martedì 6 ottobre 2020

1978: ATLAS UFO ROBOT ALLA RAI

Dietro le quinte, dentro la Storia

Arte e geopolitica fra Giappone e Italia dal XVI secolo all’era dei Manga

Estratti dai miei interventi al Festival #INtenso organizzato dalla Biblioteca Civica Varese negli incontri Il giorno in cui arrivarono Heidi e Goldrake, nell'ambito del Filmfestival Internazionale Cortisonici, e L'Onda lunga: dai Manga di Hokusai ai videogame agli strumenti della musica popolare giapponese, curato da Neoludica Game Art Gallery


Atlas Ufo Robot, alias Goldrake, alias rappresentazione iconica del boom dell’industria dell’acciaio nipponico, sbarca in Italia il 4 aprile 1978, quando il Giappone riesce ancora a mantenere ritmi di crescita economica sostenuta e il nostro Paese è in piena crisi con l’inflazione che balla intorno al 12% (mancano anche le monete, noi ragazzini facciamo incetta di miniassegni come di gettoni del telefono) e, soprattutto, in pieno incubo sequestro Aldo Moro. Per quelli come me, che erano alle porte dell’adolescenza e ancora risentivano dell’aspetto tetro degli anni precedenti (stragi fasciste e terrorismo di estrema sinistra), l’apparizione di un nuovo supereroe nel magico contenitore di rifugio della tv in bianco e nero, come i sogni, fu come un raggio di sole (sarà stata anche la bandiera del Sol Levante). Uno dei pochi ricordi belli che ho del mio primo anno al Nord, in quella periferia culturale che era Induno Olona, dove come tutti gli immigrati non mi trovavo affatto bene e sarei tornato più volte con piacere solo molti anni dopo, abitando a Varese.

Precursori animati

Ma torniamo alle animazioni. È vero che qualche mese prima era arrivata sugli schermi Heidi del grande Miyazaki, ma l’epoca di mettere i nomi dei disegnatori sarebbe arrivata solo negli anni ’90 insieme alla definitiva consacrazione del fumetto come arte.  E poi era un “cartone animato da femmine” che aveva di attraente solo la sigla cantata da Elisabetta Viviani, di cui eravamo tutti innamorati (non solo Gianni Rivera). Anni prima ancora era stata la volta di Vicky il Vichingo, ma che fosse giapponese non l’aveva capito nessuno. Così come non sapevo che la serie televisiva anni ‘70 del mio amato Calimero – ma anche Barbapapà! - fosse frutto della collaborazione con la mitica Toei Animation di Tokyo, me lo ha rivelato di recente l’amico ed esperto Daniele Bernalda.

Io e l'esperto di manga Daniele Bernalda, relatori all'incontro Il giorno in cui arrivarono Heidi e Goldrake

Alla RAI, oltre i classici americani (ma non i Disney, che si vedevano solo al cinema), per un certo periodo erano stati familiari all’ora di pranzo i cartoni animati dell’Est Europa, specie quelli che venivano dall’Ungheria del “comunismo al gulash” di János Kádár come la tenera serie Gustavo. Ma non erano mancati al pomeriggio della “TV dei ragazzi” anche splendidi lungometraggi dell’animazione sovietica. Tutto nella norma prima dell’avanzata elettorale del PCI alle amministrative del ’75 e alle politiche del ’76… C’era stata poi la novità dei “fumetti in TV” prima con Gulp! e soprattutto con SuperGulp!, trasmessi in un più difficile orario serale dopo cena. Entusiasmo, ma anche una certa iniziale delusione per la scoperta che alcuni comics erano italiani, specie Alan Ford, anche se lo trasmettevano insieme all’Uomo Ragno. Gli pseudonimi usati dagli autori ci avevano fregato come i nostri genitori all’epoca degli “spaghetti western”. Non sapevamo che anche tutto Topolino era disegnato da italiani: c’era solo la firma Walt Disney, quindi doveva averli fatti lui, come ci confermavano con un certo fastidio gli adulti quando li interrogavamo su questi prodotti accessori. Italiano era il fumetto verosimile stile neorinascimentale come Tex, con l’eccezione di Bruno Bozzetto e della Linea della pubblicità della Lagostina. In tutta questa realtà, anche animata, in tumultuoso cambiamento irrompono i manga con i loro occhi enormi da arte altomedievale… Ma non dovevano essere a mandorla? Non erano giapponesi come il saggio Ten nel Nick Carter di Bonvi? E poi in quelle animazioni “caricaturali” si moriva pure! Non ci si era abituati: la morte era prevista per il naturalismo dei fumetti western. Willy Coyote o Paperino non morivano mai. Ci sarà pure stata una coazione a ripetere – sadica – del dolore, ma resistevano a tutto: investimenti di treni sbucati da chissà dove o esplosioni che li carbonizzavano, momentaneamente. Ci aveva già pensato Alan Ford  a sconvolgermi con omicidi ineluttabili nell’estate del ’77, ma quello, avevo poi pensato, era un giornaletto. Alla televisione pubblica…


Il Sol Levante e il Bel Paese

Il Giappone si presentava con prodotti all’apparenza immortali: era il mio registratore per cassette Hitachi, erano le radio a transistor, era per tutti nuove tecnologie ormai assolutamente affidabili (altro che la “robaccia giapponese da quattro soldi” di Woody Allen ne Il dormiglione). Era Giacomo Agostini passato dalla MV Agusta alla Yamaha nel ’74 (iniziava allora il dominio anche nelle grandi cilindrate). Erano i samurai (sandali compresi, incompreso invece il ruolo dei “ronin”, samurai senza padrone, nelle rivolte pro e contro la dinastia Meiji e la partecipazione ai primi movimenti socialisti nell’arcipelago) e le arti marziali di cui si aprivano scuole dappertutto: karate e, soprattutto, judo, di cui ero una giovane promessa (non mantenuta). È vero che il cinese Bruce Lee era stato più forte, però era morto. Il presidente Mao suscitava decisamente più simpatie dell’imperatore Hirohito, quello della Seconda Guerra Mondiale che poi sembrava una mummia, ma, politica a parte, di prodotti cinesi allora c’erano solo certi pentolini di metallo per il the o il latte a colazione e dei violini a basso costo -una delle poche cose occidentali permesse dalla Rivoluzione Culturale - tipo quello che torturai in quattro inutili anni al liceo musicale di Fermo. Quanto all’arte, giusto il cinema. Per i cinefili (ero ancora lontano dal diventarlo) i vari Kurosawa, Mizoguchi, Ozu e Ōshima erano già un mito. Per gli altri invece o i mostri (Godzilla e affini visti in tv già rovinatissimi). O il porno, almeno quello presunto tale, quei manifesti da brivido dei cinema a luci rosse con L’impero dei sensi  di Oshima (terzo elemento della triade proibitissima – paura e censura - insieme a Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e a Salò di Pasolini). Che poi quanto presentato come porno fosse politico lo sapevano nelle grandi città o in cittadine “rosse”, come Porto Sant’Elpidio nelle Marche, da cui venivo e dove anche quell’altra parola, Zengakuren (il movimento studentesco protagonista del ’68 Giapponese) l’avevo sentita e ricordata perché era strana (e prima del liceo l’avrei confusa con Zenga portiere della mia Inter, di tutt’altra vena ideologica). In compenso iniziai a interessarmi all’arte di Utamaro – e quindi anche a quella degli altri grandi del “Mondo fluttuante” (Ukiyo-e), Hokusai chiaramente compreso con la Grande Onda e i primi Manga in assoluto (1814) – dopo aver visto nell’’82 l’accattivante locandina de Il mondo di Utamaro di Jissōji, buon remake softcore del capolavoro di Mizoguchi Utamaro e le sue cinque mogli (1946).



Letteratura, tranne il primo Nobel a un giapponese nel ’68, Yasunari Kawabata, nome difficile da ricordare (e che avrei amato solo venti anni dopo), zero. Per i più, sottoscritto incluso, si ripartirà dagli anni ’80 con la riscoperta di Mishima e i postumi della visione di Stefania Sandrelli nel film di Tinto Brass La chiave, tratto dall’omonimo romanzo  di Tanizachi. Molto più tardi avrei letto quel gioiello devastante de Lo squalificato di Osamu Dazai, storia di un fumettista stile Kitazawa Rakuten (il vero creatore del manga moderno a inizi ‘900), ma in versione autodistruttiva. Sia Dazai, rivoluzionario bello e dannato, che la sua opera sono tuttora rivisitati da manga e anime.
Infine, di musica giapponese doc neanche a parlarne, ma direttori d’orchestra di musica classica occidentale sì: Seiji Ozawa, la mia Sagra della primavera di Stravinskij preferita, comprata l’anno dopo il mio addio ai manga, il 1980.



Sì, c’era questo che piaceva del Giappone, che tutto sommato ci assomigliava nella vita quotidiana, non era solo una questione politica per “gruppuscoli” come la Cina maoista. Dell’Asia orientale – guerra e dopoguerra in Vietnam e Cambogia e continui rivolgimenti del partito comunista cinese a parte - si sapeva poco, tranne la tecnologia, meno apprezzata, di Taiwan; che c’era la Malesia, ma era ancora quella di Salgari e Kabir Bedi; che Kabir Bedi era indiano come il Mahatma Gandhi e Indira Gandhi, che però non erano parenti e poi quello era un subcontinente; il nord siberiano infine era tutto Unione Sovietica, e quindi Europa. Ecco, i paesi comunisti si vestivano più o meno come noi, soprattutto i leader. Mai però quanto i giapponesi. E soprattutto i giapponesi europeizzati dei manga: la moda del futuro.
E poi, imperatore a parte, qualche nome dei loro primi ministri, il cui numero, come quello dei governi, faceva a gara in quantità coi nostri (“governi balneari” compresi), era noto: Eisaku Satō perché aveva vinto il Premio Nobel per la Pace firmando il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, Tanaka perché era finito in mezzo a mondiali di ping pong, Nixon e Mao riconoscendo la Cina comunista ed era finito nello Scandalo Lockheed in compagnia di un po’ di nostri politici, Takeo Miki perché suonava bene per noi bambini e poi Nakasone, prima per il nome e poi per quella sciagurata visita (prima e non ultima purtroppo) al santuario Yasukuni, luogo di culto dei nazionalisti, dove si onorano i morti in diversi conflitti bellici fra ‘8 e ‘900, ma anche non pochi criminali di guerra.
Il 4 aprile 1978 era premier Takeo Fukuda che, come in uno scontro fra eroi manga, finì per pestarsi a fine anno col suo successore Masayoshi Ōhira durante le prime primarie del partito liberaldemocratico…


Fukuda con Andreotti, Carter, Helmut Schmidt e Giscard d'Estaing al G7 di Bonn del luglio 1978

I due volti della medaglia: G7 e terrorismi

Ma eccoli qua i nostri due Stati, entrati a far parte del G7 dalla metà degli anni ’70: il Giappone tre anni prima di Atlas Ufo Robot alla RAI, l’Italia due. Una cauta, tranquilla amicizia, giusto per far dimenticare gli orrori totalitari del Patto Tripartito con la Germania nazista del 1940 e la devastante sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Lo spirito olimpico di Roma 1960 e Tokyo ’64 li ha pubblicamente e definitivamente purificati. Due belle feste e buoni rapporti di vicinanza-lontananza cercando il più possibile di esorcizzare ed emarginare i rigurgiti dittatoriali del passato. Dopotutto li accomuna l’appartenere alla sfera di influenza americana e il predominio politico ultradecennale di un mastodontico partito di centro (la “Balena bianca” democristiana e la “Balena gialla” del Partito Liberal Democratico ancora oggi al potere, con vice e primi ministri cristiani anche cattolici – l’ultimo, Tarō Asō, vice primo ministro appassionato di manga con Shinzō Abe e fra i papabili alla sua successione). Di diverso c’era che in Italia la DC di Moro aveva momentaneamente messo in soffitta il vessillo anticomunista per dar vita, nel ’76, a un governo monocolore di “non sfiducia” con l’astensione del partito comunista, presieduto da Andreotti (proprio lui), e, proprio nel ’78, a un governo, sempre monocolore ma di “solidarietà nazionale”, col sostegno esterno del PCI, presieduto da Andreotti (sempre lui). Il 16 marzo 1978, un’ora prima del dibattito sulla fiducia avvenivano il rapimento di Aldo Moro e il massacro della sua scorta da parte delle Brigate Rosse.
Dagli anni dell’acciaio a quelli di piombo. E il terrorismo non era certo un’esclusiva italiana. Il Giappone aveva sperimentato quello di estrema destra con due tentati golpe e relativi omicidi di primi ministri, in carica o ex, già negli anni ’30. Colpi di stato falliti, certo, ma che avevano spostato l’asse del governo su posizioni sempre più nazional-imperialiste (la sanguinaria invasione della Cina avviene proprio l’anno dopo l’ultimo putsch, nel ’37).

Il tentato golpe organizzato da estrema destra e ufficiali ultranazionalisti della marina nel 1932, costato la vita al premier Inukai

Nel 1960 – guarda caso quasi in contemporanea, poco dopo i rigurgiti neofascisti in Italia sotto il governo Tambroni – l’omicidio in diretta televisiva del leader socialista Inejirō Asanuma da parte dell’ultranazionalista Otoya Yamagughi, poi suicida in carcere.
Ma è nel 1972, col Paese ancora sotto i riflettori per le Olimpiadi invernali di Sapporo (quasi un presagio di quello che accadrà a Monaco), che, sempre in diretta tv, la polizia assalta un villino sul Monte Asama dove si sono rifugiati i terroristi della Rengo Sakigun, l’Armata Rossa Unita, dopo aver torturato e ucciso quattordici compagni epurati. Negli stessi anni si verrà formando, non in terra nipponica ma nel Libano prossimo alla guerra civile, l’Armata Rossa Giapponese che, in sinergia con i gruppi più estremi della guerriglia palestinese, si renderà protagonista di una lunga serie di sanguinosi attenti, compresa la bomba al circolo ricreativo delle truppe statunitensi USO a Napoli nel 1988 (una strage: cinque morti di cui quattro semplici passanti italiani, e quindici feriti). L’autore Junzō Okudaira non è mai stato catturato (potrebbe essere in Libano come in Corea del Nord). Verrà sgominata solo agli inizi del nuovo secolo, in un Giappone ben diverso, che vede la Cina sostituirsi come “tigre rampante” dell’economia mondiale.


Scena di devastazione dell'attentato a Napoli

Su tutta questa storia rimando al film United Red Army  di quel particolarissimo regista che è stato Kōji Wakamatsu (scomparso nel 2012, già co-regista di un documentario sullo stesso tema nel '71, produttore dell’Impero dei sensi  e autore anche di un lungometraggio sulla morte di Mishima).
La grande scalata come superpotenza economica, infatti, era durata fino alla metà degli anni ’80 quando, seconda solo agli Stati Uniti, lo scoppio della “bolla speculativa” aveva segnato l’inizio della recessione. Il Giappone avrebbe poi consolidato le sue posizioni ma senza più ritrovare, neppure alla lontana, quegli indici di crescita (la stessa cosa era già successa all’Italia dopo il “boom economico”). Degli ultimi anni la timida ripresa dell’economia con il conservatore Shinzō Abe, dopo una breve e sfortunata esperienza della sinistra al governo, proprio in questi giorni dimissionario. Politica che però si è unita a recrudescenze nazionaliste, in parallelo al formidabile boom cinese (nazionalista anche lui, dietro il paravento comunista), e ha portato al ritorno di revanscismi e negazionismi su orrori del passato bellico nipponico (dal Massacro di Nanchino del ’37 all’uso massiccio di “donne di conforto”, soprattutto cinesi, filippine e coreane costrette a diventare schiave prostitute per i soldati) sponsorizzati soprattutto dall’ex ministra della difesa Tomomi Inada (affiliata alla lobby revisionista Nippon Kaigi e fattasi fotografare col segretario del partito nazista giapponese), costretta alle dimissioni nel 2017 per un scandalo di insabbiamento sull’uso di forze di pace nipponiche in Sud Sudan.

Peace & love

Ma torniamo a immagini più pacifiche: quelle dei sempre cordiali incontri fra politici italiani e nipponici:
1961 Leone, allora solo innocuo presidente della Camera, brinda col presidente della Commissione Esteri giapponese;
1967 Il presidente della Repubblica Saragat fra l'ex premier nipponico Nobusuke Kishi (nonno di Shinzō Abe) e l'ambasciatore Shigeru Yosano;
1973 Andreotti, presidente del consiglio per la seconda volta, al pranzo offerto dalla moglie del premier giapponese Tanaka (altro divo della politica spregiudicato ed esperto di processi come lui);
1986 Il presidente del consiglio Craxi con l'omologo Nakasone;
2019 Conte e Abe a Roma (parata di bisillabi);
1969 Il nostro indimenticabile Sandro Pertini, allora solo presidente della Camera, riceve l'ambasciatore giapponese.

RAI, reazioni e autocritica


Ma è grazie a una funzionaria della RAI appena riformata, Nicoletta Artom, che dobbiamo l’ingresso di Atlas Ufo Robot nei nostri schermi. La scelta è frutto della sua scoperta della serie al Mifed di Milano nel ’77. Scelta che susciterà tanto entusiasmo fra i giovani quanto accese polemiche con i genitori. Ricordo un dibattito accesissimo a scuola durante la mia terza media (a Varese) con l’intervento risolutivo di un bocciato a favore dei manga che trascina con se l’approvazione di tutta la classe. L’astuta professoressa di italiano, contraria senza essere pasdaran, rinviò il seguito della discussione a data da destinarsi…

Immagini e approfondimenti in ImagoRecensio

Ci pensò la buonanima di Enzo Tortora a rinfocolare la controversia in tv con la puntata de L’altra campana del 18 aprile 1980, quando invitò una rappresentanza dì 600 genitori di Imola che si erano schierati contro la “violenza” di Goldrake e la sua riproduzione esponenziale nei disegni dei figli (nella media di pregevole fattura). Una battaglia inutile come quella dei 600 di Balaklava, ma che scatenò una rivolta anche all’interno della mia famiglia. Chi era contrario doveva spegnere le luci di casa e mio fratello, che non aveva ancora dieci anni, le tentò tutte per fermare mia madre e il sottoscritto, che di anni ne aveva già quattordici, poteva guardare certi film vietati e rinnegava quella macelleria di rottami ferrosi per bambini… Che tradimento!
E soprattutto che ignoranza! Rimediata solo all’università quando, venuto a conoscenza dei rapporti fra arte giapponese e occidentale, soprattutto italiana, scoprii che quelle animazioni erano frutto di un interscambio culturale fra popoli che datava da secoli.

L’arcipelago incontra l’Occidente: vele e cannoni, religione e arte

Carta del mondo di Martin Behaim (1492, riproduzione del 1887)

Citato come “Cipango” o “Zipangu” da Marco Polo, cercato e non trovato da Cristoforo Colombo, il Giappone viene raggiunto dai portoghesi nel 1543 mentre si trova nel bel mezzo di una profonda crisi politica, Periodo Sengoku (o “degli stati belligeranti”), spezzettato in numerosi potentati dai signori della guerra, i “daimyō” che rendono impossibile un controllo effettivo da parte shogunato degli Ashikaga. Qualcosa di simile all’anarchia feudale post carolingia. Quello che non era riuscito alle flotte di Kublai Khan con le invasioni del 1274 e del 1281 - spazzate via da tifoni provvidenziali ribattezzati “kamikaze” o “venti divini” (termine che forse ci dice qualcosa…) – riesce in modo pacifico ai lusitani, che raggiungono l’isola più meridionale dell’arcipelago, Kyushu, e ne approfittano per fare incetta di schiavi (specie di sesso femminile) e mettere sul mercato la loro merce più appetibile: gli archibugi. A quei tempi è sempre difficile dire se arrivino prima i missionari o i fucili. In questo caso sembra questi ultimi, perché il “colonnello” dei Gesuiti Francesco Saverio approda a Kagoshima solo il 15 agosto del 1549.

Arte Nanban, Prete con due bambini (1600 c.a)

Ma il grosso del lavoro lo farà soprattutto il suo successore, il missionario abruzzese Alessandro Valignano, apprendendo il giapponese e cercando una sintesi fra le due culture col Cerimoniale per i missionari in Giappone. Non a caso era stato proprio lui a istruire al rispetto della cultura locale il grande Matteo Ricci per il suo viaggio in Cina (col successo che sappiamo). Diversi i daimyō del sud che si convertono. Fra questi i più noti: Ōmura Sumitada (battezzato Bartolomeo; Ōtomo Sōrin (battezzato Francesco) e Arima Harunobu (battezzato Protasio, cresimato Giovanni).

Foglio informativo tedesco del 1586 con ritratti i componenti dell'Ambasciata Tenshō

È su ispirazione del Valignano e della sua predicazione rivolta all’incontro fra i popoli che nel 1582 parte alla volta dell’Europa la prima missione (“Ambasciata Tenshō”) di giovani dignitari nipponici. Culminerà nell’incontro con papa Gregorio XIII (quello della riforma del calendario) il 23 marzo 1585. Del capo delegazione Itō Mancio è rimasto anche un bellissimo ritratto attribuito a Domenico Tintoretto, esposto anche nella sua città di origine, Miyazaki (quando si dice il nome…), nel 2016, per il 150° dell’inizio delle relazioni diplomatiche italo-nipponiche.

Domenico Tintoretto, Ritratto di Itō Mancio (1585)

In una lettera del 1585 di Filippo Sassetti - intellettuale a Firenze e, con meno fortuna, mercante nella colonia portoghese di Goa in India (ne parlerò in un prossimo post) – si dà quasi per scontato che il “Giapan” diventerà cattolico: “Là comandano i padri Gesuiti, fanno la guerra, e pongono i re in istato e altre cose”. Sappiamo che non sarà così e la reazione anti cristiana alla lunga, specie dopo la rabbia accumulata coi due falliti tentativi di invadere la Corea nel 1592 e 1596, avrà la meglio con la restaurazione dello shogunato da parte di Tokugawa Ieyasu, del figlio Hidetada e del nipote Iemitsu, che attueranno una spietata repressione della religione di Roma (grazie anche all’appoggio dei nuovi signori dei mari olandesi, vedi il bombardamento del castello di Hara nel 1637). Nel 1641 col decreto shogunale “sakoku” l’arcipelago viene chiuso agli stranieri con le parziali eccezioni dei porti di Nagasaki (per il commercio con olandesi e cinesi) e di Tsushima (riservato ai mercanti coreani).

Arte Nanban, Paravento con i re d'Occidente idealizzati (1611-14)

Riaperture, traumi, ricomposizioni

Termina così anche quella prima influenza diretta dell’arte europea che aveva dato vita all’Arte Nanban. Non parliamo di capolavori, ma di opere di raffinata fattura, soprattutto paraventi che avevano per soggetto personaggi occidentali, sospesi fra l’estetica della Scuola Tosa (di più marcata impronta nazionale) e la Scuola Kanō (di rinnovata influenza cinese), che entrambe le sopravvivranno. Una pittura che mi ha sempre appassionato e commosso proprio perché tentativo di simbiosi, anche se irrealizzata, fra due mondi. Narrazioni sognanti capaci di far dimenticare per attimi preziosi i reciproci orrori del primo incontro.

Arte Nanban, L'Occidente come oasi di pace (1600 c.a)
 
Ma il successivo, purtroppo, sarà ancora, per dirla alla Carlo Cipolla, all’insegna di “vele e cannoni”. Con l’aggiunta del vapore. Dove non erano riusciti i tentativi russi della fine del XVIII secolo e le provocazioni inglesi d'inizio Ottocento riesce la minaccia della nuova flotta americana del commodoro Perry (1852-54). Si profila un nuovo incubo alla Kublai Khan, aggiornato con le Guerre dell’Oppio che stanno trasformando la Cina de facto in una nuova colonia britannica. Crollato il sogno dell’isolamento, il Giappone dello shogunato Tokugawa cerca di reagire iniziando a riformare la struttura dell’esercito con l’aiuto dei francesi e firmando tutta una serie di trattati commerciali il cui aspetto svantaggioso, tuttavia, fa presagire il peggio.
E infatti, dopo sanguinosi rivolgimenti interni, l’era degli shogun finirà. La nuova dinastia di imperatori Meiji, rappresentata dall’imperatore Mutsuhito, prenderà in mano la situazione nel 1868 e deciderà l’inevitabile: l’occidentalizzazione dell’arcipelago per resistere alle brame coloniali dell’Occidente. Per fare questo occorrerà riformare tutto l’apparato economico e dar vita a una rivoluzione industriale autoctona capace di fornire le basi strutturali alla nuova potenza dell’impero nipponico. Il surplus agricolo per effettuare questo balzo, come ha scritto il mio caro Claudio Zanier nel suo memorabile Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Dalla fine del XVI alla fine del XIX secolo, era già a disposizione e il nuovo governo Meiji interverrà subito a riorganizzare in modo organico l’amministrazione del settore primario.

Edoardo Chiossone, Ritratto dell'imperatore Mutsuhito (1888)

Il decollo dell’economia nipponica, anche se pagato a livello sociale a carissimo prezzo  - e su questo rimando all’antologia curata da Alfio Aloisi L’internazionalismo in Giappone (1897-1930) -  è uno dei “miracoli” della Seconda Rivoluzione Industriale e fa il paio con l’Italia quanto a intervento dello stato, produzione a fini bellici, nazionalismo aggressivo e progetti di espansione coloniale (a farne le spese saranno in primis Cina e Corea).
Nel 1871 parte la seconda grande missione giapponese in Europa, la Missione Iwakura, che non durerà più di otto anni come l’Ambasciata Tenshō ma meno di due e non avrà più come fine l’incontro con un papa non più re ma chiuso fra le mura di San Pietro, bensì uno studio approfondito dei vari tipi di potere in Europa e Stati Uniti e la revisione dei trattati ineguali del periodo precedente.

Giapponismo e occidentalizzazione

1905: La grande onda di Hokusai rivisitata per la copertina dello spartito dell'opera di Debussy, grande appassionato di arte giapponese.

E mentre il Giappone si occidentalizza l’arte europea, dopo le varie mode cinesi, è attratta dal “Giapponismo” sull’onda della diffusione e dello studio della meravigliose stampe Ukiyo-e, quel Sol Levante d’antan che si desidera diverso, luogo di fuga dal lato oscuro dell’industrializzazione (proprio mentre si sta omologando): pensiamo solo a certi quadri di Van Gogh. Forse, ancora senza esserne coscienti, s’intravvede nei capolavori di Utamaro, Hokusai e Hiroshige anche quel tocco occidentale nell’anatomia dei corpi che era frutto delle traduzioni in giapponese, dal 1720 in poi, delle opere scientifiche olandesi (i “Rangaku”). E proprio la raccolta di “disegni burleschi”, ovvero Manga, di Hokusai, nel 1814, a segnare l’inizio del successo del termine che poi sfocerà nel fumetto e nella sua animazione. Edmond de Goncourt, storico e letterato a tutto tondo, dedicherà a Utamaro e Hokusai, rispettivamente nel 1891 e nel 1896, i primi fondamentali studi sull’arte giapponese.

"Rangaku" del 1808 con la traduzione di un trattato del medico olandese Blankaart a opera di Udagawa Genshin

Tutto questo mentre l’imperatore e il suo entourage cercano di liberarsi dall’immaginario esotico-erotico (fatale a tante civiltà extraeuropee) e dall’etica da casta dei samurai (ridotti a “ronin”, guerrieri senza padrone, invano ribelli contro il nuovo potere), rimodellando l’esercito sul modello prima francese e poi prussiano, accentrando il potere amministrativo e riformando in toto il sistema scolastico. Nel 1889 si arriva anche a una Costituzione, gentilmente concessa dal mikado come 41 anni prima lo Statuto da re Carlo Alberto, con un diritto al voto (censitario) riservato per una sola Camera su due (quella Bassa) a una ristrettissima parte della popolazione (maschile): poco più dell’1% (peggio ancora del 2,2% dell’Italia prima della riforma De Pretis del 1882).
Ma è soprattutto nei primi tempi del cambiamento, prima della reazione tradizionalista degli anni ’80 dell’Ottocento, che le mode occidentali trovano un successo incontrastato. È l’epoca d’oro degli "Oyatoi Gaikokujin", i consulenti stranieri chiamati a modernizzare a tutto campo l’arcipelago.

Il ruolo dell’Italia per una nuova rappresentazione del mondo

Lo si vede bene anche in campo artistico. Cercando di svecchiare l’estetica tradizionale vengono invitati maestri d’arte dall’estero e, cosa fondamentale per noi, soprattutto dall’Italia. È infatti dall’incontro di uno degli esponenti della Missione Iwakura, Itō Irobumi (fra i primi a studiare in un’università inglese nel 1863, più volte ministro e primo ministro) con Alessandro Fè d'Ostiani, ambasciatore italiano in Giappone dal 1870 al 1877, che vengono poste le basi della Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo. La fondazione è del 1876, come parte del Collegio Imperiale di Ingegneria, il che ne qualifica subito l’aspetto strumentale finalizzato più alle arti applicate da commercializzare che alle belle arti in senso stretto. D’altro canto l’Arte Nanban di tre secoli prima non era stata un’estetica da paraventi? Fatto sta che la Scuola diventa un crogiolo di nuove forme dove a guidare l’altoforno sono quasi sempre artisti italiani, certo non geniali ma di grande professionalità.

Felice Beato, Samurai del clan Satsuma durante la Guerra Boshin (1868-69)

Il genio era arrivato prima, nel 1863, in campo fotografico, con i bellissimi scatti di quel personaggio particolarissimo a metà strada fra l’artista, l’avventuriero e l’affarista che risponde al nome (altrettanto particolare) di Felice Beato, formidabile reporter fra Crimea, India, Cina, Giappone (fino al 1884), Sudan e Birmania. Ora invece l’istituzione prevedeva insegnanti  regolari e senza troppi grilli per la testa. I nomi dei direttori scolastici sono noti a chi conosce i flussi più tranquilli della nostra arte del XIX secolo sia che si parli di Antonio Fontanesi (esperto paesaggista) o di Prospero Ferretti (emiliano come il primo e interessato anche all’astronomia).


Antonio Fontanesi con i suoi studenti in una foto del 1878

Lo stesso dicasi per i docenti del Bel Paese: dai corsi preparatori dell’architetto milanese Giovanni Vincenzo Cappelletti (proposto nientedimeno che dal ministro dell’istruzione Bonghi) a quelli di disegno e pittura di Achille Sangiovanni (che introduce lo studio del nudo). C’è poi l’interessante esperienza dello sculture Vincenzo Ragusa, che oltre alla docenza ha lasciato un’affascinante eredità di ritratti di giapponesi dell’epoca, spesso gente comune (un'altra piccola rivoluzione). Così come la sua storia d’amore con la modella, l’artista Kiyohara O' Tama, che si traferisce con lui a Palermo e lo sposa diventando un’interessante pittrice di realtà siciliane.

Kiyohara  O' Tama, La notte dell'Ascensione o La benedizione degli animali (1891)

A loro, proprio l’anno scorso, nel Palazzo Reale di Palermo, è stata dedicata la mostra O’TAMA. Migrazione di stili. Infine il caso dell’incisore Edoardo Chiossone, direttore dell'Officina Carte e Valori del Ministero delle Finanze giapponese dal 1875 al 1891, l’artefice della prima banconota del Sol Levante (1877). C’è ritratta la leggendaria imperatrice Jingū, ma il valore è nella nuova valuta dello yen, introdotto dalla legge monetaria su base decimale del 1871.

Ma la sua opera non si limita alle centinaia di lastre per banconote, francobolli, titoli di stato  e bolli di monopolio (basterebbe già questo), l’artista esegue tutta una serie di dipinti e incisioni che ritraggono l’establishment del Sol Levante: dalla coppia imperiale ai cortigiani, dagli statisti ai militari d’alto rango. Solo per fare un esempio, l’incisione che raffigura l’imperatore Mutsuhito su tutti i libri di scuola è opera sua. Quando muore, nel 1898, viene sepolto nel cimitero più importante del Paese, quello di Aoyama, oggi anche meta di attrazione turistica. L’anno successivo, per volontà testamentaria, approda in quella Genova dove si era diplomato professore di disegno e di pittura la sua enorme collezione di più di 15.000 “antichità” giapponesi, imballate in un centinaio di casse. Scrivo "antichità" fra virgolette perché non si trattava solo di oggetti antichi tout court, ma sentiti tali, anche se di fabbricazione recente, da chi voleva o poteva disfarsene per “occidentalizzarsi” oppure si trovava nella necessità di venderli per evitare la rovina economica, com’era il caso di clan aristocratici esclusi dal nuovo corso della politici Meiji. Forniranno la base di quello che oggi è uno dei più prestigiosi musei al riguardo: il Museo d’Arte Orientale “Edoardo Chiossone” in Villetta Di Negro, a Genova (il primo realizzato a spese di una pubblica amministrazione nel dopoguerra).

Due Scuole per una nuova “tradizione”

Nella fotocomposizione opere di particolare bellezza di alcuni artisti giapponesi ispirati dall'arte europea e appartenenti allo Stile Yōga. A partire da sinistra in alto: Kume Keiikiro ritratto da Kuroda Seiki, un paesaggio di Koyama Shōtarō, una foto di Okada Saburōsuke in studio; un autoritratto di Kuroda Seiki, un quadro di pescatori di Kawamura Kiyoo, un ritratto di Okada Saburōsuke; tre splendide opere di Shigeru Aoki, lo Schiele nipponico (il mio preferito)

La Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokio chiude i battenti nel 1883, sempre più contestata da un movimento di rinascita dell’arte “tradizionale” nipponica. Anche qui uso le virgolette perché questa reazione avviene soprattutto sulla base di una sollecitazione esterna (gli studi dell’orientalista americano Ernest Francisco Fenollosa). Quando si parla di “ritorno alla tradizione” bisognerebbe sempre avere presente l’opera fondamentale curata dal grande Eric Hobsbawm e da Terence Ranger L’invenzione della tradizione (1983), perché quanto pretende di presentarsi come “tradizionale” è sempre frutto di rielaborazioni – se non di vere e proprie falsificazioni – che si attuano alla luce dei cambiamenti intervenuti, assolutamente presenti anche se tenuti sotto silenzio.

Lo stile di questo ritorno a convenzioni, tecniche e materiali del “bel tempo che fu” è passato alla storia come Stile Nihonga e ha prodotto o rimesso in campo, è bene dirlo, fior d’artisti come Kanō Hōgai, Tomioka Tessai, Hishida Shunsō, Takeuchi Seihō o Kokei Kobayashi (il Matisse giapponese) - giusto per fare qualche nome – e gode ancora di buona salute. Non ha potuto fare a meno, tuttavia, di prospettiva e ombreggiatura, che tradizionali non erano. Si trattava piuttosto di frutti raccolti dalle produzioni della scuola europea, che aveva dato vita a sua volta allo Stile Yōga. Pitture a olio, acquerelli, pastelli, litografie e incisioni che caratterizzano il passaggio fra Otto e Novecento nell’arcipelago. Opera soprattutto di artisti – e la cosa non stupisce – originari dell’isola di Kyushu, come Kuroda Seiki o l’ancor più noto Fujishima Takeji, la cui Reminiscenza dell'era Tenpyō (1902) rappresenta l’immaginario femminile di un’epoca fra storia e leggenda (l’VIII secolo) aggiornato secondo i crismi dell’Art Nouveau.

Una delle sintesi: il Manga contemporaneo 

Ed eccoci arrivati al momento risolutivo del nostro discorso. Si è partiti dal fatidico 4 aprile 1978 per fare un balzo indietro nei secoli, prima all’Arte Nanban e poi agli stili Nihonga e Yōga, sviluppatisi in reazione o continuità  con la breve ma intensa esperienza della Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo. Ebbene, come i Manga di Hokusai erano figli di secoli di sperimentazione estetica locale arricchita dall’apporto dei “Rangaku” olandesi, così anche i manga contemporanei sono frutto dell’osmosi fra arte occidentale e rielaborazione autoctona. L’artista che rappresenta perfettamente questo punto di incontro è il creatore del fumetto manga contemporaneo: Kitazawa Rakuten. Formatosi sullo studio degli stili Nihonga e Yōga, dopo un apprendistato sulla rivista inglese Box of Curios (1895) sotto la guida di Frank Arthur Nankivell (futuro caricaturista della rivista america Puck), sempre attento agli sviluppi dei comics Made in USA, nel 1899 si trasferisce al quotidiano Jiji Shimpo di  Fukuzawa Yukichi, intellettuale e imprenditore tra i fondatori del Giappone moderno. Cura la pagina domenicale a fumetti Jiji Manga (eccolo qui il termine come lo conosciamo oggi, finalmente sdoganato). È il trampolino di lancio per una rivista tutta sua, Tokyo Puck, fondata non a caso nel 1905, l’anno in cui il Sol Levante trionfa nella guerra russo-giapponese ponendosi in prima fila fra le potenze mondiali. Nel 1929 il suo geniale apporto a questa nuova arte di massa viene riconosciuto anche in Europa, in Francia, dove riceve la Legion d’Onore. Dieci anni dopo la sua morte, nel 1966, la sua casa nella città di Saitama viene trasformata in quello che oggi è il Museo Municipale del Manga.

Il suo lavoro influenzerà professionisti del calibro di Okamoto Ippei, Oten Shimokawa e, soprattutto, Osamu Tezuka, il primo grande disegnatore di manga a livello internazionale, definito anche “manga no kamisama” o “dio del manga”. È lui il creatore del tratto distintivo dei nuovi comics e cartoni animati giapponesi (le famose “anime”): i grandi occhi, che stupirono bambini e adolescenti italiani quarant’anni fa e che invece derivavano da fumetti che conoscevamo benissimo come Topolino o Betty Boop. E pensare che Tezuka, da ragazzo, era stato colpito da una grave forma di micosi che aveva rischiato di paralizzargli entrambe le braccia! Si era laureato in medicina come ringraziamento per i medici che l’avevano curato e per curare gli altri, specie dopo la visione degli orrori provocati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Soltanto la genialità del suo disegno lo portò a continuare in campo artistico: quanto prodotto da quelle mani quasi miracolate avrebbe curato, appassionato e sollevato in maniera diversa gli esseri umani. Fra i tanti personaggi usciti dalla sua penna nel 1952 decolla Astro Boy, il primo manga di carattere fantascientifico capace di riscuotere un immenso successo a livello mondiale. Successo che dura ancora oggi (anche perché il tema della robotica, trattato in modo originale e profondo, è quanto mai attuale).

È il nonno sempre giovane di Goldrake e di tutti i robot della Toei Animation che l’hanno seguito a schiera sui nostri teleschermi, compresi Mazinga Zeta e Il Grande Mazinga, usciti prima di Atlas Ufo Robot in Giappone e invece comparsi da noi dopo. Creando non pochi problemi di interpretazione. E c’era pure quella storia dei Micenei diventati cyborg a causa di un cataclisma che li aveva costretti a vivere sottoterra e a riemergere in forma di cattivi combattuti da Mazinga Z e dal Grande Mazinga, guidati da Alcor, che quindi non era lo sfigato numero due di Actarus, ma un protagonista che era passato anche sotto altri nomi come Koji Kabuto e Ryu…

Verrebbe voglia di dire con Mishima che la memoria è Lo specchio degli inganni.

E invece, forse, tutto torna. Un arco di mezzo millennio per scoprire dietro un’animazione tante anime culturali che danno la visione migliore di un incontro fra i popoli.

Notte inoltrata, un orario impossibile per il ragazzino del ’78, tempo ideale per condividere questo ennesimo turbinio di immagini e pensieri a cui ho cercato di dare un senso. Prima che svaniscano nel sonno, prima di un risveglio in cui passino la consegna ad altri personaggi, immagini, storie, assaporo ancora una volta dalle Memorie poetiche della mia amata Murasaki Shikibu questi versi che dedico a chi mi leggerà:

“Potrei scordarmi

Di scriverti,

Inviando novelle

Con la luna che volge al tramonto

E il passaggio delle nuvole?”.

Luca Traini

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