falò delle vanitas. Un finale pirotecnico per i mille volti di questo Narciso che seppe rispecchiarsi in modo spietato sul foglio bianco dei ricordi, editi postumi ancora incendiari nel 1717, in pieni torbidi della Reggenza. Con M.me de Sevigné a reggere lo specchio della memoria dello scrittore, Luigi XIV a negare quella dell’uomo privandolo del nome sulla tomba e Filippo d’Orléans discreto ma efficiente pompiere delle fiamme quasi infernali del politico. Eppure dovevano essere roba da ragnatele quelle sue trame vecchie di decenni, generazione spontanea di un’epoca morta e sepolta. Il merito non è tanto quello del giovane avventuriero ma dello scrittore invecchiato e spremuto dal peso degli eventi, che ha distillato e reso altissima la gradazione di ogni pagina. Quello che era un letterato imbevuto delle peggiori pagine di Plutarco e Machiavelli diventa l’estremo, modernissimo, tragico del Grand Siècle. Il prologo del dramma è memorabile: “Signora, per quanto possa dispiacermi raccontarvi la storia della mia vita, agitata da tante diverse avventure, nondimeno, poiché me lo avete comandato, obbedisco, anche a scapito della mia reputazione. Il capriccio della fortuna mi ha dato in sorte parecchi errori; dubito che sia giudizioso sollevare il velo che in parte li nasconde. Tuttavia vi farò conoscere schiettamente e senza mezzi termini nei minimi particolari la mia vita”.



Se si è accennato a Machiavelli è anche perché la sua famiglia era di origine fiorentina, Gondi, e aveva fatto la sua fortuna con la chiamata alla corte francese da parte di Caterina de’ Medici, diventando col tempo una vera e propria dinasty di arcivescovi e cardinali. Sul reale andazzo di questa “vocazione religiosa” il nostro Jean-François Paul de Gondi fa un ritratto tanto realistico quanto impietoso, piazzando anche se stesso nel quadro d’insieme: “Non credo ci sia stato al mondo un cuore migliore di quello di mio padre, posso dire che era temprato nella virtù. Ciononostante, i miei duelli e le mie avventure galanti non lo dissuasero dal fare tutti gli sforzi possibili per legare alla Chiesa l’anima forse meno ecclesiastica che ci fosse sulla terra. La predilezione per il figlio maggiore e la prospettiva dell’arcivescovato di Parigi, che apparteneva già alla sua famiglia, lo indussero a perseverare nella sua prima decisione… è proprio vero che nessun sentimento più della pietà è schiavo delle illusioni. […] Trovavo l’arcivescovato di Parigi degradato, in faccia al mondo, per le bassezze di mio zio e desolato, in faccia a Dio, per la sua negligenza e la sua incapacità… Non ignoravo quanto la buona regola dei costumi fosse necessaria in un vescovo. Sentivo che il disordine scandaloso di quelli di mio zio arcivescovo me la imponeva ancora più stretta e più indispensabile che agli altri; e sentivo, nello stesso tempo, che non ne ero capace e che tutti gli ostacoli, sia di conoscenza sia di reputazione, che avrei potuto opporre alla sregolatezza sarebbero stati soltanto delle dighe ben malsicure. Presi, dopo sei giorni di riflessione, il partito di fare del male di proposito; ciò è senza dubbio più delittuoso al cospetto di Dio, ma è certo più saggio al cospetto del mondo”.

È la triste realtà tanto diffusa fra gli alti prelati (e non solo) dell’Ancien Régime: una condotta riprovevole tipica della commistione fra chiesa e privilegi a cui solo – e con grande fatica – cercherà di mettere fine il Concilio Vaticano II.

Comunque Retz, c’è poco da fare, è uno scrittore formidabile delle sue sconfitte e un maestro di concisione tacitiana – e perfida - nei suoi ritratti.

“La Regina aveva, più di qualsiasi altra persona da me incontrata, quella specie d’intelligenza che le era necessaria per non sembrare sciocca a quelli che non la conoscevano”.

“La duchessa di Longueville ha di natura un’intelligenza che è molto solida ma, più ancora, sottile e abile. La sua capacità, ostacolata dalla pigrizia, non è giunta alla politica. Alla politica è stata trascinata dal suo odio contro il principe di Condé, e ha continuato a interessarsene, attratta dai suoi intrighi amorosi… Avrebbe avuto pochi difetti se l’amore non gliene avesse dati molti”.

“Il primo presidente Molé aveva una mente molto inferiore al suo coraggio… I suoi preconcetti erano eccessivi in tutto… Giudicava sempre le azioni dagli uomini e quasi mai gli uomini dalle azioni. Poiché era stato educato secondo gli usi del parlamento, tutto quello che era fuori dal comune gli sembrava sospetto. Non c’è disposizione d’animo più pericolosa di questa per coloro che sono mescolati a quegli affari di Stato dove le regole comuni non servono più”.

E naturalmente La Rochefoucauld: “Ha voluto occuparsi di intrighi fin dall’infanzia, quando non sentiva i piccoli interessi, che non sono mai stati il suo debole e non conosceva i grandi, che, in altro senso, non sono stati il suo forte… Ha sempre avuto un’irrisolutezza abituale, che non so proprio a cosa attribuire. Non gli è certo venuta dalla sua fecondità d’immaginazione, che è vivissima”.

Ma lo stesso Gondi come politico non ha la statura di un Richelieu o di un Mazzarino, lo sa, e quindi è sempre impegnato a trescare dietro le quinte. E sulle teste di legno che cerca invano di portare alla ribalta è di un’ironia implacabile: “Stavo quasi per dimenticare il principe di Conti, buon segno per un capo di partito. Non credo di potervelo dipingere meglio se non dicendovi che questo capo di partito era uno zero assoluto, che moltiplicava solamente perché era un principe del sangue. Questo per quel che riguarda la sua vita pubblica. Nella sua vita privata la cattiveria faceva in lui ciò che la debolezza faceva nel duca di Orléans: copriva tutte le altre doti, che d’altronde erano mediocri”.

C’è da ridere, se non ci fosse anche da piangere, meglio, indignarsi pensando a chi anche oggi cerca di seguire l’esempio di quelle epoche orribili. Un esempio valido, nel caso di Gondi, solo per la splendida realtà della finzione, in tutti i sensi, che ha saputo ricreare nelle uniche pagine immacolate, quelle che preludono a un libro. Io l’ho letto col commento musicale del clavicembalo di Louis Couperin, zio del più noto François, ma devo dire che Grande figlio di puttana del compianto Lucio Dalla è affiorata spesso: Retz “amico per me”, ma solo in biblioteca.

Ripongo i volumi e torna il silenzio. La vita dopo l’ennesima riflessione. Sperando concretamente, come sempre, che la Storia non si ripeta.

 

sabato 7 novembre 2020

BLACK LIKE ME

NERO COME ME
IL CAPOLAVORO DI JOHN HOWARD GRIFFIN ANCORA ATTUALISSIMO
E MAI RISTAMPATO IN ITALIA DA 42 ANNI

Il nero. Il Sud. Ma sono particolari. La storia vera è quella universale,
di uomini che distruggono le anime e i corpi di altri uomini
(e con ciò distruggono se stessi)
per ragioni incomprensibili ad ambedue le parti in causa.
È la storia dei perseguitati, dei defraudati, dei temuti e dei detestati.
Potrebbero essere gli ebrei in Germania,i messicani in molti Stati
o i membri di un qualsiasi gruppo "inferiore".
Notereste una differenza soltanto nei particolari. La storia sarebbe identica.
John Howard Griffin


Pazzesco ma è così. Come i rigurgiti di razzismo oggi e chi ci specula in politica. Ho dovuto cercare fra i remainders per trovare la vecchia edizione Longanesi del ’67 (l’ultima ristampa è del ’78). Un uomo, uno scrittore, un libro dal coraggio formidabile frutto di un’esperienza dal vivo nel 1959 quando la lotta di massa contro la segregazione razziale negli USA era agli inizi (ma, in quanto a uguali e concreti diritti, abbiamo visto con la terribile morte di George Floyd ancora a che punto siamo).
Griffin - di cui non esiste neanche la pagina italiana in Wikipedia... - vuole provare sulla propria pelle cosa si sente a essere nero nel sud degli Stati Uniti e si sottopone a una serie estenuante di cure dermatologiche. Il risultato è tanto perfetto quanto orribile il senso di paura e persecuzione che il nuovo John Howard Black prova per tutti i quaranta giorni dell’esperimento attraversando Louisiana, Mississippi, Alabama e Georgia.
E non stiamo parlando di qualcuno vissuto nella bambagia: l’uomo aveva condotto missioni pericolosissime in Europa contro il nazismo partecipando in prima persona alle lotte della Resistenza francese ed era stato decorato per coraggio militando nell’aeronautica americana nel Pacifico, dove aveva curato i rapporti con gli abitanti delle Isole Salomone studiandone la cultura. Dopo aver subito gli esiti di un attacco di malaria spinale, a causa di un’esplosione, era rimasto cieco per undici anni (1946-57), ma aveva cercato sempre di vedere il lato positivo e pieno di speranza della sua condizione umana: “Non giudicavo le persone dal colore della pelle, ma solo da voci, affezioni e sentimenti. Lì ho capito tante cose che con la vista mi sfuggivano”.

Tenera scende la notte
Nera come me...

Tuttavia neppure tutta questa ricca e tormentata serie di esperienze riesce a contenere lo shock dei primi (e degli ultimi) giorni del suo reportage: “Di cosa avevamo paura? Non lo saprei dire esattamente… Eravamo vittime di quel terrore senza nome… Una cosa orribile e inspiegabile. Mi ricordava il timore costante e tormentoso che ci assillava in Europa quando Hitler iniziò la sua marcia trionfale e non osavamo parlare con gli ebrei (vergognandocene profondamente). Questa paura è onnipresente per tutti i neri del Sud e anche per molti bianchi onesti che si rendono conto della situazione, ne provano vergogna e ne sono umiliati”. E lui, texano bianco e onesto, provava ora a porvi rimedio. Il resoconto sarebbe stato pubblicato su Sepia, la rivista afroamericana più diffusa nel “Deep South”.

Claudette Colvin, attivista arrestata a 15 anni il 2 marzo 1955,
la prima a sfidare la segregazione sugli autobus a Montgomery (Alabama)

Il viaggio ha inizio a New Orleans il 28 ottobre, cinque anni dopo la prima sentenza della Corte Suprema che aveva iniziato ad aprire un varco nel muro della segregazione e due dopo l’intervento dell’esercito a difesa del diritto allo studio di nove studenti neri a Little Rock, in Arkansas. Il presidente Eisenhower si era impegnato in prima persona e il partito repubblicano conservava ancora barlumi di quella politica filoafroamericana che lo aveva contraddistinto all’epoca di Lincoln e, soprattutto, di Ulysse Grant, ma la reazione feroce del razzismo sudista contro la “mescolanza delle razze” rendeva faticosi – e traumatici – i primi tentativi di cambiamento. Le cose muteranno più rapidamente il decennio successivo quando, con Kennedy e Johnson, si trasformerà profondamente quel partito democratico che aveva proprio in molti suoi esponenti del sud – fin dalla fine della Guerra di Secessione - i principali difensori di questo apartheid (i famigerati “Dixiecrat”). Paola di Griffin: “I personaggi più abbietti non sono i razzisti ignoranti, ma i cervelli legali che gli servono da facciata”. Ironia della storia, il sabotaggio di questa lotta per i diritti civili sarà fatto proprio da una parte sempre più influente dei repubblicani, soprattutto da quella “Destra religiosa” che vede oggi in Trump il suo idolo.
Tornando invece al prologo del viaggio attraverso la notte di Griffin, il primo mentore è un amico lustrascarpe, Sterling Williams, e l’immagine del pranzo in un tegame di riso e rape riscaldati è già tutto un programma. New Orleans è meno peggio di altri posti, merito anche della forte presenza cattolica, meno disponibile alla propaganda razzista, specie in ambito colto ed ecclesiastico (siamo inoltre nell'epoca del rinnovamento di papa Giovanni e alle porte del Concilio). È un motivo di orgoglio per lo scrittore, convertitosi al cattolicesimo nel ’52 e laico carmelitano. Tuttavia anche qui si avverte già quel fastidio dei bianchi pronto subito a trasformarsi in odio verso qualsiasi nuovo atteggiamento della popolazione di colore: “Nel mormorio di una conversazione la parola ‘nigger’ spicca come un lampo accecante”.

E quando contemplavo quella Terra di Nessuno
nella quale era stata isolata l'intelligenza nera in America,
mi domandavo se fosse mai esistito, in tutta la storia dell'umanità,
un attacco più corrosivo e devastatore del concetto della discriminazione razziale.

Ma il peggio deve ancora venire e John Howard lo vivrà sulla propria pelle nei passaggi in Mississippi e Alabama.
Il primo è un viaggio in autobus, mezzi di trasporto che già  in città si fermano solo quando deve scendere un bianco: dieci ore di viaggio con una sola sosta dove ai passeggeri di colore è vietato scendere. La segregazione dei servizi igienici e l’assoluta scarsità di quelli riservati ai neri è un vero e proprio dramma in tutto il profondo Sud (e non solo: anche fuori dai ghetti di buona parte del resto del Paese o alla stessa NASA, come ben rappresentato da quello splendido film che è Il diritto di contare).

Katherine Johnson, matematica, informatica e fisica:
la sua vita e la sua lotta antirazzista hanno ispirato il film.

La tirannia sui bisogni fisiologici delle popolazioni emarginate è il più eclatante di tutta quella serie di piccoli orrori quotidiani messi in atto da maggioranze silenziose e rabbiose. È qualcosa che hanno conosciuto i nostri emigranti e che conoscono bene anche tanti nostri immigrati. Impedire l’igiene è il mezzo più sporco per condannare come “sporco” (fuori e quindi dentro) chi viene emarginato, anzi, la massa degli emarginati, privati della loro individualità: “Una parte importante della mia vita quotidiana era dedicata alla ricerca di certe cose elementari che i bianchi danno per scontate: un luogo dove mangiare o dove lavarsi le mani o dove bere un bicchier d’acqua… Imparai a mangiare molto se mi si presentava l’occasione, perché forse non ne avrei più avuto l’opportunità quando avessi sentito i morsi della fame… A volte bisognava percorrere chilometri per avere un bicchier d’acqua… Qui non si respirava più l'aria d'America. Avevo l'impressione di trovarmi in un paese ignoto e sinistro”.

Essere nero in questo paese ed esserne relativamente cosciente
significa provare una rabbia quasi continua

E infatti sono luoghi da incubo, teatro di tanti film horror dagli anni ’70 in poi (ma ci aveva già pensato il grande Roger Corman con L’odio esplode a Dallas, uscito nel ’62), dove passare da bianco a nero è come mettere gli occhiali di Essi vivono e scoprire dietro la gentilezza tanto sbandierata dell’”uomo del Sud” il ghigno del boia. Un carnefice che vive comunque in zone economicamente depresse e connotate da un moralismo religioso tanto ipocrita quanto spietato. Perché la “Bible Belt”, la “Cintura della Bibbia” del meridione degli Stati Uniti, col suo culto del testo sacro versione Re Giacomo e il “marchio di Caino” che aveva giustificato la schiavitù, era il luogo per eccellenza della repressione sessuale. Vissuta in primis dai bianchi stessi e poi sfogata sugli ex-schiavi col ferreo divieto di non fissare una donna bianca neppure se riprodotta sui manifesti dei cinema. Un errore che Griffin commette, per fortuna senza essere visto. Era ancora fresco il ricordo del terribile linciaggio di Mack Charles Parker, ingiustamente accusato di stupro in aprile nella contea di Pearl River (Mississippi).

Due fra i tanti martiri del razzismo negli Stati Uniti: il giovane Parker quando era ancora nell'esercito, vittima della menzogna e dell'isteria; Viola Liuzzo, attivista massacrata nel 1965 dal Ku Klux Klan di ritorno da Selma, vittima anche post mortem, proprio perché donna e "bianca", di una campagna mediatica di fango.

Sarebbe stato l’ultimo alla luce del sole (chiaramente senza colpevoli né condanne), non ci sarebbero state più le ripugnanti cartoline con la folla festante intorno al cadavere, ma chi poteva saperlo? Essere minacciati per gli afroamericani era la norma, con la Spada di Damocle onnipresente delle abominevoli Leggi Jim Crow. Di rivolgersi alla polizia locale neppure a parlarne: basta aver visto MississippiBurning del compianto Alan Parker o il meno conosciuto ma sempre ottimo Gang in Blue dei miei amati Melvin e Mario Van Peebles (il primo del 1988, il secondo del ’96, ma se pensiamo cos'è successo ancora nel 2020). L’FBI agiva a singhiozzo, ostacolata dal suo stesso direttore, l’inquietante John Edgar Hoover. La resistenza passiva era la pratica quotidiana. O l’indifferenza, il torpore descritti da un protagonista della poesia afroamericana (e non solo) come Arna Bontemps.

Gli anni vanno a ritroso con un risuonare di ferro,
Una mano sulla porta,
Una foglia secca vibra sul muro.
Gli spettri camminano,
Hanno calpestato le rose,
Mentre i pioppi si drizzano immoti come la morte.

Oppure - o insieme - il rifugio nella musica e nello sport (quando va bene); nel sesso machista e nell’alcool (quando non c’è altro): uniche distrazioni da una vita resa impossibile. Ecco allora il mito dell’animalità del “negro” (cavallo da parata alle Olimpiadi o carne da macello per le guerre) che tanto ripugna e attira il razzista. Memorabili le pagine dedicate ai passaggi in auto ricevuti da bianchi la notte per ascoltare i racconti delle presunte prodezze sessuali dei neri. C’è addirittura chi chiede a Griffin di mostrargli i genitali! Chi ha visto quel gioiello di Ed Wood di Tim Burton ricorderà il produttore di Glen or Glenda che diceva che i film morbosi avevano successo specie fra i “bifolchi” del sud (tanto per cambiare un altro tipo di razzismo, che il sottoscritto si ricorda bene anche da noi). Quando a dare un passaggio allo scrittore è un giovane incredibilmente normale, senza pregiudizi, che tratta il passeggero come la moglie da pari a pari - non dimentichiamo che l’odio delle donne bianche, specie se anziane, era particolarmente rancoroso proprio a causa della loro stessa condizione opprimente - ed è solo entusiasta e parla con amore del bambino che gli è appena nato, anche per chi legge è un momento di indescrivibile respiro.

Puoi spararmi con le tue parole,
puoi tagliarmi coi tuoi occhi,
puoi uccidermi con il tuo odio,
ma ancora, come l’aria, mi solleverò.

Ma la norma è violenza sessuale esercitata in ogni dove ai danni delle donne afroamericane, costrette dalla miseria a servire e a prostituirsi. In Alabama un conducente di autocarro, che viaggia con tanto di fucile accanto (per la caccia ai cervi dice lui), lo fa presente in modo brutale e senza alcun pudore al nostro eroe: “Mi disse che tutti gli uomini bianchi della regione vanno pazzi per le ragazze negre. Ne aveva assunte parecchie per i lavori di casa e per l’ufficio. ‘E me le sono passate tutte… No, non rifiutano se vogliono mangiare o dar da mangiare ai bambini… Beh, che diavolo, lo fanno tutti… Vi facciamo un favore dando un po’ di sangue bianco ai vostri bambini’”. Alla faccia del culto della “purezza della razza” e dell'orrore tanto esibito per il “meticciato”! Un bel ritratto delle continue contraddizioni di questo mondo alienato. È sempre lo stesso personaggio, tanto concreto quanto vero e proprio simbolo di tutto un universo oscurantista, a mettere in chiaro con fredda ferocia - “I suoi simpatici occhi azzurri erano diventati giallastri… L’immensità del suo odio mi sconvolse” - alcuni punti fermi della nuova reazione alla lotta per i diritti civili:
“Provate a seminar zizzania tra questi ‘nigger’ e com’è vero l’inferno vi sistemiamo noi”.
“Si può uccidere un negro e gettarlo in quelle paludi e nessuno saprà mai che fine abbia fatto”.
“Noi accettiamo i vostri quattrini se volete comprar qualcosa. E naturalmente ci prendiamo le vostre donne. Ma per tutto il resto è come se voi non esisteste nemmeno. E più presto ve lo ficcherete in testa, meglio sarà”.


A questa crescendo agghiacciante va aggiunto quanto aveva risposto il caposquadra di una fabbrica di Mobile, sempre in Alabama, a John Howard Black vanamente alla ricerca di un lavoro decente: “Stiamo eliminando tutti voi dai posti migliori in questa fabbrica. Ci vorrà del tempo, ma ci riusciremo. Ben presto gli unici lavori che potrete fare saranno quelli che un bianco non accetterebbe mai”.
Senza contare le continue incursioni in auto con insulti, se non peggio, dei suprematisti nei ghetti in pieno giorno e i falò poco rassicuranti del Ku Klux Klan di notte, lo squallore delle condizioni abitative, la carente e costosa assistenza sanitaria, l’impossibilità di accedere a un’istruzione decente, le tasse pagate senza avere nulla in cambio, l’indebitamento perseguito come politica da banche e usurai bianchi (spesso la stessa cosa), l’impossibilità quasi ovunque di esercitare il diritto di voto grazie a cavilli o a veri e propri esami di ammissione impossibili da superare (ricordo  che ancora oggi in quasi tutti gli stati degli USA, specie al sud, le leggi che impediscono il voto a chi ha commesso reati anche se scontata la pena - le antiquatissime “felony disenfranchisement - riguardano milioni di potenziali elettori, soprattutto appartenenti alle minoranze)… Direi che solo questo può bastare.
Non c’è quindi da stupirsi che le grandi migrazioni degli afroamericani dal Sud verso le città del Nord siano durate fino ai primi anni ’70 (dall’inizio del ‘900 parliamo di più di 6.000.000 di persone). Tuttavia la popolazione di Mobile, alla faccia di queste cupe profezie, è ancora oggi in maggioranza nera e dal 2005 al 2013 è stata governata dal primo sindaco afroamericano, il democratico Sam Jones.


È giunto quindi il momento di affrontare le pagine della speranza, perché questo era l’obiettivo di Griffin e i tempi erano finalmente maturi. Una speranza che poteva realizzarsi solo creando unità fra gli oppressi in una lotta pacifica, senza altri razzismi di reazione o ritorni impossibili in Africa (il triste caso di come è andata in Liberia sta a dimostrarlo). In Alabama, a Montgomery, il modello è naturalmente Martin Luther King: “Mentre in tutto il Sud l’azione dei neri - Nota Bene: scrivo ‘neri’ invece del vetusto ‘negri’ della traduzione di Lisa Morpurgo in era pre-astrologica – manca di unità e di coordinamento, a Montgomery è retta con mano salda dal reverendo King… Il razzista bianco è stupito e irritato da questo atteggiamento, perché il suo modo di comportarsi indegno è messo in risalto dalla presa di posizione dei neri”.
Ad Atlanta, in Georgia (terra di origine dei Griffin), grazie alla politica illuminata del sindaco Hartsfield (in carica fino al 1962) e alla tradizione organizzativa della comunità nera in campo economico e culturale, il cambiamento è già in atto. Merito anche dell'accordo bipartisan del '49 tra i politici afroamericani J. W. Dobbs (repubblicano) e A. T. Walden (democratico) che si erano uniti per formare la Lega dei Votanti Neri di Atlanta. Non è quindi un caso se la città è governata ininterrottamente dal 1974 da sindaci neri (spesso in conflitto coi governatori dello stato, come anche in questi ultimi mesi riguardo all'uso delle mascherine contro il Covid-19, sostenuto con forza dalla sindaca Keisha Lance Bottoms). Il problema, come al solito e non soltanto nel sud degli Stati Uniti, sono le piccole realtà urbane e le zone rurali, di frequente sovradimensionate come peso elettorale stile "borghi putridi" inglesi dell'Ottocento. Inoltre ad Atlanta era ed è attivo il quotidiano Atlanta Constitution, che differiva dalla gran parte dei media meridionali piene di "fake news" - dice qualcosa? - contro i "colored", grazie soprattutto ai coraggiosi editoriali di Ralph McGill, Premio Pulitzer proprio nel 1959.


Tuttavia neppure qui mancano gli episodi sgradevoli che hanno costellato l’odissea dello scrittore, che decide di tornare all’abituale colorito della pelle. Prima saltuariamente, in apparenza quasi schizofrenico, ma lui ormai era l'altro, aveva capito fino in fondo che l'altro è in lui, in noi e una volta compreso questo nulla è più come prima. Nelle ragioni della scelta definitiva della pigmentazione, da vero scrittore, da grande essere umano, è assolutamente sincero: “Mi sentii atterrito quando mi resi conto che se la mia pelle fosse rimasta nera anche i miei figli sarebbero stati condannati senza esitazione a una vita di miseria… Il ritorno alla vita da ‘bianco’ mi lasciava sempre smarrito sulle prime. Dovevo controllarmi per non lasciarmi sfuggire quelle parole un po’ sboccate che i neri usano correntemente fra loro…Mi resi conto che, se come nero, ero piuttosto ben vestito, come bianco parevo un miserabile…Il poliziotto mi salutò con un affabile cenno del capo… Fui invaso da una strana esultanza, da un senso di liberazione… Andai a gabinetto e nessuno mi fermò per chiedermi: ‘Che ci fai tu qui, nigger?’… Poi non provai più alcuna gioia. Vedevo volti sorridenti e cortesi. I volti dell’uomo bianco che guarda il suo simile, ma ricordavo benissimo anche il suo altro volto, quello carico di odio. Quel miracolo aveva un sapore amaro... Mi sentivo stranamente malinconico all'idea di lasciare il mondo dei neri dopo esserci vissuto a lungo, partecipando ai suoi dolori e alle sue pene". Un'immagine condivisa dal fotografo Dan Rutledge, che aveva accompagnato Griffin nelle ultime tappe del suo viaggio e "mentre fotografava certe scene si rendeva conto che quegli uomini e i loro ideali erano del tutto sconosciuti alla maggior parte degli americani, e troppo al di là della comprensione dei razzisti del Sud".
Ma nel 1959 era la decisione più efficace. Diversamente il libro, rivisto anche con la partecipazione dei più importanti esponenti della comunità nera di Atlanta, non avrebbe l'impatto che doveva avere e l'autore non avrebbe potuto muoversi liberamente. Non dimentichiamoci poi che abitava in Texas...

Griffin intervistato dalla star del giornalismo televisivo Mike Wallace

Dopo qualche giorno di pausa corroborante per lo spirito ospite del monastero trappista di Conyers - "Un bianco che viene in un monastero trappista non è il tipo che tenga un occhio a Dio e l'altro al colore della pelle del suo prossimo" - e la rilettura di qualche brano dell'amato Jacques Maritain ("egli descriveva tutti i razzisti di ogni luogo e di ogni tempo"), lo scrittore torna ad abbracciare la famiglia: "Vidi arrivare la macchina coi bambini che gridavano e agitavano le mani dai finestrini. Poi sentii le loro braccia attorno al mio collo - emozione che aveva provato anche coi sei figli di una dignitosa e poverissima famiglia contadina nera in una baracca sperduta nei boschi dell'Alabama - e nell'entusiasmo di quella riunione mi balenò nella mente il ricordo di tanti pregiudizi e fanatismi cui avevo assistito. 'Signore Iddio" mormorai 'perché gli uomini si comportano così in un mondo che pure ci riserva gioie come queste?'".


Il sogno dell'integrazione diventerà realtà di lì a poco, ma, come sappiamo, è sempre in fieri. E l'uomo che era stato e continuava a essere bianco e nero pagherà cara  la sua missione. Minacce continue, l'impiccagione in effigie nella sua Mansfield, il trasferimento della famiglia in Messico e poi il cambio di residenza a Forth Worth. Nel 1964 riceverà, insieme al presidente John Kennedy (alla memoria), il prezioso Premio Pacem in Terris conferito dalla Diocesi di Davenport (Iowa). Nello stesso anno matura il film tratto dal libro, diretto dai coniugi Carl e Gerda Lerner, da sempre impegnati nella lotta contro le disuguaglianze negli USA (e naturalmente ex Lista Nera del maccartismo).
La morte nel 1980 a soli sessant'anni - verrebbe voglia di dire "Muore giovane chi è caro agli dei" - non intacca minimamente la forza viva e contemporanea dello scrittore. È ancora qui, in queste pagine ingiallite,  colorate, mentre dialoga col reverendo afroamericano Samuel Williams:
"'Ho speso tanti anni' mi disse 'per studiare il fenomeno dell'amore.'
'E io ho speso anni per studiare il fenomeno della giustizia.'
'In fondo abbiamo studiato la stessa cosa'".