giovedì 1 ottobre 2020

LA SCUOLA DEI MISTERI L’opera inquietante di Virgilio Marone Grammatico fra politica, religione e congiure (VII-X sec.)

Mestum extrico pulmone tonstrum,
Sed gaudifluam pectoreis arto procellam arthereis
Cavo fuori dai polmoni un mesto turbamento,
Trattengo nella trachea l’allegria che scorre tempestosa
Hisperica Famina

Mare quoque undosum biluosumque in turbinosa
cordis profunditate hominis et in ipsa ratione
E anche il mare ondoso e abitato nella tempestosa
profondità del cuore umano e nella stessa ragione
Virgilio Marone Grammatico

Commento musicale Carmina carolingiana


Cosa ci fa un grammatico che compone opere per quasi duecento pagine e sembra rivolgersi alle folle di Roma antica nella Tolosa del VII secolo, nel momento di massima depressione demografica (e non solo) dell’Europa Occidentale? E soprattutto chi è? Il nome sembra fittizio, il regno merovingio dopo Dagoberto è sempre più in crisi e le sue opere hanno poco a che fare con il classicismo latino del vicino regno visigoto. Nella loro oscurità ricordano più lo stile degli Hisperica Famina di certi scrittori che venivano dall’Irlanda o dall’Inghilterra.
Per analizzare questo mistero, che mi appassiona dall’esame universitario di latino medievale del remoto ’86, partirò da un’abbreviazione che attribuisce a un non meglio identificato retore Emilio, roba da far impallidire le sigle degli enti sovietici o del nostro parastato di una volta: “Disse con eleganza SSSSSSSSSS.PP.NNNNNNN.GGGG.RR.MM.TTT.D.CC.AAAAAAA.IIIII.VVVVVVV.O.AE.EEEEEEE. E questa è la soluzione: sapiens sapientiae sanguinem sugens sanguissuga venarum recte vocandum est (“il sapiente che sugge il sangue della sapienza deve giustamente essere chiamato sanguisuga delle vene”)”.
Un inizio a scoppio, tanto per invogliare a un argomento complesso quanto mai intricato. E più che di abbreviazione si dovrebbe parlare di “scomposizione delle parole”, “scinderatio fonorum”, che è qualcosa di più problematico, di iniziatico: “Le parole si dividono per tre motivi: il primo è per mettere alla prova i nostri alunni nel ricercare e trovare le cose difficili; il secondo è per dare eleganza e struttura al discorso; il terzo è perché tutte le cose iniziatiche devono essere rivelate soltanto ai saggi… Scrittori enigmatici e di ingegno sottile”. C’è quindi anche una “scinderatio” attribuita niente meno che a Cicerone. Che naturalmente non ha nulla di ciceroniano…


I misteri laici della parola hanno inizio. I testi sono due, 15 Epitomi e 8 Epistole, ma l’argomento è uno solo: la grammatica. Un testo scolastico quindi, sulla scia delle grammatiche tardoantiche di successo, quella di Donato (IV sec.) su tutte, ma anche di opere enciclopediche finalizzate allo studio come le Nozze di Mercurio e Filologia di Marziano Capella (V sec.) o le più recenti Etimologie di Isidoro di Siviglia (inizio VII sec.): tentativi colossali di salvaguardare il patrimonio della letteratura latina in un’età storica di profondi cambiamenti. Perché il medioevo, nonostante un’immagine vecchia a morire, è stato un’epoca di continue trasformazioni e l’alto medioevo, specie prima dell’impero carolingio, ha poco a che vedere con l’immagine tradizionale di massa legata al medio e tardo medioevo italiano della Lega Lombarda, delle città marinare o di Dante.


Ma si diceva: un’opera di grammatica per le (pochissime) scuole dell’epoca. Peccato che buona parte dei contenuti siano assolutamente inventati e gli autori citati con numerosi esempi dei perfetti sconosciuti. Si va da un vecchio Donato di Troia vissuto mille anni che avrebbe fondato una scuola nella Roma di Romolo a tre Virgili (di cui il nostro sarebbe l’ultimo) di cui il primo, Virgilio d’Asia (alunno del Donato millenario), avrebbe scritto 70 volumi sulla metrica, a tutta un’altra serie di insegnanti sparsi fra Europa, Africa e Asia fino all’India, fino al nonno (“Martule, uomo dotto e di bell’aspetto”) e allo zio dell’autore (“Samminio, gioia di mamma sua”). E al suo maestro per eccellenza dal nome troiano, Enea, assolutamente irreperibile in qualsiasi fonte storica.
Tutto questo insistere sulla matrice troiana del suo lavoro è, a mio modo di vedere, da un lato un congiungersi alle origini leggendarie del popolo romano, come cantate dal più famoso – e reale – Virgilio, e della sua lingua, il latino. Dall’altro potrebbe essere una conferma dell’elaborazione dell’opera in Francia. È proprio in questo periodo che prende forma scritta la leggenda dell’origine troiana del popolo franco, attestata nella Cronaca di Fredegario e poi nella Historia Daretis Frigi de origine Francorum.


Dopo questa breve parentesi geopolitica torniamo all’irrealtà del corpo docente del Grammatico. Ecco allora sfilare Balpsido, Galbungo, Gergeso, Blasto, Vulcano, Sagillo: solo per fare qualche nome e una specie di scioglilingua. Frotte di maestri e discepoli per dibattiti e convegni le cui cifre, rapportate a oggi, comporrebbero una folla da palazzetto dello sport. E questo in una realtà scolastica disastrata come quella della Francia del VII secolo! Sembra più nostalgia dei bei tempi andati quando, come scrive lo storico Manlio Simonetti, “la Gallia del IV/V secolo fu famosa per le sue scuole, ma… il fatto che Giuliano Pomerio (2a metà V sec.) da maestro di scuola sia diventato prete è emblematico del nuovo stato di cose”. Ma neanche la nuova cultura ecclesiastica se la passava bene: “In Gallia la condizione di favore di cui la chiesa si trovò a godere provocò una completa simbiosi con la classe politica: di qui politicizzazione, mondanizzazione, coinvolgimento nella dominante barbarie, per cui, imbarbarita, neppure essa fu in grado di operare culturalmente in modo efficace.” (M. Simonetti in Romani e barbari: le letterature latine alle origini dell’Europa (secoli V-VIII), Carocci, 2018).

La fondamentale edizione italiana curata da Giovanni Polara, edita nel 1979

E poi ci sono quelle  stranezze ancora più strane. Cito solo due casi.
La teoria delle dodici specie di latino di cui una sola in uso (Epitome I,4). L’esempio che propone, ricco di tutta una serie di impliciti riferimenti, è quello del fuoco, che dalla forma basilare “ignis”, in una specie di progressione celeste, diventa “quoquihabin”, “ardon”, “calax”, “spiridon”, “rusin”, “fragon”, “fumaton”, “ustrax”, “vitius” (ma nel senso che col suo “vigor” ridà vita “vivificat” le membra quasi morte), “siluleus”, “aeneon” (“dal dio Enea che dimora in esso e dal quale viene il soffio degli elementi”). Ancora Enea, il suo adorato maestro (davvero adorato), e l’ascendenza troiana.
Lo scontro armato fra due grammatici con tanto di schiere di 3,000 di guerrieri per parte in una questione di verbi incoativi (Epistola III,10). Fra le righe della lettera emerge il sogno di una massa critica di letterati: il sogno proibito del nostro Virgilio e del suo minuscolo club esoterico.
Leggendo queste pagine, a volte ho sentito spirare quell’aria di grande menzogna che avvolge la Storia Augusta, di cui ho scritto nel mio Il Dittico di Aosta. Ma qui non si tratta di una storia manipolata in senso politico dove tutta una serie di falsità viene attribuita a personaggi esistiti realmente, opera di gruppi di potere che hanno ancora qualche probabilità di vittoria. No, qui tutti i protagonisti di questa epica grammaticale sono – o sembrano – tutti inventati. Come il latino proteiforme con cui parlano e scrivono Virgilio e i quattro gatti senza speranza a cui si rivolge. Se Franchi, forse gli ultimi maestri della tradizione laica.


A una prima occhiata il tutto sembra l’opera di un folle (e qualche illustre studioso l’ha preso come tale). La seconda cosa che viene in mente è una grande parodia. Passaggi come “quanto più si vuol difendere la propria autorità, tanto più si scopre che essa è una falsa menzogna” (Epitome V,9) o quest’altro, degno di Ionesco, “i dotti usarono le parole più rare non perché volessero creare problemi agli ascoltatori, ma per aiutarli, in modo che, vedendo queste parole scritte nelle loro opere noi le possiamo usare come comuni e note” (Epitome V,15), fanno riflettere. Non è un caso infatti che Giovanni Polara - cui si deve il mostruoso lavoro di edizione dei testi originali e la prima (e unica) traduzione in italiano, insieme a Luciano Caruso, delle due opere nella mitica edizione Liguori del ’79 – nella sua Introduzione citi Alfred Jarry e scriva: “Questo autore bizzarro certe volte sembra vissuto almeno mille anni troppo presto, questo strano personaggio su cui sono stati pronunciati i più disparati  giudizi”. Poi, però, ci  sono i recenti studi di Caterina Babinoparliamo della prima metà di questo decennio - che mettono in discussione buona parte delle precedenti interpretazioni e propongono un autore che si rivolge a una ristretta cerchia – verrebbe voglia di dire una setta – di colleghi con un linguaggio iniziatico volto a rivendicare un’aura di autonomia di pensiero alle scienze umane rispetto al sempre più preponderante dominio della teologia. Dietro la grammatica vediamo quindi emergere la filosofia che, specie dal Cratilo di Platone in poi, aveva fatto dello studio del discorso, della connessione fra le parole e della corrispondenza tra significante e significato (vedi anche le Etimologie di Isidoro) l’arma principe nel suo incontro-scontro con la dimensione del mito, del sacro.


Sarà un caso che il nostro Grammatico inizi la sua prima Epitome profondendosi proprio nella definizione della parola “sapientia”? “Essa deriva dal sapore, perché, come succede nel senso fisico del gusto, così anche nell’attività dell’anima c’è un gusto che è capace di sentire la dolcezza delle arti e di distinguere la forza delle parole e delle frasi, respingendo tutto ciò che è amaro e cercando il dolce. E amare per noi sono le affermazioni che contraddicono la verità delle dottrine filosofiche, dolci invece quelle che ci danno la conoscenza di ciascuna arte e materia. Questo sapere è duplice, celeste e terreno, cioè umile e sublime”. E’ uno dei passaggi più belli. E coraggiosi, perché la tradizione della teologia, specie quella latina (dal “Credo quia absurdum” di Tertulliano ai meno estremi ma sempre severi e tormentati Gerolamo e Agostino), pur attingendo a piene mani dalla multiforme tradizione filosofica pagana, aveva privilegiato la strada dell’amarezza, del rifiuto di quanto non indispensabile alla scrittura e alla Scrittura, cioè, il contenuto: grammatica per imparare a leggere e scrivere e basta. Non era ancora nato un Giovanni Scoto Eriugena,capace di offrire una sintesi, né un imperatore come Carlo il Calvo in grado didifenderla. Virgilio Marone Grammatico, se mai è il “Vergilius tolosanus” di cui parla Abbone di Fleury, viveva nella più umile Tolosa del duca Boggio, i cui non certi nonno e padre erano stati assassinati su istigazione di Dagoberto.


Tutto è “forse” qui. Tranne le certezze di AngeloMai, il cardinale filologo in corrispondenza con Leopardi, che col santo abate di Fleury trovò subito un’intesa quanto alle origini del Nostro: il problema dei problemi . E’ vero che, nell’Epitome IX,2,  Virgilio fa dire a un altro dei suoi retori ignoti, Terrenzio (con due erre), “È necessario che i Galli siano ingannatori” e sembra un nuovo Epimenide di Creta (che ho già trattato per altri versi nel mio Classicismo con rabbia), tuttavia la qualità dell’opera, come abbiamo già sottolineato, ha poco a che fare con la crisi letteraria della Francia dell’epoca. A meno che non sia stato uno di quegli immigrati letterari che, sulla scia di san Colombano (la cui arma, non dimentichiamolo, erano la parola e i libri “più dolci del miele”), erano venuti dall’Irlanda a far rivivere, almeno in ambito colto, il latino proprio perché per loro era una lingua ex novo e quindi immune da quelle contaminazioni, che oggi ci piacciono molto, dal parlato (tipo la “c” e la “g” gutturali, come in origine, e non le nostre dolci “ci” e “gi”). Quelli che insomma avrebbero portato, come ha ben sottolineato il grande Peter Brown nel suo splendido La formazione dell’Europa cristiana, “una lingua misteriosa, del tutto aliena” a un “nuovo latino stabile, puro e prevedibile, perché era un latino morto” dove “a ogni simbolo grafico corrispondeva una unità fonetica”, per cui “in un mondo in cui ‘directum’ era pronunciato come ‘dreit’ e ‘monasterium’ come ‘moustier’, una regola di pronuncia di questo tipo rendeva praticamente incomprensibile il latino pronunciato in maniera corretta”.


Ancora qualcosa di difficile comprensione: ma cosa non lo era in un periodo così poco conosciuto e in tumultuoso cambiamento? L’imperatore era ancora quello dell’impero bizantino, con cui il sud della Francia manteneva rapporti commerciali e culturali (Virgilio afferma di saper leggere il greco e il celare la propria identità dietro il nome di un autore antico era una moda che veniva dall’oriente). La Chiesa di Roma, mentre Colombano scendeva sul continente, spediva in Inghilterra nuovi emissari come Agostino e Lorenzo. Il cristianesimo irlandese privilegiava una data per la Pasqua non in sintonia con quella sostenuta dal papa e il regno longobardo, ancora in maggioranza ariano e rivale per eccellenza di quello franco, accoglieva Colombano e gli concedeva di costruire il monastero di Bobbio. Tutta una sere di problemi geopolitici e religiosi da cui Virgilio Marone Grammatico sembra volersi parare nella prefazione alle sue Epistole, indirizzate a un ecclesiastico, Giulio. Nelle Epitomi non aveva mai esplicitato riferimenti alla religione cristiana e anche se qui non manca di farlo è sempre a modo suo, tirando fuori da chissà quale sacco un profeta persiano di nome Tarquinio(!), che avrebbe visto scendere dal cielo un fiume di vino che si sarebbe mescolato a un ruscello d’acqua sorto dalla terra. Risultato: un unico torrente di-vino che avrebbe unito cielo e terra: “E tu, fratello diacono Giulio, ubriaco del bellissimo vino della divina scrittura e della dottrina celeste, bevi anche da questo piccolo ruscello del sapere filosofico… Condivido la tua stessa fede”.


Le apparenze – e la sostanza – sono salve e questa sorta di George Perec del VII secolo può tornare anche nelle Epistole a veicolare una nostalgia di fondo verso l’antichità pagana esibendo i suoi “auctores” mai esistiti ma fondamentali. O forse questa apparente divulgazione in una società tornata a un livello quasi tribale è opera di uno dei tanti esponenti di quelle tribù irlandesi - perché tale rimase in fondo la struttura politica dell’Irlanda fino ai massacri di Cromwell, ma nel XVII secolo – che avrebbero dato vita a una vera e propria rinascita culturale e cristiana dell’Europa prima di Carlo Magno e del suo “ministro della cultura” Alcuino (non a caso di York), che tirò le fila di tutta questa trama complessa inaugurando una nuova era.


La fortuna dell’opera del Grammatico, infatti, è quasi tutta di stampo irlandese o inglese. A partire dalle citazioni dai suoi scritti. Il primo è sant’Aldelmo di Malmesbury (639-709), ex alunno della scuola irlandese dell’abazia di Iona (isola delle Ebridi), un altro che amava il latino difficile e conosceva bene anche gli Hisperica Famina (molto probabilmente composti proprio a Iona dopo la metà del VII secolo). E poi, cosa che mi ha stupito sempre, anche il più sobrio e misurato Beda il Venerabile (santo e dottore della Chiesa cattolica). Fino ad arrivare ad Attone vescovo di Vercelli (X sec.). E mai nessuno che alzi la benché minima condanna! Segno che era preso sul serio. Un maestro, un caposcuola vero anche se parlava di maestri immaginari. Certamente per questo è piaciuto a Umberto Eco e sarebbe stato un ottimo soggetto per Borges.
Virgilio aveva dunque fatto bene il suo – surreale – lavoro. E i codici, specie delle Epitomi, vennero copiati con un certo successo soprattutto nel IX secolo: bel contrasto anche questo con la ricerca di chiarezza della scuola carolina! Ma, come ha ben sottolineato Mirella Ferrari nella sua Nota sui codici di Virgilio Marone Grammatico, i quattro manoscritti fondamentali dei suoi testi “hanno origine tutti nell’arco cronologico di soli cinquant’anni circa (prima metà del sec. IX) in regioni invece piuttosto disparate: Luxeuil, Ile de France, Corbie, Salisburgo. Il comune denominatore che li lega è la provenienza da scuole dell’impero carolingio nelle quali la componente culturale irlandese era attiva o addirittura prevalente”.


Eccola qui che torna l’ipotesi irlandese. Piace anche a me: un san Brandano della grammatica, con la sua navigazione a vista attraverso le secche dell’ortodossia religiosa.

E se le secche fossero state anche quelle della nuova ortodossia grammaticale carolingia? È quanto sostiene Roberto Gamberini nell’articolo Divertirsi con la grammatica pubblicato su Filologia mediolatina  nel 2014. Un altro raffinatissimo colpo di scena: sarebbero stati proprio i dotti successori di Alcuino a intervenire, a infierire con mano pesante e volontà diffamatoria su Epitomi ed Epistole trasformando letteralmente l’insieme in una parodia satura di aggiunte comiche. La prova? I manoscritti che riportano per intero le opere del Grammatico sono tutti del IX secolo, mentre le citazioni sparse in testi di epoca precedente – quelle  per intenderci a cui si sarebbero ispirati Beda o Aldelmo – non sembrano recare traccia di quella specie di commedia dell’assurdo che tanto ci piace oggi quanto sarebbe dovuta risultare inconcepibile, irricevibile anche nella fucina ancora ardente del primo Alto Medioevo. In questo caso ci troveremmo però di fronte a una specie di cospirazione purista o al pesante intervento strutturale di uno o più dotti non solo non sanzionato ma addirittura – tacitamente o meno – pienamente avallato… Ma non sarebbe stata più semplice una congiura del silenzio invece di questa laboriosa riedizione? Una censura implicita invece di quattro feroci risate? Occorreva davvero spendere così tanta fatica, per quanto sinistramente geniale, per infangare la memoria di un grammatico disperso in un’epoca già ai tempi considerata remota, quando ormai l’onda lunga della scuola irlandese aveva perso la sua spinta propulsiva? Facevano ancora così paura gli scritti del misterioso insegnante che si celava dietro il nome del poeta latino per eccellenza, Virgilio Marone?

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E se, unendo le tesi di Gamberino e della Babino, finissimo per conseguire la somma di due persecuzioni, religiosa e sintattica, da parte dei filologi carolingi, tutti ecclesiastici, tutti custodi sia del Verbo che dei “verba”, della parola di Dio e delle parole degli uomini? Una censura doppia, sinistra e laboriosa, di cui non ho trovato altri esempi.

Di certo c’è che dopo l’età carolingia la navigazione di questa specie di Enea del mare magnum della parola sembra arenarsi. Ancora un secolo e poco più, alle soglie dell’Anno Mille è il solo Abbone di Fleury l’ultimo a citarlo (forse). Poi, dopo lo Scisma con Costantinopoli e la Riforma Gregoriana, la selezione degli scritti da parte della Chiesa di Roma si fa più oculata: Epitomi ed  Epistole non vengono più copiate. Cala il sipario, oltre il quale si tornerà a sbirciare solo nell’Ottocento.



La grammatica nasce per disinfettare le parole vive, quasi sempre sanguinanti. Il filologo e il filosofo se le scambiano e cercano di guardarle come lastre ai raggi X. In caso di malattia, l’analizzano pensando, sperando di esserne immuni. Mi piace pensare che Virgilio Marone Grammatico o chi per lui avesse intravisto questa emorragia interna del corpo intellettuale, questa ferita aperta fra pensiero laico e religioso e avesse cercato di cicatrizzarla usando parole e regole come esorcismi raziocinanti. Ne sortirono zombie dell’antichità e Frankenstein per la didattica. Contraddittoria volontà di potenza della parola.


Anche sul suo nome oggi eravamo solo in 5. Nella pagina, ottima, virtuale di Wikipedia.
Però ben oltre la media giornaliera di 2.
L’ultima stranezza.


MISTERI LAICI DELLA PAROLA
Frammento teatrale
(senza data)


Virgilio Marone Grammatico
(Rivolto a quello che resta dei suoi discepoli in mezzo alle rovine dell’anfiteatro di Purpan-Ancely a Tolosa)
Il nostro latino è come un esercito invincibile velato di mistero. Siamo rimasti in pochi, pochissimi, ma la lingua dei romani è ancora quella del potere. Ecco allora che le nostre labbra non ripetono solo regole: intonano canti di guerra. Le nostre mani forgiano, impugnano armi degne di un eroe sempre invincibile, antico. Loro, i barbari, temono solo la scrittura: non dire quella parola e non sarai salvato. Vedete quindi che i nostri libri sono scudi. Lo stilo che incide, che scrive è spada, lancia, freccia. L’inchiostro, l’inchiostro è il vino che ci inebria. Perché ha la stessa natura liquida, inafferrabile del sangue. È il nostro e dovrà essere quello dei nemici, che in questo inchiostro si legheranno al nostro sangue col legame inscindibile che ne consegue. Parliamo e ci armiamo. Ci confronteremo ebbri di queste parole, certi che la vittoria non si ottiene sul campo ma in quelle clausole dei trattati che sono figlie nelle nostre regole grammaticali, perché la sintassi è l’ordine che regna sui fogli bianchi o ripuliti dove le loro schiere disordinate devono restare ai margini. Le nostra città ha mura di diaspro cristallino e vie intricate come le nostre riflessioni: righe ben scritte e contenuti celati, dove chi non sa può, anzi, deve perdersi.

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