STORIA E FILOSOFIA

MA TU, SOCRATE, CI CREDI? Il fiume Ilisso e il Prologo del Fedro di Platone
DUE MORTI PER UN CONCETTO Una diversa lettura dell'Eutìfrone di Platone
INVITO A CENA CON DELITTO NELLA ROMA DEL IX SECOLO La Coena Cypriani
ALESSANDRO MAGNO IN VALLE D’AOSTA Il castello di Quart
LA SCUOLA DEL MISTERO L'opera inquietante di Virgilio Marone Grammatico fra politica, religione e congiure (VII-X sec.)
NON SOLO MACHIAVELLI E GUICCIARDINI Le Memorie di Philippe de Commynes
LA DIFFERENZA DI ERASMO Il Ciceroniano
LA FILOSOFIA DI BERKELEY Dalle Bermuda alla Realtà Virtuale
CONTEMPLARE LA DISTRAZIONE "Natura" e "cultura"
IL NUOVO ECOMUSEO DI ORINO (VA)
SPALLANZANI AL PALAZZO DEI MUSEI DI REGGIO EMILIA Biologia della Bellezza
ALESSANDRO VOLTA, LUCREZIO E LA SCOPERTA DEL METANO
L'INVENTORE DEL COMPUTER INNAMORATO DELL'ITALIA Charles Babbage (1791-1871)
SimCity e le Leggi di Platone: “Un bravo architetto bisogna che giochi” (I, 643b)
QUANDO LA STORIA FA "PONG" Nixon, Mao e un leggendario videogioco
FABIO MANISCALCO Un grande archeologo, un eroe dei nostri giorni
IL REGNO DEL CONGO, IL PRIMO VESCOVO DELL’AFRICA NERA (1518)
BLACK LIKE MENERO COME ME Il capolavoro di J. H. Griffin ancora di grande attualità
LA GRANDE SPERANZA DI KAREEM, LA NOIA DISTOPICA DI ELLROY E I "BORGHI PUTRIDI"
GROENLANDIA: IL LIBRO CHE TRUMP NON LEGGERA’ Collasso di Jared Diamond
TUCIDIDE E BORIS JOHNSON Il lato oscuro dei classici
IL VIAGGIO SEGRETO DEL PAPA IN SCOZIA
CANTERBURY TALE Eadmero, Anselmo d'Aosta e i figli di Guglielmo il Conquistatore Il dramma sacro della politica (Parte prima)
A.D. 395: A MILANO SI DECIDONO LE SORTI DELL'IMPERO
L'ANTRO DELLE NINFE (III sec.) Vie di fuga (con e senza ritorno) nella filosofia, nella politica e nell'arte
VALCAMONICA: UN "MIRACOLO DIGITALE"
SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS (AOSTA) Area e aura archeologica fra mito e storia
PALLADIO La storia lausiaca
RUFO FESTO AVIENO, IMILCONE E LA "VIA DELLO STAGNO"
CURA E NATURA Due femminili: Trotula e Ildegarda _ I chiaroscuri di Paracelso
FILOPEMENE IN INDONESIA Il punto di vista degli altri
SCIENZA E STORIA LUNGO IL MARCIAPIEDE



MA TU, SOCRATE, CI CREDI?

Il fiume Ilisso e il Prologo del Fedro di Platone


Commento musicale Luigi Nono, ...Sofferte Onde Serene...



Oggi lo vedi cementificato, quasi prosciugato l’Ilisso che lambiva Atene, interrato come tanti fiumi torrenti su cui si è costruito il volto della città moderne, per evitare ogni genere di irregolarità, le piene. E questa ricerca della "moderazione" di ogni evento naturale sarebbe certo piaciuta al Socrate di Platone, che proprio su queste rive discorre con Fedro nel dialogo omonimo. Le acque allora erano piacevoli, pure e trasparenti e per fare chiarezza su un argomento come l’amore i due protagonisti cercano l’ombra dei platani - “platano”: la stessa radice di “Platone” - che crescevano numerosi sulle sponde. Fedro porta nascosto nel mantello un libro – e c’è da stupirsi di quale formidabile nuova tecnologia fossero questi primi libri, patrocinati dagli scandalosi sofisti – dentro c’è un discorso sull’amore del grande retore Lisia. Un libro perché non l’aveva ancora imparato a memoria, colpa platonica di non poco conto aver bisogno di un simile strumento, la scrittura figlia della contabilità, per una facoltà fondamentale della tradizione dei sapienti, tutelata non da una ma da due dee: Mneme e Mnemosine.


Parte col piede sbagliato Fedro, che pure lo ha libero da calzari, come sempre scalzo è Socrate – e l’acqua fresca dell’Ilisso è l’ideale nel torrido mezzogiorno estivo che azzera le ombre degli uomini. E aggiunge che il vento sembra della giusta misura, un venticello tonificante. Così Socrate risponde: “Fai tu da guida”. Il vento, che nel testo ha lo stesso termine di “respiro”, non era stato sempre così piacevole.


Fedro allora ha un ricordo, una reminiscenza che prende forma di domanda: “Non è proprio qui, da queste parti sull’Ilisso che  Borea (il vento del nord) rapì Orizia (figlia di un mitico re di Atene fulminato da Zeus, Eretteo, a suo volta nipote o figlio del mostruoso Erittonio)?”. E’ anche da notare che Borea era diventato proprio nel V secolo a.C. (l’epoca del dialogo) una specie di dio nazionale per gli ateniesi, in ragione di questa sorta di parentela con i re mitici ma soprattutto perché si riteneva li avesse aiutati scatenandosi contro la flotta di Serse, da cui una festa in suo onore e un altare sulle rive dell’Ilisso.

Socrate risponde: “Si dice, infatti”. E all’altro pare proprio il posto giusto per vederci giocare delle fanciulle, con le acque così pure e diafane: l’esempio è quello di Nausicaa e delle sue ancelle nell’Odissea. Ma non è un gioco da ragazzi, il luogo del rapimento è più avanti, dov’è il santuario del demo di Agra (da *akwa “acqua corrente”) c’è l'altare dedicato al dio del vento del nord. Fedro ammette di non averci mai fatto attenzione, riflette e prorompe in una domanda epocale: ”Ma, dimmi, per Giove, Socrate, tu pensi che questo mito sia vero?”.


Il termine che usa è “mitologema”, che di norma si traduce “racconto favoloso”, ma può anche significare “materiale mitico”, “racconto primordiale” - ed è oggetto di numerose discussioni in ambito accademico - ma il punto è se il nuovo sapiente, cioè Socrate, dopo la messa in discussione del patrimonio  tradizionale operata dalla filosofia e in particolare dai sofisti, creda ancora a questa narrazione fondante ancestrale. E’ la domanda tipica di tutti i profondi rinnovamenti delle culture, in  particolare di quelle che hanno al centro la vita nelle città, delle civiltà sottoposte a un ritmo di cambiamento più rapido e osservabile. Una domanda che, in questo caso, è rivolta a un devoto dell’Apollo di Delfi, che sa di non sapere, non sapere abbastanza per mettere in crisi la tradizione, al Socrate di Platone, che quella tradizione di sapere aristocratico vuole mantenere rinnovandone i termini e ampliandone i contenuti. La sfida è con l’Atene democratica, il suo sviluppo economico, la sua mobilità sociale, i nuovi saperi che accoglie (dal naturalismo di Anassagora alla sofistica di Protagora e Gorgia), che hanno scardinato la precedente visione di un mondo agricolo e pastorale chiuso e definito nella tradizione orale dei padri e padroni della proprietà terriera, gli “aristoi”.


Dunque tu, Socrate, credi ancora a questi racconti di un favoloso passato? Sì, il Socrate di Platone ci crede e dice che non sarebbe il personaggio strano, fuori moda, che è se non ci credesse. Proprio perché, dall’eredità aristocratica del pensiero dell’Apollo delfico, “sa di non sapere” e, non sapendo bene chi è (una crisi di identità della vecchia classe dirigente che Platone vorrebbe superare) non si impiccia delle cose che sono fuori di lui e, “mantenendo fede alle credenze che si hanno di esse”, vuole evitare il rischio tragico dell’arroganza, della “ubris” (un’avvertenza che sarà fatta propria da tante teologie a seguire)Per questo invita Fedro a sedersi all’ombra dell’agnocasto, simbolo non a caso di castità, di “purezza”, per non restare “contaminato” da simili insinuazioni. Così Platone riconduce a “simbolo” il mito di Borea e Orizia anche nel senso letterale della parola, di contratto, di tessera divisa in due, ricomposta in mosaico dalla divinità che riconduce a sé, in suo potere, quanto aveva diviso: la donna, l’essere umano, la sua apparente libertà.


Un pronunciamento del Socrate platonico è nella Repubblica, dove, una volta ridefiniti i diversi stati dell’animo umano, la città e la sua cultura vengono riorganizzate operando una selezione dei racconti del mito, riducendoli a simboli che rimandano ad altro e cercando di ripulirli da quanto nel dibattito filosofico, a partire da Senofane e Parmenide, era stato rinchiuso nel termine di  “contraddizione”. Questa specie di legge quadro troverà il suo regolamento  nelle Leggidove il “mitologema” diventerà il “racconto favoloso” finalizzato a “persuadere le anime dei giovani a credere quello di cui li si vuole convincere” (Leggi 664a) – il legislatore dovrà avere il coraggio “di mentire in qualcosa per il bene dei giovani e… per far compiere a tutti, non con la violenza, ma volontariamente, ciò che è giusto” ( Leggi663d-e) - e ogni dubbio sulla/e divinità sarà bandito e passibile di condanna a morte o  di detenzione in diversi carceri, fra cui il Sofronisterion, l’”Assennatoio”, il “carcere di correzione”, prototipo di tutti i famigerati “campi di rieducazione”.



Dal dialogo en plein aire al carcere sembra il destino dello stesso fiume in riva al quale, con tanta piacevolezza e a piena luce, era nato un discorso destinato ai filosofi quali guardiani della parola scritta sull’amore. Rinchiuso in una cupa prigione dal filosofo invecchiato e diventato guardiano tout court (insieme ad altri nove parte del Consiglio Notturno delle Leggi, la notte più amata dalla polizia politica che dai poeti, l'"eteria", la società segreta aristocratica ateniese filospartana elevata a modello di Stato). Dall’Accademia platonica all’accademismo che non ammette repliche. E come rapiti in volo dallo stesso vento gelido, passiamo dalla fine dell’”epoca d’oro” della democrazia ateniese ai cupi regimi anni ’30 del secolo appena passato.


Sei davvero convinto che qui scorreva, scorre l’Ilisso? Che ci fosse Platone alla guida delle betoniere che fecero questa colata di cemento? Che il fascino di interrare il passato in nome di una sua resurrezione in forma di lastricati, squadrati a dovere, avvenne in nome di una reinvenzione della tradizione negli anni di ferro della dittatura di Metaxas?


La sfida è quella di sganciarsi dal “credo” per mantenere viva la domanda, il dubbio costruttivo riguardo a ogni mitologia, considerare la stessa come racconto in fieri la cui continua costruzione non deve prevedere per forza di cose – o di idee - una cementificazione, dei fiumi come del pensiero.

Luca Traini
Biografia
Storia e Filosofia
Il Dittico di Aosta


Foto (dall'alto) 1. Montaggio fra l'Ilisso del 1821 dipinto da Edward Dodwell e quello odierno fotografato da Dimorsitanos 2. Frammento papiraceo del Fedro di Platone (II sec. d.C.) 3., 4., 5. Diversi rapimenti di Orizia nei quadri di François Boucher e Francesco Solimena (XVII sec.) e Oswald von Glehn (XIX sec.) 6. Pianta dell'Atene classica 7. "Piante pericolose" (1850) 8. Carcere panottico dismesso dell'Isola di Santo Stefano (foto di Gaùcho) 9. Il dittatore Metaxas mentre fa il saluto romano insieme a membri dell'organizzazione giovanile greca in una riproposizione funerea di architetture "classiche" (ironia della storia il suo Paese sarà invaso proprio dal regime fascista italiano) 10. La Kylixdi Exekias (foto di Matthias Kabel) raffigurante Dioniso trionfante sulla nave dei pirati, trasformati in pacifici delfini.




DUE MORTI PER UN CONCETTO

Una diversa lettura  dell’Eutìfrone di Platone



L’Eutìfrone mi ha sempre colpito per la brutalità della causa scatenante il dialogo: due orrendi omicidi, guerra fra poveri in quella che doveva essere “la campagna di una volta” (chiamala “durezza” se vuoi, ma non basta). Due di quelle morti violente perpetrate fra le quattro mura di casa, al chiuso, morti che puzzano il doppio. Un bracciante ubriaco fradicio che ammazza uno schiavo e poi viene buttato dal padrone in un pozzo e dimenticato lì.
Ecco, l’aereo discorso sulla “santità” parte da questa vicenda terra terra, da un vecchiaccio dispotico che lascia crepare non tanto un assassino, ma un pezzente maldestro che gli ha rotto un oggetto di proprietà, una cosa parlante. E il figlio, l’Eutìfrone che da nome al dialogo, ha il coraggio di denunciarlo: cosa inaudita anche nella democratica Atene - e poi non ha mica ucciso un consanguineo!
E' anche il parere di Socrate e da subito si vede quanto parteggi per il padre padrone, uno di quei vecchi terribili poi tanto cari al terribile vecchio Platone delle LeggiQuando nell'incalzare del dialogo citerà, censurandoli, i comportamenti di Zeus e Crono verso i rispettivi padri, è chiaro che alluderà al comportamento di Eutìfrone.
Certo, quest'ultimo, un indovino pare neanche particolarmente apprezzato, di certo non un mago della dialettica, nell'ambito del dialogo non fa un gran figura, mostrando una discreta ottusità nel mettere in discussione le sue, poche, granitiche certezze. Non dobbiamo però dimenticare che questo è il punto di vista, diciamo l'opinione, del Platone che si cela nella statuetta di Sileno del suo Socrate, del filosofo impegnato a fondo in un grande progetto di rifondazione aristocratica che non ha certo tempo da perdere in cause che riguardano braccianti o schiavi.
Tuttavia, agli occhi di un moderno ben contento di essere tale, la tentata denuncia del povero indovino nei confronti del padre violento - possiamo immaginare come sarà andata a finire - è un gesto di grande umanità, che merita di essere ricordato. 


Quindi un figlio contro il padre e due omicidi. Ma la cupa premessa non finisce qui. I due s'incontrano all'ingresso del tribunale dell'arconte re (e la presenza dietro le quinte di questa arcaica figura non è certo un caso). Uno sta per entrare, l'altro è appena uscito: dialogo immediato, senza intermediari o reminiscenze, magia drammatica di Platone. Socrate è in punto di fare il suo ingresso per respingere l'accusa di Meleto (non a caso fisiognomicamente brutto dentro e fuori, come Tersite) e sappiamo la fine che farà. Senza contare che Atene, il grande corpo della polis, è appena uscita da una guerra civile e da una catastrofe  militare che ha visto la rivolta di buona parte degli ex-sudditi del suo impero. In  questa situazione di crisi profonda a cui la restaurazione democratica di Trasibulo sta cercando di rimediare in qualche modo (ne mimneskein “non ricordare”, la parola d’ordine tutt'altro che platonica riportata dal filospartano Senofonte nelle sue Elleniche), ecco la scandalosa novità di un uomo che vuole accusare il padre per l’omicidio di un non-consanguineo (e forse solo una profonda crisi di “valori” poteva spingere a ciò un devoto all’antica come Eutìfrone) e addirittura un dialogo su ciò che è “santo” -ma, soprattutto, su ciò che non lo è (il dialogo molto “intelligente” – e astuto, specie nei confronti dei posteri – di un disperato, letteralmente e letterariamente, perché è pur sempre il Socrate di Platone).
Alla fine del testo non si approderà a nulla, se non a smontare le premesse teoriche di Eutìfrone (ma speriamo non lo abbia distolto dal suo fine). Una buona, anzi, ottima scusa per far capire che in fondo il “santo”, cioè il “giusto” della cui “giustizia” la “santità” è parte, è lui, Socrate: una specie di difesa prima dell’Apologia.
L’esegeta, l'esperto di leggi, che tanto diceva di aver cercato il vecchio omicida per un parere (mentre il suo lavorante agonizzava nel pozzo), l’ha trovato il figlio. E’ Socrate, il figlio dello scultore, il pronipote di Dedalo inventore di automi, ispiratore alla lunga dei cittadini della Repubblica che forse è in cielo, Socrate che volò alto, come l’accusato del modo proverbiale “Accusi forse uno che vola?” (Eutìfrone 4a), come il sofista mascherato delle Nuvole di Aristofane. Ovvero, “Accusi me” sembra dire Socrate, perché se il mantis parla come un folle, allora è come Meleto e questa città (la parte democratica), che lo condannerà, condannerà il maestro di Platone, il padre spirituale che il discepolo penserà, anzi, meglio, crederà di non tradire mai.


La città malata di stasis come i vecchi di Eutìfrone, incapace di stabilire un criterio di giustizia il più possibile non contraddittorio (e quindi privo di contraddittorio, non solo in tribunale), quella condannerà Socrate, come un figlio ingrato. Come Eutìfrone.

Luca Traini



INVITO A CENA CON DELITTO NELLA ROMA DEL IX SECOLO

La Coena Cypriani


Antipasto: “Eva (prende) un frutto di fico,
una mela Rachele, Anania delle prugne,
dei bulbi Lia, olive Noè,
una salsa all’aceto Gesù”

Invito a cena con delitto nella Roma di papa Giovanni VIII (forse il primo a morire assassinato). E’ la Coena Cypriani, “La cena di Cipriano”, un piccolo gioiello, una satira mimata, uno “iocus” colto fra tardo antico e alto medioevo che imparai ad amare trent’anni fa, quando studiavo latino medievale alla Statale di Milano col mitico Giovanni Orlandi.
L'ho ritrovata su Amazon nell'edizione curata e tradotta da Albertina Fontana per Servitium.

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L’attribuzione a Cipriano, vescovo di Cartagine nel III secolo, è fittizia: il testo originario è opera di un anonimo del V secolo. Il contesto, uno scenario dove tradizione letteraria latina e biblica sono ormai in simbiosi.  La trama, esotica e senza tempo: “Quidam rex nomine Iohel”… “Un certo re, di nome Gioele, le nozze celebrava in Oriente a Cana di Galilea, e molti invitò a partecipare alla sua cena” (la traduzione, come in tutte le citazioni che seguono, è sempre di Albertina Fontana). Il fine, didascalico (“gradevole e utile, proprio perché permette di riportare alla memoria tante vicende e tanti personaggi”, parola di Rabano Mauro): infatti gli invitati, una bella folla, sono personaggi dell’antico e del nuovo testamento, connotati dal vestiario all’alimentazione. Il tutto è ai nostri occhi a dir poco bizzarro, ma si tratta di un mondo immerso nella sfera religiosa e la sacra rappresentazione procede allegra e festosa fin quasi alla fine, quando si trasforma in dramma…

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Rabano Mauro (780-856), De numeris 

Premessa: il testo che leggiamo non è l’originale, ma una delle tre rielaborazioni operate nell’alto medioevo che hanno purgato i versi da personaggi non presenti nella sacra scrittura. Autore: Giovanni Immonide (825-880 d.C.), uno dei principali artefici della politica culturale di Giovanni VIII (papa dall’872 all’882), per il quale scrisse anche una fortunata Vita di Gregorio Magno“Mi sono divertito con questo scherzo (ludus);/ tu, papa Giovanni,/ accettalo; ora puoi anche permetterti di ridere,/ se ne hai desiderio./ Mentre corrono tempi tristi, che tutto riducono/ A rovina,/ cogli dottrine a te care da questi versi”.

Riprendo in mano il caro Duchesne, I primi tempi dello Stato pontificio

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Anno Domini 876: il papa ha da poco incoronato imperatore il suo prediletto, Carlo il Calvo, e stabilizzato il potere nell’Urbe. Nonostante il pungolo costante delle flotte saracene alleate del duca di Napoli e lo stato di guerra endemica fra potentati nella penisola italica e in Europa (roba da far impallidire i contrasti di oggi), la Pasqua può essere festeggiata in un clima di relativa tranquillità: “Con quest’opera si diletti il papa/ durante i giorni di Pasqua…/… Carlo imperatore offra/ ai suoi commensali questa Cena…/…La chiesa, per ben due volte minacciata/ può rallegrarsi”.

I brani finora citati sono tratti da lettera dedicatoria, prologo ed epilogo aggiunti dall’Immonide. Ora è il caso di entrare nel vivo della festa. La cena è servita, “risus paschalis” e ritmo carnascialesco esorcizzano la morte, ma il vero cibo è la Scrittura, l’esempio quello del profeta Ezechiele (3,1): «Figlio dell'uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va' e parla alla casa d'Israele».

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Il profeta Ezechiele in una miniatura del XIII sec.

Nel dettaglio.
Antipasto: “Eva (prende) un frutto di fico,/ una mela Rachele, Anania delle prugne,/ dei bulbi Lia, olive Noè,/…/ una salsa all’aceto Gesù”.
Prima portata: “Saul porta il pane, Gesù lo spezza,/…/ offre lenticchie Giacobbe,/ solo Esaù le mangia”.
Scoppia una rissa. “Resta digiuno Giovanni,/ nulla riesce ad assaggiare Mosè,/ rimane senza cibo Gesù,/ nemmeno una bricciola raccoglie Lazzaro”.
Torna la pace e vengono serviti diversi tipi di carne, le parti distribuite naturalmente da un esperto di animali come Noè: “Adamo il fianco, la costola Eva,/ il seno Maria, Sara il ventre,/ Elisabetta la vulva,/…/ le natiche Lot, Giacobbe i piedi,/ raccoglie Ezechiele gli ossi”.
Poi è il momento del pesce, con i termini letteralmente pescati dalla Storia Naturale di Plinio il Vecchio: “Eva una murena, una pelamide Adamo,/ Giovanni una "locusta",/ un pesce spada Caino,/ Assalonne un capitone, un polpo Faraone,/ una torpedine Lia, Tamar un'orata".

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Catacombe di Priscilla (Roma, II-V sec.), Banchetto cristiano

Dolci: "Giovanni (porta) il miele,/ Abramo il latte; Sara fa la pasta,/ Gesù prepara i dolci, tutto serve Paolo".
Vini: "Vino passito beve Gesù, marsico Giona,/.../ Giovanni albano,/ Abele campano, vino di Signa Maria,/ Rachele fiorentino".
Effetti collaterali: "dorme ebbro Noè,/ di bere è sazio Lot, russa Oloferne,/ preda del sonno è Giona,/ veglia Pietro fino al canto del gallo/.../ Giacomo tenta di bere nella coppa di un altro./.../ chiede Pilato acqua per le mani".
Musica: "alla cetra dà un tocco Davide,/ prende in mano un timpano Maria,/ Jubal introduce il salterio,/ guida le danze Giuditta,/ canta Asaf, Erodiade danza/.../ Isacco se la ride, dà baci Giuda,/ manda saluti Jetro".
Festa in maschera: "Gesù vestito da maestro,/ Giovanni da carcerato,/ da reziario Pietro, Faraone da inseguitore,/ Nemrod da cacciatore, Giuda da traditore,/ Da ortolano Adamo, da attrice di esordi Eva".

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Il peccato originale, miniatura mozarabica dal Beato de El Escorial (X sec.)

Colpo di scena: è stato rubato qualcosa (e i furti nella Bibbia non mancano: "Beniamino (ha rubato) una coppa/ un anello con sigillo Tamar,/ Giuditta una coperta di seta,/.../ Abimelech la moglie di un altro"). C'è sgomento fra i presenti: "Geroboamo mente, prende paura Susanna,/ Rebecca arrossisce/ si lamenta Geremia".
Delitto e castigo: il re ordina un'inchiesta. E' l'inizio della parte truculenta, specchio dei tempi in cui autorità faceva sempre rima con atrocità. Il risus paschalis inizia la sua salita al Calvario. In questo genere di menù è prevista la tortura dei convitati: "Isaia è straziato, Giona spogliato,/ lapidato Geremia, accecato Tobia,/ Dina viene stuprata, ingannato Esaù,/.../ Eva interrogata, Caino risponde 'Non so',/ è trattenuto ma nega Pietro". E' previsto anche un colpevole - è così nel teatro e anche il re ne è certo. La Bibbia (Giosué, 7, 1-26) lo aveva già condannato con famiglia e greggi a una pena atroce, lapidazione: si tratta di Acan, figlio di Carmi. Sulla scena invece è previsto il linciaggio e tutta la sacra famiglia si accanisce sul capro espiatorio. La finzione prevede: "Daniele (che) lo scaraventa a terra,/ lo colpiscono/ Davide con un  sasso, con la verga Aronne,/ Gesù con una sferza di cordicelle,/ lo squarcia in due Giuda,/ Eleazar con la lancia lo trafigge".
"Lieto fine". Tutti si danno una mano a seppellire il corpo del reato: "Offre aromi Marta,/ richiude il cadavere Noè nel sepolcro,/ pose l'iscrizione Pilato,/ Giuda riceve il compenso". Il sacrificio è consumato. Ite, missa est, esodo dalla festa, tutti a casa fra le righe della Scrittura. A due versi dalla fine "sorride dell'evento Sara".
Eco ne farà il refrain de Il nome della rosa, dove la Coena Cypriani sarà anche presa a modello per un sogno di Adso. Così come era stata archetipo dei pranzi pantagruelici di Rabelais e di Sade, di film come “L’angelo sterminatore” di Buñuel, "La grande abbuffata" di Ferreri o “Invito a cena con delitto” della coppia Neil Simon/Robert Moore. Oggi la vedrei bene recitata dall'inossidabile Gigi Proietti.

File:KarlII monks.jpg
L'imperatore in trono (dalla Prima Bibbia di Carlo il Calvo, IX sec.)

Il pontificato di Giovanni non avrebbe più goduto di questa tranquillità. Soltanto un anno dopo sarebbe morto Carlo il Calvo. Due, e il papa sarebbe dovuto fuggire in Francia, a incoronare un altro imperatore – debole, balbuziente e già malato – che sarebbe morto l’anno successivo. Alla fine, nell’881, si dovette rassegnare a porre la corona in capo a un franco orientale (germanico), Carlo il Grosso, che non riuscì a fare meglio del precedente e con la cui deposizione, soltanto sei anni dopo, sarebbe finita in modo inglorioso la dinastia dei carolingi.
In un’Europa in preda a violente spinte disgregatrici, con l’amministrazione dei beni ecclesiastici ormai in balia del nascente feudalesimo e la stessa Roma, confinata nel Patrimonio di San Pietro, preda a cospirazioni di ogni genere, i disegni egemonici del papa erano destinati a un finale tragico. Nell’882 Giovanni VIII morì probabilmente assassinato dai suoi parenti, che lo fecero avvelenare e finire a colpi di martello.
L’altro Giovanni, l’Immonide, l’aveva già preceduto nella tomba col suo lieto fine.





ALESSANDRO MAGNO IN VALLE D’AOSTA

Il castello di Quart


Alessandro Magno e l'Albero Secco, Affresco XIII sec., Castello di Quart (foto da lavoixduvaldaoste.it)

Come uscito da un quadro di Mantegna ma concretamente piantato a guardia dell'antica "Via delle Gallie", a quattro miglia romane da Aosta, il castello di Quart domina anche l'autostrada assorto nel suo trono di montagna. Fondato intorno al 1185 dai Signori di Quart (già Signori della Porta di Sant'Orso nel capoluogo), passato di mano più volte, vissuto fino alla metà del secolo scorso, ha più la storia e l'aspetto di un corpo vivo, ricco di tutte le sue età e stratificazioni, assopito come una specie di Endimione di pietra.


Il castello in una foto tratta da www.regione.vda.it

Ispirato dagli articoli apparsi sul Bollettino della Soprintendenza, in un giorno di apertura straordinaria dei lavori di restauro ho la fortuna ammirare dal vivo gli affreschi del donjon ( XIII-XIV sec.)...
Stanno emergendo dalla coltre di scialbo che li ha coperti per più di mezzo millennio a calibratissimi colpi di laser - ti sembrano quasi quei piccoli schiaffi che si danno ai dormiglioni - e quanto comincia a stamparsi nei nostri occhi è una specie di puzzle delle meraviglie dove si incrociano frammenti e destini di Alessandro Magno e Sansone, eredità grecoromana e giudaicocristiana rivestite cogli abiti dell'età di mezzo per Giacomo III di Quart.
Il condottiero macedone, di leggenda in leggenda ormai diventato anche modello di vita cavalleresco, è giunto ai confini del mondo, in un'India favolosa dove ci si nutre di opobalsamo e incenso. Sta ascoltando l'oracolo degli Alberi del Sole e della Luna, carichi di teste umane secondo la tradizione orientale dell' Albero Secco: "Alessandro, invincibile in guerra, tu potrai, come hai chiesto, essere il solo signore del mondo: ma non rientrerai più vivo in patria". Poi a riflettere non è più il re, ma l'uomo: "Sentendo queste parole io rimasi sbigottito, colpito nel profondo dell'anima: fui dispiaciuto d'aver portato con me tanti uomini fin laggiù, a quegli alberi sacri".
Si tratta di brani tratti dall'incantevole ma fittizia "Lettera di Alessandro ad Aristotele", testo di grande diffusione dalla tarda antichità fino a tutto il medioevo (fra i prediletti dalla scuola filosofica di Chartres). Il sovrano descrive al maestro lo stupore e il prezzo della sua gloria terrena: la morte ancora giovane (alla fatidica età di 33 anni). E' ora di tornare indietro. E' una lezione di umiltà.
Ecco allora spuntare sulla parete accanto i resti di una rappresentazione che non sembra avere nulla a che fare con il viaggio verso l'ignoto: quella, tutta quotidiana, del Calendario. Felice contrasto, raffigurazione di grande successo all'epoca, ma quale il legame?
Il nodo di Gordio può essere reciso se facciamo riferimento a un altro bestseller di quei tempi, il poema "Roman de Alexandre" di Alexandre de Paris (XII sec.), il padre del verso principe della letteratura francese: il dodecasillabo "alessandrino". Infatti alla strofa 95 troviamo descritto l'interno della fantastica tenda del Macedone: "I dodici mesi dell'anno vi sono tutti illustrati/ Così come ognuno mostra quel che sa fare/ ... E sopra tutto è dipinto l'anno nella sua maestà". Proprio come nel più antico dei due mosaici del coro della cattedrale di Aosta (seconda metà del XII sec.), in forma di signore elegante e multicolore che regge nella destra il sole e nella sinistra la luna contornato dai medaglioni dei mesi (senza contare che anche nel mosaico più recente, inizi XIII secolo, la raffigurazione di animali fantastici insieme al Tigri e all'Eufrate potrebbe essere anch'essa retaggio di quelle fantastiche avventure).


Il Mosaico dell'Anno nel coro della cattedrale di Aosta (da www.medioevo.org)

Tutto sembra proprio tornare. Come il ciclo invincibile del tempo, a cui anche i grandi devono sottostare. Ritorno all'ordine, ruota che gira implacabile, ma anche vita che torna a sbocciare ogni primavera, naturalmente simbolo di rinascita spirituale.
Ecco perché quindi anche Sansone, anch'esso già presente in Valle in un altro splendido mosaico del XII secolo, quello  della chiesa aostana di Sant'Orso (guarda caso), mentre spalanca le fauci al leone cerchiato dall'enigmatica scritta palindroma "Sator arepo tenet opera rotas". Ma cosa c'entra col resto questa lotta uomo/animale, quest'altra impresa del giudice veterotestamentario rivisto e affrescato per un nobile cattolico? C'entrano la nascita dell'eroe (per volontà divina da una madre sterile) e la fine apparente della povera fiera, che, al contrario del suo simile greco di Nemea, una volta morta, narra il testo biblico dalla sua carcassa prendesse vita uno sciame di api con tanto di miele. Quelle api, simbolo di castità e di vita che procede dalla morte fin dalle "Georgiche" di Virgilio e dai "Fasti" di Ovidio ("una sola anima uccisa ne generò mille"). Si tratta della famosa (e famigerata) "generazione spontanea", teorizzata proprio da Aristotele, contro cui la scienza moderna dovette combattere più di due secoli prima che gli esperimenti di Pasteur ne avessero la meglio. Ma restando negli orizzonti dell'arte medievale i conti - e soprattutto le simbologie - tornano (anche se dovesse comparire, come sembra, una Dalila che fa recidere le sette trecce all'eroe addormentato): la gloria dovrà tenere conto dell'umiltà per aspirare alla vera rigenerazione, quella spirituale.


Il Mosaico di Sansone cerchiato dalla scritta Sator Arepo Tenet Opera Rotas (foto di Laurom)

La mente spicca l’ultimo volo passando dalle Alpi al Caucaso, facendo riaffiorare alla memoria i versi che il poeta azero di lingua persiana Nezami (1141-1209) fa dire ad Alessandro morente: "Da questa terrena fortezza m'ha per sempre liberato il cielo,/ e possano tutti infine esserne come me liberati".

Siamo usciti. Lungo le mura cerco di scorgere a oriente la necropoli neolitica di Vollein, poi fisso il Monte Emilius che ci sovrasta a fronte e plano fino a comprendere il lato occidentale con le gigantesche Acciaierie Cogne.
Il nostro viaggio si conclude nel candore estremo di una cappella barocca fresca di restauro, ormai tutta oggetto da museo. Fuori, nel parco, tra un acero e un faggio centenari immagino i contadini che hanno abitato per l’ultima volta il castello, rivedo gli interruttori di ceramica nel primo corpo di fabbrica.
A loro sono dedicati i miei versi di congedo.



A tutti i contadini che hanno abitato castelli

Cos'è un castello quando ci vivi e il tuo presente non è fatto di memoria ma lavoro e la sera sei stanco e accendi la luce, non le torce dei servi ma l'interruttore dell'uomo libero, quella specie di uovo bianco di porcellana poi plastica per cui tanti hanno dato la vita?

E tu, piccolo uovo di Piero in un castello del Mantegna, illuminavi le mura ridipinte, gli infissi di porte e finestre nuovi a confronto di bifore trifore per gente in armatura.

Tu brandisci solo un forcone, della pietra non hai il male ma il sonno, spenta quella preziosa lampadina, non sogni il passato ma un futuro migliore.

Io passo oltre le prime mura e mi stanno sotto i piedi.
Per cunicoli ben restaurati sono nelle tue stanze, che si attraversa distratti dall'antico.
Anch'io vado a vedere il donjon perché c'è dipinto Alessandro Magno che parla con l'Albero del Sole.



P.S. La visione di questo vero e proprio wargame del medioevo, nel 2008, con la sua arte popolare continuamente arricchita di nuovi dettagli e reinterpretata da letture a diversi livelli, avrebbe ispirato anche il mio successivo approccio alla nuova estetica del videogame e quindi le mostre che avrebbero portato NEOLUDICA alla Biennale di Venezia: il futuro ha radici antiche.


LA SCUOLA DEL MISTERO

L'opera inquietante di Virgilio Marone Grammatico
fra politica, religione e congiure (VII-X sec.)

Mestum extrico pulmone tonstrum,
Sed gaudifluam pectoreis arto procellam arthereis
Cavo fuori dai polmoni un mesto turbamento,
Trattengo nella trachea l’allegria che scorre tempestosa
Hisperica Famina

Mare quoque undosum biluosumque in turbinosa
cordis profunditate hominis et in ipsa ratione
E anche il mare ondoso e abitato nella tempestosa
profondità del cuore umano e nella stessa ragione
Virgilio Marone Grammatico

Commento musicale Carmina carolingiana


Cosa ci fa un grammatico che compone opere per quasi duecento pagine e sembra rivolgersi alle folle di Roma antica nella Tolosa del VII secolo, nel momento di massima depressione demografica (e non solo) dell’Europa Occidentale? E soprattutto chi è? Il nome sembra fittizio, il regno merovingio dopo Dagoberto è sempre più in crisi e le sue opere hanno poco a che fare con il classicismo latino del vicino regno visigoto. Nella loro oscurità, più che i "classici" Donato e Prisciano, ricordano lo stile degli Hisperica Famina di certi scrittori che venivano dall’Irlanda o dall’Inghilterra.
Per analizzare questo mistero, che mi appassiona dall’esame universitario di latino medievale del remoto ’86, partirò da un’abbreviazione che attribuisce a un non meglio identificato retore Emilio, roba da far impallidire le sigle degli enti sovietici o del nostro parastato di una volta: “Disse con eleganza SSSSSSSSSS.PP.NNNNNNN.GGGG.RR.MM.TTT.D.CC.AAAAAAA.IIIII.VVVVVVV.O.AE.EEEEEEE. E questa è la soluzione: sapiens sapientiae sanguinem sugens sanguissuga venarum recte vocandum est (“il sapiente che sugge il sangue della sapienza deve giustamente essere chiamato sanguisuga delle vene”)”.
Un inizio a scoppio, tanto per invogliare a un argomento complesso quanto mai intricato. E più che di abbreviazione si dovrebbe parlare di “scomposizione delle parole”, “scinderatio fonorum”, che è qualcosa di più problematico, di iniziatico: “Le parole si dividono per tre motivi: il primo è per mettere alla prova i nostri alunni nel ricercare e trovare le cose difficili; il secondo è per dare eleganza e struttura al discorso; il terzo è perché tutte le cose iniziatiche devono essere rivelate soltanto ai saggi… Scrittori enigmatici e di ingegno sottile”. C’è quindi anche una “scinderatio” attribuita niente meno che a Cicerone. Che naturalmente non ha nulla di ciceroniano…


I misteri laici della parola hanno inizio. I testi sono due, 15 Epitomi e 8 Epistole, ma l’argomento è uno solo: la grammatica. Un testo scolastico quindi, sulla scia delle grammatiche tardoantiche di successo, quella di Donato (IV sec.) su tutte, ma anche di opere enciclopediche finalizzate allo studio come le Nozze di Mercurio e Filologia di Marziano Capella (V sec.) o le più recenti Etimologie di Isidoro di Siviglia (inizio VII sec.): tentativi colossali di salvaguardare il patrimonio della letteratura latina in un’età storica di profondi cambiamenti. Perché il medioevo, nonostante un’immagine vecchia a morire, è stato un’epoca di continue trasformazioni e l’alto medioevo, specie prima dell’impero carolingio, ha poco a che vedere con l’immagine tradizionale di massa legata al medio e tardo medioevo italiano della Lega Lombarda, delle città marinare o di Dante.


Ma si diceva: un’opera di grammatica per le (pochissime) scuole dell’epoca. Peccato che buona parte dei contenuti sembrino inventati di (in)sana pianta e gli autori citati con numerosi esempi dei perfetti sconosciuti. Si va da un vecchio Donato di Troia vissuto mille anni che avrebbe fondato una scuola nella Roma di Romolo a tre Virgili (di cui il nostro sarebbe l’ultimo) di cui il primo, Virgilio d’Asia (alunno del Donato millenario), avrebbe scritto 70 volumi sulla metrica, a tutta un’altra serie di insegnanti sparsi fra Europa, Africa e Asia fino all’India, fino al nonno (“Martule, uomo dotto e di bell’aspetto”) e allo zio dell’autore (“Samminio, gioia di mamma sua”). E al suo maestro per eccellenza dal nome troiano, Enea, assolutamente irreperibile in qualsiasi fonte storica.
Tutto questo insistere sulla matrice troiana del suo lavoro è, a mio modo di vedere, da un lato un congiungersi alle origini leggendarie del popolo romano, come cantate dal più famoso – e reale – Virgilio, e della sua lingua, il latino. Dall’altro potrebbe essere una conferma dell’elaborazione dell’opera in Francia. È proprio in questo periodo che prende forma scritta la leggenda dell’origine troiana del popolo franco, attestata nella Cronaca di Fredegario e poi nella Historia Daretis Frigi de origine Francorum.


Dopo questa breve parentesi geopolitica torniamo all’irrealtà del corpo docente del Grammatico. Ecco allora sfilare Balpsido, Galbungo, Gergeso, Blasto, Vulcano, Sagillo: solo per fare qualche nome e una specie di scioglilingua. Frotte di maestri e discepoli per dibattiti e convegni le cui cifre, rapportate a oggi, comporrebbero una folla da palazzetto dello sport. E questo in una realtà scolastica disastrata come quella della Francia del VII secolo! Sembra più nostalgia dei bei tempi andati quando, come scrive lo storico Manlio Simonetti, “la Gallia del IV/V secolo fu famosa per le sue scuole, ma… il fatto che Giuliano Pomerio (2a metà V sec.) da maestro di scuola sia diventato prete è emblematico del nuovo stato di cose”. Ma neanche la nuova cultura ecclesiastica se la passava bene: “In Gallia la condizione di favore di cui la chiesa si trovò a godere provocò una completa simbiosi con la classe politica: di qui politicizzazione, mondanizzazione, coinvolgimento nella dominante barbarie, per cui, imbarbarita, neppure essa fu in grado di operare culturalmente in modo efficace.” (M. Simonetti in Romani e barbari: le letterature latine alle origini dell’Europa (secoli V-VIII), Carocci, 2018).

La fondamentale edizione italiana curata da Giovanni Polara, edita nel 1979

E poi ci sono quelle  stranezze ancora più strane. Cito solo due casi.
La teoria delle dodici specie di latino di cui una sola in uso (Epitome I,4). L’esempio che propone, ricco di tutta una serie di impliciti riferimenti, è quello del fuoco, che dalla forma basilare “ignis”, in una specie di progressione celeste, diventa “quoquihabin”, “ardon”, “calax”, “spiridon”, “rusin”, “fragon”, “fumaton”, “ustrax”, “vitius” (ma nel senso che col suo “vigor” ridà vita “vivificat” le membra quasi morte), “siluleus”, “aeneon” (“dal dio Enea che dimora in esso e dal quale viene il soffio degli elementi”). Ancora Enea, il suo adorato maestro (davvero adorato), e l’ascendenza troiana.
Lo scontro armato fra due grammatici con tanto di schiere di 3,000 di guerrieri per parte in una questione di verbi incoativi (Epistola III,10). Fra le righe della lettera emerge il sogno di una massa critica di letterati: il sogno proibito del nostro Virgilio e del suo minuscolo club esoterico.
Leggendo queste pagine, a volte ho sentito spirare quell’aria di grande menzogna che avvolge la Storia Augusta, di cui ho scritto nel mio Il Dittico di Aosta. Ma qui non si tratta di una storia manipolata in senso politico dove tutta una serie di falsità viene attribuita a personaggi esistiti realmente, opera di gruppi di potere che hanno ancora qualche probabilità di vittoria. No, qui tutti i protagonisti di questa epica grammaticale sono – o sembrano – tutti inventati. Come il latino proteiforme con cui parlano e scrivono Virgilio e i quattro gatti senza speranza a cui si rivolge. Se Franchi, forse gli ultimi maestri della tradizione laica.


A una prima occhiata il tutto sembra l’opera di un folle (e qualche illustre studioso l’ha preso come tale). La seconda cosa che viene in mente è una grande parodia. Passaggi come “quanto più si vuol difendere la propria autorità, tanto più si scopre che essa è una falsa menzogna” (Epitome V,9) o quest’altro, degno di Ionesco, “i dotti usarono le parole più rare non perché volessero creare problemi agli ascoltatori, ma per aiutarli, in modo che, vedendo queste parole scritte nelle loro opere noi le possiamo usare come comuni e note” (Epitome V,15), fanno riflettere. Non è un caso infatti che Giovanni Polara - cui si deve il mostruoso lavoro di edizione dei testi originali e la prima (e unica) traduzione in italiano, insieme a Luciano Caruso, delle due opere nella mitica edizione Liguori del ’79 – nella sua Introduzione citi Alfred Jarry e scriva: “Questo autore bizzarro certe volte sembra vissuto almeno mille anni troppo presto, questo strano personaggio su cui sono stati pronunciati i più disparati  giudizi”. Poi, però, ci  sono i recenti studi di Caterina Babino - parliamo della prima metà di questo decennio - che mettono in discussione buona parte delle precedenti interpretazioni e propongono un autore che si rivolge a una ristretta cerchia – verrebbe voglia di dire una setta – di colleghi con un linguaggio iniziatico volto a rivendicare un’aura di autonomia di pensiero alle scienze umane rispetto al sempre più preponderante dominio della teologia. Dietro la grammatica vediamo quindi emergere la filosofia che, specie dal Cratilo di Platone in poi, aveva fatto dello studio del discorso, della connessione fra le parole e della corrispondenza tra significante e significato (vedi anche le Etimologie di Isidoro) l’arma principe nel suo incontro-scontro con la dimensione del mito, del sacro.


Sarà un caso che il nostro Grammatico inizi la sua prima Epitome profondendosi proprio nella definizione della parola “sapientia”? “Essa deriva dal sapore, perché, come succede nel senso fisico del gusto, così anche nell’attività dell’anima c’è un gusto che è capace di sentire la dolcezza delle arti e di distinguere la forza delle parole e delle frasi, respingendo tutto ciò che è amaro e cercando il dolce. E amare per noi sono le affermazioni che contraddicono la verità delle dottrine filosofiche, dolci invece quelle che ci danno la conoscenza di ciascuna arte e materia. Questo sapere è duplice, celeste e terreno, cioè umile e sublime”. E’ uno dei passaggi più belli. E coraggiosi, perché la tradizione della teologia, specie quella latina (dal “Credo quia absurdum” di Tertulliano ai meno estremi ma sempre severi e tormentati Gerolamo e Agostino), pur attingendo a piene mani dalla multiforme tradizione filosofica pagana, aveva privilegiato la strada dell’amarezza, del rifiuto di quanto non indispensabile alla scrittura e alla Scrittura, cioè, il contenuto: grammatica per imparare a leggere e scrivere e basta. Non era ancora nato un Giovanni Scoto Eriugena,capace di offrire una sintesi, né un imperatore come Carlo il Calvo in grado didifenderla. Virgilio Marone Grammatico, se mai è il “Vergilius tolosanus” di cui parla Abbone di Fleury, viveva nella più umile Tolosa del duca Boggio, i cui non certi nonno e padre erano stati assassinati su istigazione di Dagoberto.


Tutto è “forse” qui. Tranne le certezze di AngeloMai, il cardinale filologo in corrispondenza con Leopardi, che col santo abate di Fleury trovò subito un’intesa quanto alle origini del Nostro: il problema dei problemi . E’ vero che, nell’Epitome IX,2,  Virgilio fa dire a un altro dei suoi retori ignoti, Terrenzio (con due erre), “È necessario che i Galli siano ingannatori” e sembra un nuovo Epimenide di Creta (che ho già trattato per altri versi nel mio Classicismo con rabbia), tuttavia la qualità dell’opera, come abbiamo già sottolineato, ha poco a che fare con la crisi letteraria della Francia dell’epoca. A meno che non sia stato uno di quegli immigrati letterari che, sulla scia di san Colombano (la cui arma, non dimentichiamolo, erano la parola e i libri “più dolci del miele”), erano venuti dall’Irlanda a far rivivere, almeno in ambito colto, il latino proprio perché per loro era una lingua ex novo e quindi immune da quelle contaminazioni, che oggi ci piacciono molto, dal parlato (tipo la “c” e la “g” gutturali, come in origine, e non le nostre dolci “ci” e “gi”). Quelli che insomma avrebbero portato, come ha ben sottolineato il grande Peter Brown nel suo splendido La formazione dell’Europa cristiana, “una lingua misteriosa, del tutto aliena” a un “nuovo latino stabile, puro e prevedibile, perché era un latino morto” dove “a ogni simbolo grafico corrispondeva una unità fonetica”, per cui “in un mondo in cui ‘directum’ era pronunciato come ‘dreit’ e ‘monasterium’ come ‘moustier’, una regola di pronuncia di questo tipo rendeva praticamente incomprensibile il latino pronunciato in maniera corretta”.


Ancora qualcosa di difficile comprensione: ma cosa non lo era in un periodo così poco conosciuto e in tumultuoso cambiamento? L’imperatore era ancora quello dell’impero bizantino, con cui il sud della Francia manteneva rapporti commerciali e culturali (Virgilio afferma di saper leggere il greco e il celare la propria identità dietro il nome di un autore antico era una moda che veniva dall’oriente). La Chiesa di Roma, mentre Colombano scendeva sul continente, spediva in Inghilterra nuovi emissari come Agostino e Lorenzo. Il cristianesimo irlandese privilegiava una data per la Pasqua non in sintonia con quella sostenuta dal papa e il regno longobardo, ancora in maggioranza ariano e rivale per eccellenza di quello franco, accoglieva Colombano e gli concedeva di costruire il monastero di Bobbio. Tutta una sere di problemi geopolitici e religiosi da cui Virgilio Marone Grammatico sembra volersi parare nella prefazione alle sue Epistole, indirizzate a un ecclesiastico, Giulio. Nelle Epitomi non aveva mai esplicitato riferimenti alla religione cristiana e anche se qui non manca di farlo è sempre a modo suo, tirando fuori da chissà quale sacco un profeta persiano di nome Tarquinio(!), che avrebbe visto scendere dal cielo un fiume di vino che si sarebbe mescolato a un ruscello d’acqua sorto dalla terra. Risultato: un unico torrente di-vino che avrebbe unito cielo e terra: “E tu, fratello diacono Giulio, ubriaco del bellissimo vino della divina scrittura e della dottrina celeste, bevi anche da questo piccolo ruscello del sapere filosofico… Condivido la tua stessa fede”.


Le apparenze – e la sostanza – sono salve e questa sorta di George Perec del VII secolo può tornare anche nelle Epistole a veicolare una nostalgia di fondo verso l’antichità pagana esibendo i suoi “auctores” mai esistiti ma fondamentali. O forse questa apparente divulgazione in una società tornata a un livello quasi tribale è opera di uno dei tanti esponenti di quelle tribù irlandesi - perché tale rimase in fondo la struttura politica dell’Irlanda fino ai massacri di Cromwell, ma nel XVII secolo – che avrebbero dato vita a una vera e propria rinascita culturale e cristiana dell’Europa prima di Carlo Magno e del suo “ministro della cultura” Alcuino (non a caso di York), che tirò le fila di tutta questa trama complessa inaugurando una nuova era.


La fortuna dell’opera del Grammatico, infatti, è quasi tutta di stampo irlandese o inglese. A partire dalle citazioni dai suoi scritti. Il primo è sant’Aldelmo di Malmesbury (639-709), ex alunno della scuola irlandese dell’abazia di Iona (isola delle Ebridi), un altro che amava il latino difficile e conosceva bene anche gli Hisperica Famina (molto probabilmente composti proprio a Iona dopo la metà del VII secolo). E poi, cosa che mi ha stupito sempre, anche il più sobrio e misurato Beda il Venerabile (santo e dottore della Chiesa cattolica). Fino ad arrivare ad Attone vescovo di Vercelli (X sec.). E mai nessuno che alzi la benché minima condanna! Segno che era preso sul serio. Un maestro, un caposcuola vero anche se parlava di maestri immaginari. Certamente per questo è piaciuto a Umberto Eco e sarebbe stato un ottimo soggetto per Borges.
Virgilio aveva dunque fatto bene il suo – surreale – lavoro. E i codici, specie delle Epitomi, vennero copiati con un certo successo soprattutto nel IX secolo: bel contrasto anche questo con la ricerca di chiarezza della scuola carolina! Ma, come ha ben sottolineato Mirella Ferrari nella sua Nota sui codici di Virgilio Marone Grammatico, i quattro manoscritti fondamentali dei suoi testi “hanno origine tutti nell’arco cronologico di soli cinquant’anni circa (prima metà del sec. IX) in regioni invece piuttosto disparate: Luxeuil, Ile de France, Corbie, Salisburgo. Il comune denominatore che li lega è la provenienza da scuole dell’impero carolingio nelle quali la componente culturale irlandese era attiva o addirittura prevalente”.


Eccola qui che torna l’ipotesi irlandese. Piace anche a me: un san Brandano della grammatica, con la sua navigazione a vista attraverso le secche dell’ortodossia religiosa.

E se le secche fossero state anche quelle della nuova ortodossia grammaticale carolingia? È quanto sostiene Roberto Gamberini nell’articolo Divertirsi con la grammatica pubblicato su Filologia mediolatina  nel 2014. Un altro raffinatissimo colpo di scena: sarebbero stati proprio i dotti successori di Alcuino a intervenire, a infierire con mano pesante e volontà diffamatoria su Epitomi ed Epistole trasformando letteralmente l’insieme in una parodia satura di aggiunte comiche. La prova? I manoscritti che riportano per intero le opere del Grammatico sono tutti del IX secolo, mentre le citazioni sparse in testi di epoca precedente – quelle  per intenderci a cui si sarebbero ispirati Beda o Aldelmo – non sembrano recare traccia di quella specie di commedia dell’assurdo che tanto ci piace oggi quanto sarebbe dovuta risultare inconcepibile, irricevibile anche nella fucina ancora ardente del primo Alto Medioevo. In questo caso ci troveremmo però di fronte a una specie di cospirazione purista o al pesante intervento strutturale di uno o più dotti non solo non sanzionato ma addirittura – tacitamente o meno – pienamente avallato… Ma non sarebbe stata più semplice una congiura del silenzio invece di questa laboriosa riedizione? Una censura implicita invece di quattro feroci risate? Occorreva davvero spendere così tanta fatica, per quanto sinistramente geniale, per infangare la memoria di un grammatico disperso in un’epoca già ai tempi considerata remota, quando ormai l’onda lunga della scuola irlandese aveva perso la sua spinta propulsiva? Facevano ancora così paura gli scritti del misterioso insegnante che si celava dietro il nome del poeta latino per eccellenza, Virgilio Marone?

Rabano Mauro portato sottobraccio dal maestro Alcuino: due possibili colpevoli...

E se, unendo le tesi di Gamberino e della Babino, finissimo per conseguire la somma di due persecuzioni, religiosa e sintattica, da parte dei filologi carolingi, tutti ecclesiastici, tutti custodi sia del Verbo che dei “verba”, della parola di Dio e delle parole degli uomini? Una censura doppia, sinistra e laboriosa, di cui non ho trovato altri esempi.

Di certo c’è che dopo l’età carolingia la navigazione di questa specie di Enea del mare magnum della parola sembra arenarsi. Ancora un secolo e poco più, alle soglie dell’Anno Mille è il solo Abbone di Fleury l’ultimo a citarlo (forse). Poi, dopo lo Scisma con Costantinopoli e la Riforma Gregoriana, la selezione degli scritti da parte della Chiesa di Roma si fa più oculata: Epitomi ed  Epistole non vengono più copiate. Cala il sipario, oltre il quale si tornerà a sbirciare solo nell’Ottocento.



La grammatica nasce per disinfettare le parole vive, quasi sempre sanguinanti. Il filologo e il filosofo se le scambiano e cercano di guardarle come lastre ai raggi X. In caso di malattia, l’analizzano pensando, sperando di esserne immuni. Mi piace pensare che Virgilio Marone Grammatico o chi per lui avesse intravisto questa emorragia interna del corpo intellettuale, questa ferita aperta fra pensiero laico e religioso e avesse cercato di cicatrizzarla usando parole e regole come esorcismi raziocinanti. Ne sortirono zombie dell’antichità e Frankenstein per la didattica. Contraddittoria volontà di potenza della parola.


Anche sul suo nome oggi eravamo solo in 5. Nella pagina, ottima, virtuale di Wikipedia.
Però ben oltre la media giornaliera di 2.
L’ultima stranezza.


MISTERI LAICI DELLA PAROLA
Frammento teatrale
(senza data)


Virgilio Marone Grammatico
(Rivolto a quanto resta dei suoi discepoli in mezzo alle rovine dell’anfiteatro di Purpan-Ancely a Tolosa)
Il nostro latino è come un esercito invincibile velato di mistero. Siamo rimasti in pochi, pochissimi, ma la lingua dei romani è ancora quella del potere. Ecco allora che le nostre labbra non ripetono solo regole: intonano canti di guerra. Le nostre mani forgiano, impugnano armi degne di un eroe sempre invincibile, antico. Loro, i barbari, temono solo la scrittura: non dire quella parola e non sarai salvato. Vedete quindi che i nostri libri sono scudi. Lo stilo che incide, che scrive è spada, lancia, freccia. L’inchiostro, l’inchiostro è il vino che ci inebria. Perché ha la stessa natura liquida, inafferrabile del sangue. È il nostro e dovrà essere quello dei nemici, che in questo inchiostro si legheranno al nostro sangue col legame inscindibile che ne consegue. Parliamo e ci armiamo. Ci confronteremo ebbri di queste parole, certi che la vittoria non si ottiene sul campo ma in quelle clausole dei trattati che sono figlie nelle nostre regole grammaticali, perché la sintassi è l’ordine che regna sui fogli bianchi o ripuliti dove le loro schiere disordinate devono restare ai margini. Le nostra città ha mura di diaspro cristallino e vie intricate come le nostre riflessioni: righe ben scritte e contenuti celati, dove chi non sa può, anzi, deve perdersi.



NON SOLO MACHIAVELLI E GUICCIARDINI

Le Memorie di Philippe de Commynes



"Una grandissima efficacia di rappresentazione.
Personaggi e paesi sono colti sul vivo o con pochi tratti essenziali e
caratteristici che li rendono indimenticabili. Par di vedere sul volto,
solitamente grave del nostro autore, un finissimo sorriso che è già
un po' quello dello humour. Come Erasmo, Commynes conosce gli
uomini e compatisce le loro follie con discrezione e indulgenza"
Maria Clotilde Daviso di Charvensod

Claus SluterPozzo dei profeti: re Davide (Certosa di Champmol, Digione, fine XIV sec.)


Ricordi, dubbi, rimpianti
Commento musicale Antoine BrumelSicut lilium

La Storia si fa coi “se” e i “ma” se sono i protagonisti a farla. E Philippe de Commynes lo fu ai più alti livelli, ministro e consigliere privato di sovrani in due grandi corti della seconda metà del XV secolo, prima in Borgogna e poi in Francia, dove si decidevano i destini dell’Europa nell“autunno del medioevo” (secondo la felice definizione di Huizinga). I suoi ricordi, i suoi dubbi, i rimpianti nei suoi Mémoires: seCarlo il Temerario non si fosse ostinato contro gli Svizzeri, se Luigi XI non si fosse accanito controMaria di Borgogna, se Carlo VIII non avesse sperperato una fortuna per la sua calata in Italia…
Tutti quei soldi, tutti quei morti.

Arazzi di Alessandro Magno (Fiandre borgognone, seconda metà del XV sec., foto di Sailko)
"Credo di aver visto e conosciuto la parte migliore d'Europa e non ho visto nessuna signoria e nessun paese, anche di assai più grande estensione, che avesse tale abbondanza di ricchezze, di mobili, di edifici e anche di ogni sorta di prodigalità, di spese di feste e di vivande (come la Borgogna)... La buona fortuna e la grazia di Dio durarono per lei lo spazio di 120 anni." (Commynes, Memoires V, 10).
"Tutta questa raffinata nostalgia/ trasudava di vernice fresca./ Dopo i tornei, i balli e i canti/ sarebbe venuta la macelleria./ Poi la noia,/ la muffa/ e ancora la nostalgia." (Luca TrainiVillon).

E forse non li avrebbe scritti se non invitato da Angelo Catone, arcivescovo di Vienne, cui dedicò l'opera. Il vescovo era un umanista, lui no, il passato lo aveva rispolverato dopo essere caduto per la prima volta in disgrazia, nel 1489, ma era il presente che aveva contribuito a costruire che avrebbe raccontato nel suo francese non troppo curato ma vivo, come bozza per una possibile messa in scena di altri, magari in latino, ma cosciente che dietro quella finzione ci sarebbero state le sue quinte, dove la storia che pulsa è fatta anche di giri di parole, di ripetizioni, di smemoratezze volute o impreviste. Non c’è traccia di idealizzazione nel racconto di questo uomo, di questo ministro e diplomatico razionale che ci ricorda il Guicciardini, pragmatico e costruttivo, che volle raccontare soprattutto quanto aveva vissuto in prima persona: il lento lavoro che prelude alle decisioni ponderate come ai compromessi e le improvvise accelerazioni imposte dagli eventi (dalle soluzioni geniali o da apparente follia).

Anonimo, Busto di Philippe de Commynes (primo quarto del XVI sec., Parigi, Louvre)
"Delle astuzie e dei raggiri che si fecero nei nostri paesi da vent'anni a questa parte non ne sentirete parlare da nessun altro con tanta verità quanto da me." (Mémoires III, 5)
"Il sapere corregge un uomo, anziché renderlo peggiore; non fossa'altro per la vergogna di conoscere il proprio peccato, se non sarà trattenuto dal mal fare, almeno ne farà di meno. E se non è buono, farà tuttavia finta di non voler far male o torto a nessuno. Ne ho visti parecchi esempi fra i grandi che sono stati dissuasi da molti cattivi propositi dal sapere e anche sovente dal timore della punizione di Dio, di cui avevano maggior conoscenza che non gli ignoranti, i quali non han visto né letto nulla." (Mémoires V, 18).


Sconvolgimenti epocali

Sotto gli occhi vigili, prudenti e spesso spaventati di un memorialista che non si fa pudore di ammettere la paura come uno dei fattori determinanti dell’azione politica, nella fattispecie militare, viene passata in rassegna, senza ombra di retorica, un’età feroce e spregiudicata caratterizzata da mutamenti imprevisti, sconvolgimenti epocali. Nelle sue pagine non troviamo ancora descritti quegli elementi strutturali economici, politici e sociali, cardine del mutamento storico, fatti propri dalla nostra storiografia nell’ultimo secolo. Duchi e re sembrano ancora decidere i destini dei propri popoli e le memorie di un ministro avrebbero dovuto educarli alla giusta misura delle proprie azioni.

A sinistra: Anonimo, Filippo il Buono e suo figlio Carlo il Temerario (Recueil d'Arras, metà XVI sec.).
A destra: Ritratto di Luigi XI (disegno del XVI sec. da un ritratto di Jean Fouquet, Bibliothèque Nationale de France).
"Il giorno in cui giunsero due servitori del conestabile di Lussemburgo (Luigi di Sainville e il segretario Richer) il re (Luigi XI) fece nascondere il signore di Contay, servitore del duca di Borgogna (Carlo il Temerario), con me dietro un grande e vecchio paravento che era nella sua camera... Il re si sedette su uno sgabello proprio accosto al paravento affinché noi potessimo udire  quel che diceva Luigi di Sainville... E mentre Luigi di Sainville parlava (dell'alleanza di Carlo il Temerario  con Edoardo IV d'Inghilterra), pensando di piacere al re, cominciò a contraffare il duca di Borgogna, a pestare un piede per terra, a bestemmiare per san Giorgio, a chiamare come lui il re d'Inghilterra Blayborgne, figlio di un arciere che portava questo nome, e a farsi beffe di lui in tutti i modi possibili. Il re rideva forte, e gli diceva che parlasse ad alta voce perché cominciava a diventare un po' sordo, e che ripetesse tutto di nuovo. L'altro non si faceva pregare e ricominciava di gran buona voglia. Il signore di Contay,con me dietro il paravento, era l'uomo più sbalordito del mondo." (Mémoires IV, 8).
"Lo scrittore è secco, acuto, con uno stile aderente ai fatti: le qualità di descrittore si fondono con quelle del moralista e dello psicologo, che penetra nelle coscienze per registrare i vizi ed il valore. Il ritratto di Luigi XI non è indegno di un Saint-Simon." (Giovanni Macchia).


Ecco, in questo Commynes è in un certo senso anche umanista, quando rispolvera il suo Tito Livio di base, così diverso da quello del Machiavelli, e il punto di vista vincente di un imperatore elogiato per la sua tradizionale “misura” come Ottaviano Augusto. E visto che si parla di Machiavelli c’è da chiedersi come mai la teorizzazione del memorialista francese sia così scarsa a confronto di quanto espresso dallo scrittore de Il principe. La risposta, in sintesi, è semplice: le teorie rivoluzionarie, di norma, nascono dalle sconfitte mentre la prassi del regno francese era stata vincente, per meriti come per fortunate circostanze. Squadra che vince non si cambia e Commynes aveva assistito, dopo il disfacimento della potenza inglese sconvolta dalla Guerra delle Due Rose (1455), al tracollo improvviso e imprevisto del Ducato di Borgogna (1477), che sembrava destinato a sostituire come superpotenza continentale sia la Francia, reduce dagli incubi della prima metà del ‘400, che il Sacro Romano Impero germanico (in crisi da secoli). Il suo Dio, che ogni tanto compare fra le righe senza miracoli ma armato di legge implacabile (e imprevedibile), sembrava proprio parlare francese. Il rischio paventato, quella superbia che aveva travolto Inghilterra e Borgogna.

A sinistra: Arazzi di Alessandro Magno (particolare). A destra: Anonimo, Battaglia di Morat (1476).
“Negli Arazzi di Alessandro Magno, seguendo l’interpretazione di Aby Warburg, possiamo vedere ritratti nei panni immaginari di soldati macedoni Carlo il Temerario e il suo esercito. Aggiungo il fatto che la lotta contro gli ‘uomini selvaggi rappresenta quella contro i francesi, così rappresentati alla luce del Ballo degli ardenti narrato da Jean Froissart. Nel 1393, infatti, quattro danzatori vestiti da ‘sauvages’ che si esibivano davanti al re Carlo VI (che già mostrava segni di squilibrio mentale) erano finiti bruciati vivi a causa dell’incendio provocato da una torcia portata dal fratello del re, Luigi I d’Orléans.” (Luca Traini, Alessandro Magno e la sua leggenda, Varesecorsi 1996).
"Gli Svizzeri si erano radunati, ma non in gran numero, come sentii raccontare da molti di loro. Dalle loro parti non si trae tutta la gente che si crede e allora se ne traeva ancora meno di adesso: dopo, infatti, i più hanno lasciato l'aratro per farsi soldati." (Mémoires V, 1).



Gabbie di ferro e cannoni

Un “peccato” compiuto da Carlo VIII nella sua impresa italiana, che vide Commynes, consigliere poco ascoltato, decisamente contrario al tentativo di riconquista francese del Regno di Napoli. Lo storico conosceva bene la nostra penisola, era stato in missione a Firenze nel 1478, dove aveva avuto occasione di conoscere e stimare Lorenzo de’ Medici: sapeva quale razza di pericoloso intrico si nascondesse dietro il fragile equilibrio sorto dalla Pace di Lodi. D’altro canto qualche “peccato” l’aveva compiuto pure lui, tramando contro il giovane Carlo VIII  e finendo rinchiuso otto mesi, nel 1487, in una gabbia di ferro nel titanico castello di Loches (vi finirà prigioniero i suoi giorni anche Ludovico il Moro nel 1508, non in gabbia ma nel torrione), con tanto di confisca di un quarto dei beni. Riabilitato, viene spedito come ambasciatore a Venezia nel biennio 1494/95 per assicurasi la neutralità della Serenissima: "Io tardai qualche giorno a partire perché il re ebbe il vaiolo e fu per morire; gli venne la febbre, ma non durò che sei o sette giorni... Lasciai il re ad Asti e credevo fermamente che non sarebbe andato più oltre. In sei giorni giunsi a Venezia con muli e carri, poiché la strada era la più bella del mondo." (Mémoires VII, 7). Da questo punto di vista privilegiato analizzerà il formidabile - e inaspettato - successo della discesa in Italia delle truppe francesi: "Dappertutto in Italia non avrebbero avuto altro desiderio che ribellarsi, se le cose del re fossero state condotte bene, con ordine e senza ruberie." (Mémoires VII, 8). E Venezia resterà nel suo cuore per la bellezza e il sistema di governo, una repubblica aristocratica che, insieme al parlamento inglese, darà le ali al suo sogno, mai realizzato, di una monarchia affiancata da un forte potere assembleare della nobiltà. La borghesia e, tanto meno, il popolo minuto non rientravano nei disegni di questo signorotto di provincia assurto ai più alti onori, non è possibile chiedergli tanto. In compenso la sua descrizione di Venezia ispirerà molto l’immaginario francese fino a Proust e ad Assassin’s Creed II.

Il donjon del Castello di Loches  (foto di Clayton Parker).
Vittore CarpaccioArrivo degli ambasciatori inglesi alla corte del re di Bretagna (Venezia, 1495).
"Questo re nostro padrone (Luigi XI) aveva fatto fare prigioni assai rigorose, vale a dire gabbie di ferro o di legno rivestite dentro e fuori di placche di ferro ferrate in modo terribile, larghe otto piedi e alte soltanto un piede di più che la statura di un uomo. Il primo che le immaginò fu il vescovo di Verdun, che fu subito chiuso nella prima che fu fatta e vi dormì per quattordici anni. Dopo di lui molti lo maledissero ed anch'io, che la assaggiai per otto mesi sotto il re che c'è adesso (Carlo VIII)" (Mémoires  VI, 11),
"La mia meraviglia fu grande nel vedere la posizione di quella città (Venezia) e nel vedere tanti campanili e monasteri e casamenti tutti sull'acqua e la gente senz'altro modo di andare qua e là che in quelle barche, di cui credo se ne potrebbero mettere insieme almeno trentamila, ma che sono assai piccole... E' la città più splendida che io abbia mai visto e quella che fa più onore agli ambasciatori e agli stranieri e che si governa più saviamente e dove il servizio di Dio è fatto più solennemente" (Mémoires VII, 18).


Gli occhi prosaici del cronista, affinati dal pragmatismo veneziano ("Sia per mezzo dei servi degli ambasciatori sia in altri modi... non badavo a spese per essere avvertito." Mémoires VII, 19), svelano i retroscena delle velleità cavalleresche del giovane Carlo VIII: l’incompetenza dei ministri di corte, le astuzie di Ludovico il Moro (uno dei principali responsabili dell’operazione) e soprattutto le spese folli per la spedizione con il conseguente enorme indebitamento: "Il re era giovane assai,debole di persona, voglioso di fare a suo talento, attorniato da poca gente savia e senza buoni capitani. Denaro sonante, niente, giacché ancor prima di partire furono presi a prestito centomila franchi dalla banca Sauli di Genova, all'interesse del quattordici per cento, da pagarsi a ogni fiera; e come dirò poi, furono fatti prestiti da molte altre parti. Non c'erano tende né padiglioni, e così si entrò d'inverno in Lombardia; ma c'era questo di buono che la compagnia era gagliarda, piena di giovani gentiluomini, benché, a dir vero, poco disciplinati." (Mémoires VII, 1). I proclami irreali (conquista di Napoli più successiva crociata contro i Turchi) e i facili eroismi non trovano spazio nelle pagine dei Mémoires, piuttosto si sottolinea l’importanza dell’esercito professionale costruito da Carlo VII e da Luigi XI dopo i disastri della Guerra dei Cento Anni: “Mi pare che un principe accorto, il quale possa disporre di diecimila uomini e abbia mezzo di mantenerli, è assai più da temere e da stimare di quanto non lo siano dieci alleati stretti insieme, che abbiano ciascuno seimila uomini; perché fra loro sono tante le cose da stabilire e da sbrigare che la metà del tempo si perde prima che qualcosa sia concertato e concluso” (Mémoires I, 16). Il supporto fondamentale di un forte contingente di truppe svizzere (già la Francia di Luigi XI aveva favorito con larghe elargizioni lo sviluppo militare della Confederazione in funzione antiborgognona). E la novità fondamentale di un uso massiccio dell’artiglieria, più agile, maneggevole e soprattutto spaventosamente efficace (quelle armi da fuoco così drammaticamente sottovalutate dal Machiavelli umanista de L’arte della Guerra): “Nessuno si rendeva conto degli effetti della nostra artiglieria, che è davvero la più possente di tutte le artiglierie del mondo” (Mémoires VIII, 23). Oltre ai metodi spietati di combattimento, altra eredità dei massacri della Guerra dei Cento Anni e dei suoi strascichi. Ce ne offre un breve esempio il Guicciardini: "Accostandosi a Fivizzano, castello de' fiorentini... lo presono per forza e saccheggiarono, ammazzando tutti i soldati forestieri che vi erano dentro e molti degli abitatori: cosa nuova e di spavento grandissimo a Italia, già lungo tempo assuefatta a vedere guerre più presto belle di pompa e di apparati, e quasi simili a spettacoli, che pericolose e sanguinose." (Storia d'Italia I, XIV).


Melchiorre FerraioloCronaca figurata: entrata delle truppe francese in Napoli il 22 febbraio 1495.
"I signori e i capitani vivono in Italia sempre in maneggi con i nemici e in gran timore di trovarsi fra i più deboli.";
"Questa, di compiacere ai più forti, è la natura dei popoli d'Italia; ma erano, e sono, trattati così male che bisogna scusarli.";
"Poche volte, facendo questo viaggio, i nostri indossarono l'armatura, e per andare da Asti a Napoli il re mise quattro mesi e
diciannove giorni soltanto; un ambasciatore ci avrebbe messo poco meno. Per questo concludo col dire, dopo averlo sentito
da molti religiosi e uomini di santa vita e da molta altra gente di ogni sorta (ed è quindi voce di Dio perché è voce di popolo),
che Nostro Signore voleva punire quei principi in modo che tutti se ne accorgessero.";
"La gente infatti ci adorava come santi e stimava che in noi ci fosse ogni fede e bontà; ma quest'opinione durò poco."
(Mémoires VII, 11; VII, 9; VII, 14; VII, 8).
La spedizione di Carlo VIII segna il passaggio dall'Umanesimo italiano, così come si era venuto formando in un secolo da Petrarca
e Boccaccio in poi, al fenomeno europeo del Rinascimento. La fine di un'epoca è ben rappresentata dal finale dell'Arcadia,
il poema del napoletano Jacopo Sannazzaro, che allude alla conquista francese della sua città:Ultimamente un albero bellissimo di arancio, e da me molto coltivato, mi parea trovare tronco dalle radici, con le frondi, e i fiori, e i frutti sparsi per terra.”.


Come si sa, dopo il successo iniziale, Carlo VIII si ritrovò sì padrone di Napoli ma invischiato in una penisola in piena rivolta. L’uscita da questo cul de sac fu drammatica. Il rischio era quello di fare la fine del Temerario, intestarditosi in imprese pericolose e, soprattutto, non necessarie. A Venezia lo storico fu testimone oculare della nascita della Lega Santa, che scatenava Ducato di Milano e Repubblica Veneta insieme a mezza Europa (Aragona, Sacro Romano Impero e Inghilterra) contro le truppe francesi: "Presso un masso di porfido, dove si sogliono fare le pubblicazioni, fu pubblicata la lega. Io stavo a vedere di nascosto da una finestra con l'ambasciatore del Turco... quella notte stessa venne a parlarmi per mezzo di un Greco e stette quattro ore nella mia camera; aveva un gran desiderio che il suo signore fosse nostro amico" (Mémoires VII, 20). Sono i primordi della lunga alleanza tra Francia e Impero Ottomano in funzione antiasburgica. Commynes raggiunse il suo re a Siena: "Mi scrisse di andargli incontro a Siena, dove lo trovai... mi chiese ridendo se i Veneziani avrebbero mandato gente contro di lui: tutti coloro che lo circondavano erano infatti giovani che non credevano che ci fosse al mondo qualcun altro buono e capace di tener le armi in mano." (Mémoires VIII, 2).
Non si aveva idea di quanto sarebbero state drammatiche la successiva attraversata degli Appennini e la battaglia di Fornovo (6 luglio 1495) dove, grazie anche a divisioni, indecisioni e lentezze della coalizione nemica, i francesi riuscirono infine ad aprirsi una via per il ritorno in patria: "Il re smontò in una cascina poveramente costruita, ma dove c'era una grandissima quantità di grano in covoni, di cui tutto l'esercito profittò... Io so che dormii in una vigna, ben disteso sulla nuda terra... senza mantello; quella mattina il re si era fatto imprestare il mio, e i miei bagagli erano troppo lontani... A tutti pareva di averla scampata bella, e non eravamo più così pieni di superbia come un po' prima della battaglia." (Mémoires VIII, 12).


A destra: La battaglia di Fornovo (stampa d'inizio XVI sec.).
A sinistra: Gerolamo Savonarola ritratto in un incunabolo delle sue opere (1496). 
"Quando arrivai a Firenze per andare incontro al re andai a visitare un frate predicatore chiamato fra Gerolamo (Savonarola), uomo di santa vita, per la ragione che aveva sempre predicato in favore del re... e diceva che era stato mandato da Dio per castigare i tiranni d'Italia... Molti lo biasimavano perché diceva che le cose gli erano state rivelate da Dio; altri vi prestavano fede; per parte mia lo credo un bravo uomo. Gli domandai se il re avrebbe potuto passare senza rischiare la vita... Mi rispose che in cammino avrebbe avuto dei fastidi, ma che l'onore sarebbe rimasto suo... e che Dio, il quale lo aveva guidato nell'andata, lo avrebbe condotto ancora al ritorno." (Mémoires VIII, 3).
"Anche loro erano come noi scarsi di buoni capitani... I Veneziani non vollero rischiare tutto in una volta e sguarnire il campo; invece per loro sarebbe stato meglio metter tutto in gioco, visto che erano assai ad attaccare... Non è possibile al mondo caricare con più ardimento di quanto si caricò dai due lati. I loro stradiotti, che erano in coda, videro i muli e i bagagli che fuggivano in direzione dell'avanguardia e che i loro compagni vincevano. Andarono tutti in quella direzione, senza seguire i loro uomini d'arme, che si trovarono senza scorta; senza dubbio, se a noi si fossero mescolati un millecinquecento cavalli leggeri, con in pugno le loro scimitarre, che sono spade terribili, noi, in pochi che eravamo, saremmo stati sconfitti senza rimedio... Avevamo un gran seguito di valletti e servitori che si gettarono su quegli uomini d'arme italiani, che per la maggior parte furono uccisi da loro; quasi tutti avevano in mano accette per tagliare la legna e con queste rompevano le visiere delle celate e davano loro gran colpi sulla testa; perché erano molto difficili da ammazzare, tanto erano forti le armature... Il nostro esercito aveva un gran seguito di vagabondi e di vagabonde, che fecero fortuna con i morti... Il combattimento non durò più di un quarto d'ora... In Italia le battaglie di solito non vanno in questo modo, perché essi combattono squadra per squadra e la battaglia dura talora tutto il giorno senza che né l'uno né l'altro sia vincitore... Quando si giunse a Nizza della Paglia... la sete era tale che vidi una quantità di fanti bere ai fossati di quei piccoli borghi dove passavamo. Noi bevevamo a grandi e lunghi sorsi acqua sporca e non corrente... Di una cosa bisogna dar lode a quell'esercito, ed è che non sentii mai nessuno lagnarsi; eppure, fu il viaggio più faticoso che io abbia mai visto in vita mia, per quanto ne abbia visti con il duca di Borgogna di quelli molto duri." (Mémoirs VIII, 11-14).



La morte, la storia, l’arte
Commento musicale Antoine BusnoisJe ne puis vivre ainsi

Le memorie si concludono con la fine ingloriosa di Carlo VIII,  una piccola vendetta per l’autore. Il re muore per le conseguenze di una testata contro una porta in un passaggio diroccato detto “il pisciatoio”: "Uscì dalla camera della regina Anna di Bretagna, sua moglie, per andare con lei a vedere quelli che giocavano a pallacorda" - un gioco fatale per i re francesi - "nei fossati del castello (diAmboise); era la prima volta che ve la conduceva, ed entrarono insieme in una loggia abbattuta... ed era il più brutto posto che ci fosse, perché tutti vi pisciavano... Per quanto fosse basso di statura, entrandovi, picchiò la testa contro la porta; poi stette a lungo a guardare i giocatori, discorrendo con tutti... Dicendo questo, cadde riverso e perdette la parola... Chiunque voleva poteva entrare in quella loggia e lo trovava disteso su un misero pagliericcio, dove rimase finché ebbe reso l'anima... Io giunsi ad Amboise due giorni dopo e andai a dire la mia preghiera là dove c'era il corpo e ci rimasi cinque o sei ore; e, a dir il vero, non vidi mai tanto cordoglio e di tanta durata. Ma è anche vero che i suoi familiari, come i ciambellani o i dieci o dodici giovani gentiluomini della sua camera, erano trattati meglio e avevano stipendi e donativi più grandi di quanti mai ne abbia dati, e persin troppo. Il suo era il più umano e dolce parlare che mai ci sia stato, e credo che a nessuno abbia detto cosa che potesse dispiacere. Non poteva morire in più buon punto per restare famoso nelle storie ed essere rimpianto da quelli che lo servivano" (Mémoires VIII, 25 e 27).
Sic transit anche la carriera politica di Commynes. Il nuovo sovrano, Luigi XII, non si sarebbe mostrato riconoscente contro chi l’aveva sostenuto nella congiura del 1484 pagata in una gabbia di ferro: "Andai incontro al nuovo re, del quale ero stato intimo più di ogni altro e per il quale mi ero messo in tanti guai e avevo avuto tante perdite; eppure in quel momento se ne ricordò appena." (Mémoires VIII, 27).
Non restò che scrivere una grande opera storica, che testimonia tra l’altro la simpatia per l’Italia e l’amore per la sua arte, una passione che di lì a qualche decennio avrebbe portato Francesco I a ospitare Leonardo da Vinci nel maniero di Clos-Lucé e a incaricare architetti e pittori manieristi per la ristrutturazione del castello di Fontainebleau.

BergognoneGian Galeazzo Visconti offre alla Vergine il modello della Certosa, fine XV sec. (foto di Danielkwiat).
"Quella bella chiesa dei certosini, che è davvero la più bella che io abbia mai visto e tutta di bel marmo." (Mémoires VII, 9).


Addii e rinascite
Commento musicale Josquin DesprezAdieu mes amours

La splendida edizione Einaudi del 1960 (che io sappia, purtroppo mai ristampata) termina con il commosso saluto del grande Federico Chabod alla storica Maria Clotilde Daviso di Charvensod, morta dopo aver curato e tradotto i Memoires: "Con ugual serenità e coraggio affrontò la Resistenza. Uno degli ultimi ricordi che ho di Lei è un suo improvviso arrivo, con Giorgio Vaccarino, nellaValsavarenche già occupata dai partigiani, l'estate del '44. Spirito di verità, non mai lusinga di soddisfazioni e riconoscimenti esteriori, la condusse alla ricerca storica, poi costantemente perseguita per tutta la vita; e il suo Commynes è come un epilogo". Un lavoro fondamentale, che va ricordato. La sua forza può essere riassunta nella precisa - e commovente - distinzione che la Daviso opera fra il senso della storia per Philippe de Commynes e il nostro, ricordandoci con passione quanto la memoria sia preziosa, oggi: "Questo l'autore che, con la sua umanità, evoca, vivo e popolato di uomini vivi, un mondo per i più spento e lontano, in cui risuonano vuoti nomi senza volto. Noi non pensiamo più, come lui, che il leggere antiche storie valga a istruire i principi nell'arte di conoscere ed evitare inganni, né cerchiamo nelle vicende umane conferma della giustizia divina. Per noi la storia non deve essere un lugubre panorama di morte sul quale sconsolatamente meditare, ma conoscenza di vita che ci tempri all'azione".

Il donjon del castello di Commynes a Renescure com'è oggi, sede del Municipio
“Cuori di noia da tempo avviliti,
Grazie a Dio, sono ora sani e felici;
Andatevene, cambiate dimora,
Inverno, voi non resterete più”.


Luca Traini



LA DIFFERENZA DI ERASMO

Il Ciceroniano

Commento musicale Orlando di Lasso, Justorum animae



Ho ritrovato il Ciceroniano qualche anno fa sopra un cassonetto della differenziata per la carta.
Due differenti reazioni. Da un lato la gioia di farlo finalmente mio (all’università l’adozione in prestito era durata solo un mese). Dall’altro il dispiacere di vederlo abbandonato così, dentro una cassetta di cartone della frutta. Mica tanto per il packaging – cultura deriva da coltura e frutta con frutto dell’ingegno stanno bene – quanto perché in triste compagnia di vecchi bestseller buoni sì e no per un’indagine di costume. Certo, meglio così che nell’indifferenziata, ma guarda te che fine per uno dei testi cardine del libero pensiero che aveva scosso l’Europa del 1528 e ancora ha tanto da dire!


Facile scordare quanto il nostro continente sia sempre stato una polveriera e le parole sensate le prime a essere prese di mira. Gli anni del crepuscolo dell’Umanesimo sono una tragedia senza deus ex machina. La stessa Roma è appena sopravvissuta a stento a un saccheggio che ha fatto impallidire Visigoti e Vandali. E opera di quello che doveva essere il suo “defensor fidei”: il sacro romano imperatore! Le speranze di riforma del cattolicesimo infrante dal nulla di fatto sostanziale del V Concilio in Laterano.


A fronte di tutto ciò la massa degli intellettuali, specie quelli della penisola italica, non trova più la forza di reagire, non scava alla ricerca delle cause del caos apparente, ma cerca la fuga nell’ordine irreale della sintassi, nel culto della forma fine a se stessa e del suo idolo, Cicerone: “Costringono all’imitazione idolatrica del solo Marco Tullio.”. Un piccolo esempio di assolutismo letterario parassita dei nuovi sterminati orizzonti di quello politico, chiacchiere fumose a fronte del fumo dei cannoni.


Il dialogo di Erasmo è l’estremo tentativo di aprire una breccia nel nuovo hortus conclusus degli studiosi, di riampliare gli orizzonti d’azione facendo appello a un più vasto e approfondito panorama di studi o, quanto meno, di riallacciare il discorso della forma ai contenuti morali della migliore tradizione ciceroniana.
Certo, oggi siamo a conoscenza dei numerosi chiaroscuri della figura storica di Cicerone, non ci turbiamo più, come Petrarca, se scopriamo dalle lettere private che l’uomo era ben diverso dal principe del foro, dal console e dal mito letterario: lo contestualizziamo avendo chiari i suoi limiti. Ma all’epoca il punto di riferimento era quello. Così come, per Erasmo, il rinnovamento del cattolicesimo all’insegna del ritorno alle sue origini per fronteggiare la riforma protestante (meglio, le riforme) con gli strumenti del dialogo invece di quelli bellici. E nei ciceroniani vedeva una carta in meno da giocare in questa sfida epocale, perché i loro gusti sapevano troppo di neopaganesiamo:


“Nei quadri lo sguardo è più attratto da Giove scivolato attraverso l’impluvio in grembo a Danae che da Gabriele annunziante alla Santa Vergine la concezione divina;


piace di più Ganimede rapito dall’aquila che Cristo ascendente in cielo;


trattiene più dolcemente gli occhi la rappresentazione delle feste Baccanali o delle feste Terminali che la rappresentazione della resurrezione di Lazzaro o del battesimo di Cristo per opera di Giovanni.”. Quanti capolavori della nostra arte rinascimentale in queste parole, tanto sublime nella rielaborazione di temi classici quanto perdente da un punto di vista politico. Arte di potere, di un potere dinastico che tendeva a diventare assoluto anche se dal mecenatismo geniale. Non più arte in grado di guidarlo, se mai ne fosse stata capace, verso una nuova, condivisa “res publica christiana”.
Infatti era troppo tardi. L’operazione fallì. Si alzò un polverone di critiche, specie in Italia e, soprattutto a Roma, feroci. Il grande pensatore olandese finì per ritrovarsi inviso a entrambi gli schieramenti, irreggimentati, specie nelle seconde e terze linee più mediocri e omologate contro qualsiasi critica.


Addio a concetti come “libertas”, “dignitas” e “humanitas” che avevano forgiato il primo Umanesimo e il pensiero erasmiano, vittime sacrificali del “servo arbitrio” luterano e della chiusura a riccio del cattolicesimo. Alla vigilia del Concilio di Trento saranno messi al rogo tanto i libri di Lutero quanto quelli di Erasmo.
Resta la testimonianza, anche oggi quanto mai preziosa, di una mente libera capace di pensare in grande. Da attualizzare in forme nuove prima che il furgone dei rifiuti della storia ne ricicli i brandelli in manualetti da aforismi o, peggio, li abbandoni a marcire nella già enorme discarica indifferenziata della memoria.


“Facessant haec dissidiorum cognomina, ea potius inculcemus, quae et in studiis, et in religione, et in omni vita concilient alantque mutuam benevolentiam. Se ne vadano in fretta questi soprannomi di discordie, e inculchiamo piuttosto ciò che negli studi, nella religione e in ogni genere di vita concilia e alimenta la benevolenza reciproca.” (Trad. Angelo Gambaro, La Scuola Editrice, 1965).






LA FILOSOFIA DI BERKELEY

Dalle Bermuda alla Realtà Virtuale



Ho ripreso in mano la filosofia impalpabile di Berkeley, così remota dal mio pensiero, mentre riflettevo sulla Realtà Virtuale per Neoludica. Le realtà smaterializzate in cui stiamo fluttuando vedo spesso assumere le maschere, le interfacce del suo “essere è essere percepito” così come l’energia della realitas entitiva di Giordano Bruno o dell’existiturire di Leibniz. Dietro lo schermo del computer avverto con forza sempre aumentata tutta quella serie di “realtà che hanno sete di esistere” (Gadamer) e che, nell’essere percepite come reali, mettono in gioco – in video-gioco – tutta la loro potenza.
Lo schermo delle nostre rappresentazioni ci separa davvero – verrebbe voglia di dire “ci protegge” – da esse? Quanto è sempre più forte oggi il desiderio di feedback con le nostre immagini? Somigliamo sempre di più ai nostri avatar, che sembrano vivere una vita migliore di quella concreta e sono oggetto di tanto amore e cura continua. Perché di norma vogliamo essere percepiti meglio di quello che crediamo di essere e questa percezione di noi che tanto desideriamo si sta trasformando progressivamente o esponenzialmente nel nostro essere. La comunità degli internauti è sempre più berkeleyana.


Berkeley e il suo entourage (The Bermuda Group) in un dipinto di J. Smybert (dal 1728 al 1739)

Dopotutto lo stesso filosofo dalla sua Irlanda cercò di navigare alla volta delle Bermuda - suggerito dalla Tempesta shakespeariana? - per sperimentarvi la costruzione di un’università (parliamo del 1728) e, anche se non le raggiunse, restò nel Rhode Island a cercare di concretizzare i suoi ideali fino al 1731, trapiantando filosofia e forse architettura palladiana per i futuri Stati Uniti.
Questo tentativo di approdo all’essere che è tale in quanto percepito mi rammenta, inoltre, il nostro rapporto con la diversa dimensione del mondo quantistico, che sembra emergere ed essere compresa solo in presenza della percezione di un osservatore. Questa rappresentazione del mondo remoto e presente dei quanti condiziona ogni giorno di più, consciamente o meno, l’approccio con le nostre realtà empiriche, ogni volta conquistate a fatica (e non abbiamo ancora fatto davvero i conti con la relatività di Einstein), quanto se non più della Rivoluzione Copernicana di mezzo millennio fa.
Tutte queste considerazioni affiorano dalla lettura di Siris, ovvero, “Catena”, il libro a me più caro di Berkeley, così ingenuo in apparenza e in realtà sottilissimo, che avvinghia progressivamente il lettore passando da una prima parte estremamente colorita e pragmatica, direi quasi teatrale, a una seconda dove tutto sfuma dietro il sipario nell’invisibile.



Delle 160 pagine dell’edizione UTET più di un terzo sono dedicate a quella che il filosofo considerava una grande invenzione medica, l’”acqua di catrame”, panacea di più o meno tutti i mali e con cui curava, letteralmente a secchiate, famiglia, amici e bisognosi (Berkeley, oltre che uomo generoso, era anche vescovo anglicano). Questo favoloso intruglio - basato su un distillato di pino composto da una parte resinosa e una acida, mescolato e poi lasciato riposare in abbondante acqua - aveva avuto origine nel Nuovo Mondo a lui così caro, in Carolina del Sud (probabilmente escogitato dai nativi americani e poi fatto proprio dai coloni per combattere un’epidemia di vaiolo nel 1739), ebbe un discreto successo nel Secolo dei Lumi per essere poi discreditato nell’Ottocento. Cosi Charles Dickens ricordava per l’ultima volta trionfi e aromi di un beverone definito da qualcuno “dio potabile”: ”Si riponeva una fiducia proporzionale al suo sapore nauseabondo. Nel migliore dei casi, mi veniva somministrata una tale quantità di questo elisir – un rimedio di prima qualità – che ero ben consapevole di andarmene in giro puzzando come uno steccato nuovo” (cito dall’ottima introduzione della curatrice Silvia Parigi).


William Hogarth (1697-1764), Operazione in un ospedale

Vuotato il secchio, ha inizio una progressiva, martellante smaterializzazione dei componenti dell’”acqua di catrame” come di tutti gli elementi dei tre regni della fisica. Prima è l’“aria”, per come era intesa all’epoca (non una sostanza chimica, ma un mezzo dove le diverse sostanze terrestri emettevano e disperdevano le loro particelle): “Si può dire che l’aria è il seminario dei minerali e dei metalli, oltre che dei vegetali.”. “Seminario”, naturalmente, anche in termini ecclesiastici. “Aria” in cui sarebbe stato presente e diffuso “uno spirito latente e vivificante… necessario tanto ai vegetali quanto agli animali”. Di scienza come la intendiamo oggi c’è ben poco, ma quel “latente” è un aggettivo che mi perseguita quando ho a che fare con i mondi virtuali così come quando mi capita di affrontare l’uni/multiverso quantistico.


La casa di Berkeley fotografata nella seconda metà del XIX secolo da J. A. Williams

Il bello della lettura di Berkeley è che queste esalazioni metafisiche emanano spesso da un contesto descrittivo di schietto naturalismo settecentesco (pensiamo anche all’incantevole contesto del giardino nell’aria frizzante dell’alba dei Tre dialoghi tra Hylas e Philonous). Certo, c’è anche la traccia delle splendide ambientazioni paesaggistiche dei dialoghi platonici, ma la concretezza di certi dettagli è notevole e l’amore per le bellezze della natura assoluto, specie quando attinge dai suoi due viaggi in Italia (la nostra penisola gli era rimasta nel cuore). Berkeley non è solo importante filosofo ma anche fine e appassionato scrittore (come d’altronde un altro grande isolano amante del Bel Paese che tratterò, Charles Babbage, l’inventore del computer, le cui Memorie sono un modello di stile). Infinite citazioni di classici e contemporanei vanno di pari passo con le sue vicende personali in Irlanda o vicino alla Grotta del Cane a Napoli.



Certo, a volte nei confronti della sua filosofia mi verrebbe da fare come Samuel Johnson (il letterato inglese, non il filosofo americano), quando prese a calci una pietra davanti al suo biografo James Boswell, altro dei miei prediletti, affermando che non era necessario altro per confutare l’immaterialismo. Magari fosse così facile! Mi sento in realtà – ma quale? - come Bertrand Russell, che sente questa smaterializzazione come “istintivamente ripugnante”, ma non riesce a intravvedere il modo per confutarla.
D’altro canto proprio il verbo “confutare” ha radici che rimandano a “fonte”, “vaso per acqua” e “versare”. Versare argomenti contro i versamenti di acqua di catrame: quale la cura giusta? “Cura” altro bel termine complesso. E molto probabilmente è proprio la complessità del pensiero da salvare, specie oggi, di fronte a tutte le facili, opportunistiche semplificazioni. Quanto abbiamo davanti e/o siamo dentro è in continua, sfuggente – struggente - definizione.


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Mario Savio e gli altri leader del Free Speech Movement (da www.fsm-a.org)

Allora mi pare giusto concludere con una frase di chi, proprio nell’università americana dedicata a Berkeley, sottolineò con la sua lotta pacifica quella libertà di confronto che è sempre uno dei beni più preziosi per mettere in connessione i diversi sentire degli esseri umani : “Per me la libertà di parola è qualcosa che rappresenta la dignità stessa di ciò che è un essere umano... È la cosa che ci pone appena al di sotto degli angeli” (1964). L’ultima parola sarebbe piaciuta al vescovo filosofo. Io preferisco il cognome di chi l’ha detta: Mario Savio.




CONTEMPLARE LA DISTRAZIONE "Natura" e "cultura"
Una cornice per gli occhi



Non amo distrarmi, ma penso sia fondamentale contemplare la distrazione.
Viviamo nella lunghezza d’onda del visibile e a questa cerchiamo di ricondurre anche quanto le sfugge.
Con lo sviluppo accelerato della tecnologia – un discorso che data dalla fine del Neolitico, dall’origine delle città e della conseguente “civiltà” – abbiamo racchiuso la raccolta di informazioni a tutto tondo degli occhi in una cornice ad angolo retto (la nostra forma prediletta di in-formare). E’ una prospettiva che oggi consideriamo “naturale”, come aprire una porta o una finestra, che infatti hanno questa forma e bene si adeguano alla struttura delle nostre abitazioni, siano fatte di mattoni, pietre squadrate o pali in legno verticali e trabeati o incrociati ad angolo retto.


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Queste informazioni racchiuse di norma in un rettangolo le abbiamo chiamate di volta in volta “stele”, “tavoletta”, “affresco”, “quadro”, “libro”, “televisione”, “schermo” del cinema, del pc o del cellulare: la forma è sempre quella. Se da diecimila anni non riusciamo a farne a meno è perché, oltre a darci un forte senso di stabilità sulla terra con cui descrivere più comodamente quanto ci circonda - la circolarità sulla terra è instabile - e a contrastare con una disposizione internamente compiuta l’horror vacui, grazie alla sua cornice ci permette di delimitare lo spazio delle informazioni rispetto al contesto vitale in continuo mutamento in cui siamo immersi. Non è totalizzante come la vita fisica perché presenta un confine ben definito oltre il quale l’occhio può andare per interrompere la visione, per distrarsi. Dalla vita invece non ci si può distrarre se non in sonno o in sogno, cioè in realtà non vitali e dinamiche in senso stretto e di norma collegate alla morte o all’aldilà.

Definizioni culturali

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“Natura” è un termine culturale per indicare genericamente quanto va oltre la cultura umana, che oggi è ancora figlia della coltura agricola, con i suoi spazi ben definiti da coltivare. “Realtà” è l’insieme di “cose” (dal latino “res”) che ci circondano, umane e non, che cerchiamo continuamente di definire, cioè di delimitare nel nostro campo (ancora l’agricoltura) d’azione. Un’azione speculare al nostro desiderio “comodo” (con “modo”, adeguato alla nostra misura) di vedere il mondo (che è già una realtà “mondata”, cioè libera quanto possibile da elementi avversi ai nostri modi di vivere). Definiamo in base a delimitazioni da sempre, ma nella nostra società, che cerca letteralmente di seminare di strutture stabili la superficie terrestre, hanno preso la forma particolare dell’angolo retto, da cui, anche se presi a fondo dalle nostre opportune astrazioni, cerchiamo di sfuggire per una specie di richiamo ancestrale alla vita. Uno sbadiglio, la curiosità per qualcosa che si muove, per una pentola che bolle o per una voce che emerge dal brusio, l’arrivo di una persona cara o di un intruso, la curiosità per quanto dal “di fuori” entra nel nostro campo di azione ci riportano oltre la cornice storica dell’informazione. Perché questa ha un limite e permette alla quotidianità di essere presente e predominante anche se, sempre più spesso, ci sembra un altrove con troppi limiti rispetto alla potenza crescente del mondo virtuale.

Frammenti d’informazione e difese apotropaiche

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Per come siamo abituati dovremmo ritenerci fortunati. Siamo ancora immersi nella “realtà” e – perché no? – nella “natura”. Ci sentiamo ancora “materia” nonostante filosofia e scienza ci spingano sempre più verso l’"immateriale": l’universo nello spazio e nel tempo emersi da un ”entanglement”, “garbuglio” quantistico di minuscoli frammenti d’informazione (Le Scienze, marzo 2017). E questo senza prendere in considerazione il multiverso di cui dovrebbe essere una parte infinitesima.
Queste interpretazioni concettuali sono fondamentalmente difese apotropaiche nei confronti di quanto non riusciamo ancora a dominare per come ci sembra di essere ora, cose - e quindi realtà - che possono minacciare la nostra integrità fisica, che non abbiamo ancora visto da con i nostri occhi da vicino e toccato con mano, siano l’interno della terra o lo spazio profondo. Oltre a fenomeni naturali di eccezione - leggi “catastrofi” - che l’ottimismo industriale postbellico ci aveva portato a sottovalutare. I cambiamenti climatici, quasi certamente provocati da quest’ultimo, oltre ai rischi connessi alle nuove tecnologie (dal nucleare alle nanotecnologie, dagli interventi in campo genetico ai virus degli hacker) sono solo le ultime di una lista millenaria di paure per il nostro corpo, per come lo definiamo capace di adeguarsi alla realtà, specie nella nostra ottica ottimista e darwiniana.

La cura tecnologica

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La tecnologia – ovvero l’uso di strumenti e il discorso inerente ai loro risultati pratici finalizzati al nostro benessere in quanto esseri corporei destinati a restare tali nel migliore dei modi e il più a lungo possibile – dai chopper dell’Homo Abilis alle losanghe di Blombos, dalla pittografia alla rete internet, ci ha fornito tutta una serie di strumenti concreti e astratti (non esiste per noi concretezza senza una progettualità che la definisca) per tentare di curare queste paure e diminuirle, quanto meno a livello quantitativo. La controindicazione fondamentale a questi rimedi risiede nel loro elenco sterminato (è lo stesso timore che ci coglie quando leggiamo il bugiardino di certi medicinali). Diamo vita a panorami che ampliano continuamente i propri confini e al contempo desiderano essere racchiusi in una comoda visione d’insieme. Esiste una specie di incontro/scontro permanente tra le informazioni corporee, la parola e le rappresentazioni per immagini e scrittura. L’informazione tecnologica – cioè tutta quella non strettamente legata al nostro corpo fisico – ci distrae e ci porta altrove per riconsiderarci alla sua luce: è presente, dai primordi, come un altro “altro” da quando abbiamo iniziato a rappresentarci.

Naturalmente artificiali e artificialmente naturali


Ogni nuovo strumento, ogni nuovo medium espressivo ci avvince e ci distrae dai precedenti a cui torniamo prima per pura necessità e poi per comprenderli, prenderli in comunione col nuovo e acquisire una nuova coscienza del perché siamo qui e ora. Infine la biologia, sempre lei (che è anche scienza), ci distrae per farci tenere in conto, come sempre, i bisogni primari: quanto si è soliti dire “sana distrazione”. Ma, appena possibile, ecco che torniamo a rivolgere la nostra attenzione allo schermo magico in cui descrivere la nostra posizione in tutta una serie di universi,  piccoli o grandi che siano. Siamo ancora naturalmente artificiali e artificialmente naturali, ondeggiamo fra due poli che sono uno solo ma ci piace siano due. Per distrarci e tirare il fiato. Per inspirare e ispirarci, perché il nostro fisico ha necessità di questo ossigeno da tavola periodica.

Una via di fuga per ogni realtà

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Per questo credo non sia ancora arrivato il tempo per nuove forme iconografiche della comunicazione che vadano oltre un inquadramento con via di fuga. Discorso che ritengo tanto più valido per i recenti tentativi di realtà sintetiche totalmente immersive: dubito che possano avere un impatto di massa, quanto meno a breve. Se ne parlava già venti anni fa per i caschi della Realtà Virtuale e sono oggi sotto gli occhi di tutti le difficoltà di espansione di strumenti come l’Oculus Rift e simili. Il fastidio della vista per la privazione di alternative annulla o rende di breve durata il piacere del feedback. Se mai dovessimo abbandonare l’angolo retto – e quindi l’immersività parziale – ci troveremmo di fronte a una vera e propria rivoluzione antropologica, che potrebbe preludere a un distacco della nostra realtà sensoriale dalla superficie terrestre e quindi dalle strutture di composizione con la sua gravità a cui siamo abituati. Saremo in un certo senso pronti per lo spazio (viceversa, i viaggi spaziali in serie e a lunga durata produrranno come effetto questa rivoluzione, anche formale). Ma non saremo più "umani" nel senso stretto della parola, cioè legati all’”humus”, alla terra, non la sentiremo più nostra.
Non siamo la parola “fine” dell’evoluzione. Il corpo e gli strumenti della sopravvivenza e della memoria che ci sono cari sono molto probabilmente destinati a profonde mutazioni, ma, per ora, la nostra biologia desidera ancora entrambe le parti della sua parola: la vita e le forme del suo discorso separati ma in connessione.


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Due sane distrazioni

“Distrazione” mi ricorda dei e dee
“Dis et deabus” a cui si è tratti
Dalla quotidianità al cielo
Divisi in due:

Tu che vivi e ti distrai leggendo
Tu che leggi e ti distrai vivendo
Ti alzi con i piedi ben in terra
Torni a radici più forti volando alto

Dimentichi di fare e fai poesia
Ti distrai per un volto caro da un’idea

E il tuo amore descrive più forte la sua danza
Dentro e oltre i margini del foglio bianco.




P. S. Il testo nasce da una riflessione intorno al nuovo medium espressivo del videogame, che, nel Manifesto o Nuova Filosofia Aumentata di Neoludica (Skira, 2011), avevo definito come il primo medium nato cosciente della propria finzione. Sarà pubblicato in folio e quindi insieme ad altri miei saggi nel libro Un sogno ad angolo retto.


IL NUOVO ECOMUSEO DI ORINO (VA)

Quanto chiamiamo tradizione non ha nulla di statico, anzi, ci presenta un passato che diventa presente ma non esclude affatto diversi orizzonti verso il futuro. Presentare e comprendere in modo chiaro e accessibile tutte queste affascinanti eredità, all’apparenza così semplici e in realtà multiformi, è quanto si propone il nuovo ecomuseo di Orino (VA).

Felice di aver collaborato quindi alla realizzazione dei testi per i pannelli storici collocati nelle “cantine didattiche” (e per quelli delle relative pagine del nuovo sito Orino Smart Village), di partecipare a un progetto collettivo che ha coinvolto residenti e frequentatori del paese e vede come partner dell’iniziativa Comune di Orino, Università dell’Insubria di Varese e  Fondazione Cariplo.

Sabato 3 dicembre 2022 alle 15 l’apertura al pubblico delle cantine e alle 17, in Sala Orum, la proiezione del docufilm That’s Orino.


Orino visto dalla Rocca in una suggestiva foto tratta dalla pagina Facebook del Comune

Il paese, già noto per la sua bellissima Rocca di medievale di origine tardoantica (a 540 metri si altezza e da non confondere col Forte di Orino a 1134 metri, parte della Linea Cadorna, costruita nella prima guerra mondiale per evitare attacchi austro-tedeschi nel caso di un’invasione della Svizzera), fu anche citato in un piccolo prezioso poema, Descrizione elegiaca della Valcuvia, opera Giovanni Stefano Cotta (1435 ca.-1525), feudatario del luogo ma soprattutto importante umanista della corte degli Sforza (collaborò anche col Ferrario a un’importante edizione delle opere di Ausonio). Natura arcadica per i tanti villeggianti che l’affollarono  nella prima metà del Novecento (il compositore Umberto Giordano e l’industriale Giuseppe Costantino Dragan, giusto per fare qualche nome), ma in realtà frutto di tenace, durissimo lavoro di generazioni di contadini a cui, in primo luogo, è dedicato, come omaggio alla loro creatività, l’ecomuseo. Generazioni che hanno avuto almeno il privilegio, fino al 1943, di decidere in assemblea la scelta del proprio parroco (diritto custodito gelosamente specie durante il fascismo). Cittadini di un piccolo paese, ma capaci di confrontarsi in modo vigoroso anche nelle lotte politiche fra destra e sinistra sia durante il regno che nei nostri anni repubblicani.

Un microcosmo animato da una grande vitalità che oggi vuole proporre a tutti noi un passato di cui è orgoglioso presentandosi come un possibile esempio di equilibrio cosciente fra società umana e contesto naturale.



Nelle cantine e nei relativi pannelli gli strumenti e la storia di questa simbiosi, articolata come segue:

Cantina dul Burghet di Rat, dov’è illustrato il governo del bosco;

Cantina du la Gesa, in cui vengono presentati il lavoro della terra e l’artigianato del legno;

Cantina de la Mariana: protagonista la stalla, luogo di lavoro ma anche centro della socialità, tanto come spazio di libero dibattito al femminile quanto come luogo d’elezione per la trasmissione del sapere contadino attraverso il racconto del passato alle nuove generazioni (ne conservo qualche ricordo anch’io quando mi tenevano i miei nonni mezzadri nelle Marche);

Cantina dul Fael, dove protagonista è invece la lavorazione del vino (e anche qui ricordo com’era bello saltare a piedi nudi in quella massa gigantesca di grappoli d’uva).

Per quanto riguarda il Fael, è stato importante riportare alla memoria quest’uomo dalla forte vocazione libertaria tanto amato dai compaesani, emigrato cattolico come tanti (nel suo caso in Argentina dove, in qualità di trombettista, aveva suonato in una banda di Buenos Aires) e tornato come non pochi rivoluzionario (anarchico sui generis o comunista del PCdI poi PCI o del meno noto Partito Comunista Internazionalista, non è chiaro), che faceva risuonare Bandiera rossa durante le processioni religiose. Sulla scia del Fael sono riuscito a ritrovare tracce di un altro rivoluzionario del paese, Domenico Camillucci, questa volta certamente anarchico doc, costretto a combattere durante la Grande Guerra ma capace di trasformare nei primissimi anni postbellici la caserma sul Monte San Martino, destinata a diventare albergo, in un punto di ritrovo per i suoi compagni di movimento, e dal 1920 membro del consiglio d’amministrazione dell’Asilo-Scuola Razionalista di Clivio, fondato nel 1910 e all’avanguardia nel campo dell’educazione popolare grazie all’innovativa pedagogia del martire anarchico spagnolo Francisco Ferrer. Le ultime notizie che lo riguardano restano nel libro di un altro martire contemporaneo, Giacomo Matteotti, Un anno di dominazione fascista (1923): “Varese – I fascisti bastonano ed impongono il bando a Domenico Camillucci di Orino”. Non è da dimenticare poi che proprio sul Monte San Martino fu combattuta, nell’autunno del ’43, una delle prime, epiche battaglie della Resistenza italiana.

Anche per questo, nell’inestimabile epoca di pace che vive la nostra Repubblica, è ancora più bello far attualizzare la parte più considerevole del nostro passato, quella costruita con tanto sudore alla luce di una forte socialità per favorire una solidarietà ancora più grande. Da rivivere in una gioiosa e condivisa grande festa, come sempre dopo un lungo, appassionato lavoro.

Fotografie storiche tratte dagli archivi della famiglia Cellina e della famiglia Rocchi. Consulenti dell’Università dell’Insubria, di Orino, di Musea-TraRari TIPI, di Flai Graphic Design, di Linotipia Artigiana, che hanno lavorato al progetto: Andrea Candela, Paola Castiglioni, Alessio Ceriani, Flavia Ciglia, Maria Faccioli, Debora Ferrari, Pierluigi Pagani, Donata Perticucci, Laura Proto, Federico Raos, Luca Traini. Docufilm: Luca Simone Tossani, Consuelo Farese, Maurizio Cellina.

Luca Traini



SPALLANZANI AL PALAZZO DEI MUSEI DI REGGIO EMILIA
Biologia della Bellezza



Grazie all’ottimo lavoro e alle fantastiche ricercatrici dello Spallanzani di Roma torno con la memoria al grande biologo emiliano del XVIII secolo - guarda caso alunno dell’eccezionale fisica bolognese Laura Bassi, prima donna al mondo a ottenere una cattedra universitaria – e alla sua meravigliosa wunderkammer (da “incantato albergo” ariostesco) nel Palazzo dei Musei di Reggio Emilia, dove tre anni fa mi sono ispirato prima di intervenire agli Stati Generali della Fotografia.
Spallanzani che precede Pasteur e, sulla scia di Francesco Redi (altro sommo biologo e delizioso poeta sobrio-dionisiaco del Bacco in Toscana), confuta la “generazione spontanea”, originariamente presente nella Bibbia (Sansone che squarcia il leone nel libro dei Giudici), creduta dalla scienza dell’epoca, già cantata da altri poeti come Virgilio (la nascita virginale delle api dalla carcassa di un bue nelle Georgiche).
Preziosa testimonianza d’epoca di amore a tutto campo per la conoscenza anche per un animalista, la Collezione è in perfetta simbiosi con le altre: dai quei mosaici medievali all’ingresso alla, che amo in modo particolare, alle splendide raccolte etnografiche ai gioielli pittorici della Galleria Fontanesi (il Compianto di Palma il Giovane, la Scena bacchica di Luca Ferrari, Mercurio e la Pittura del Gandolfi e i quadri di Fontanesi, Pasini e Manicardi fra i miei preferiti), solo per fare qualche esempio.
Generazione spontanea, questa sì’, di bellezza di arte e scienza, che sono una cosa sola.




ALESSANDRO VOLTA, LUCREZIO E LA SCOPERTA DEL METANO




L’isolino Partegora è di fronte al municipio di Angera, ma passa quasi inosservato fra le meraviglie del Lago Maggiore. Tuttavia proprio qui la “navicella dell’ingegno” di Alessandro Volta, in gita di piacere sul Verbano, finì per approdare il 3 novembre 1776. “Non meno avventuroso che inatteso successo”, abbandonata la piacevole compagnia, scoprì, frugando in “un pacciume di radici, cannucce, erbette infradiciate… l’aria sprigionatane infiammabile” che, una volta a contatto con le scintille dell’acciarino, ardeva “con una fiamma turchina”. Era il prologo alla scoperta della natura organica del metano, quello dei nostri fornelli da cucina, quelle lingue blu che, a noi scrittori, permettono di avere qualche ora in più da dedicare alla lettura di Lucrezio, che il grande scienziato - e scrittore – cita all’inizio della sua Lettera Seconda. I versi sono proprio quelli che descrivono mirabilmente come la meraviglia possa diventare un fatto quotidiano:
“Nil adeo magnum neque tam mirabile quicquam,
quod non paulatim minuant mirarier omnes”.
Potrei dire, col linguaggio dei poeti dell’epoca, che me l’aveva indicata un cigno sacro ad Apollo, simbolo di bellezza per il dio della luce (e quindi anche dei fornelli). In realtà, quanto deve l'arte alla tecnologia (quando insegnavo mettevo sempre le Lettere di Volta nel programma di Italiano)!
Il futuro dovrà, dev’essere Green - è lampante – ma non dimentico i benefici – e il genio – del passato.


L'INVENTORE DEL COMPUTER INNAMORATO DELL'ITALIA

Nel 1840 il Re Carlo Alberto invitò gli scienziati italiani a convegno nella sua capitale.
A richiesta del suo più dotato analista, portai con me i progetti della Macchina Analitica.
Questi furono esaminati a fondo e la loro precisione conosciuta dai più eccellenti figli d'Italia.
Sono debitore verso il Re, vostro padre, per il primo riconoscimento pubblico e  ufficiale
di questa invenzione.Sono felice a questo punto di esprimere il mio profondo senso di cortesia
a suo figlio, il Sovrano dell'Italia unita, il Paese di Archimede e Galileo.


Charles Babbage, professore di matematica a Cambridge nella cattedra che era stata di Newton e sarebbe diventata di Hawking, in un dagherrotipo del 1847, fra i ritratti del suo amico, il re di Sardegna Carlo Alberto, e del figlio, Vittorio Emanuele II re d’Italia, cui dedicò le memorie. La sua Macchina Analitica fra queste e il romanzo che l’ha fatto diventare anche eroe del cyberpunk. Sopra, le Notazioni di Luigi Menabrea sull’invenzione, pubblicate due anni dopo averlo conosciuto al secondo di quei Congressi degli Scienziati Italiani così importanti per il nostro Risorgimento, quello di Torino (1840), organizzato dall’astronomo Giovanni Plana, inventore a sua volta di un altro antenato, più remoto, del nostro computer: il Calendario Meccanico Universale. Fra il suo ritratto di militare che, caso eccezionale per un grande scienziato (innovatore), sarebbe diventato presidente del consiglio (ma conservatore). E Ada Lovelace (madrina di Neoludica), altro genio della scienza inglese dell’Ottocento, di cui vediamo le annotazioni che la portarono a teorizzare l’antenato del software.
“Fu durante le riunioni al congresso di Torino che il mio assai stimato amico, il signor Menabrea, raccolse materiale per quella lucida e ammirabile descrizione che pubblicò nella Bibliotèque Universelle di Ginevra, nell’ottobre del 1842. […] La compianta contessa di Lovelace mi informò che aveva tradotto le memorie di Menabrea. […] Allora suggerii che aggiungesse qualche annotazione alle memorie di Menabrea, un’idea che immediatamente fece sua. Noi discutemmo insieme sulle varie illustrazioni che si potevano introdurre; io ne suggerii alcune, ma la scelta fu interamente della contessa. Così fu anche il lavoro algebrico sui differenti problemi […]. Tale lavoro ella mi inviò per una correzione, avendo scoperto un grave errore che avevo commesso nel procedimento. Le annotazioni della contessa di Lovelace permettono di allungare di circa 3 volte la lunghezza della memoria originale. L’autrice è entrata con competenza in quasi tutte le questioni più difficili e astratte  riferite alla Macchina Analitica.” (C. Babbage, Passaggi dalla vita di uno scienziato, introduzione di  Vittorio Marchis, a cura di Andrea Villa, UTET, 2007).


Quello che stupisce un italiano della vita di Babbage non è tanto l’amore verso il nostro Paese, caratteristico di tanti intellettuali inglesi – dal Medioevo con l’ammirazione di Chaucer per Boccaccio, al Rinascimento col petrarchismo di Philip Sidney fino ad arrivare alle visite in massa al nostro patrimonio artistico durante il Gran Tour - quanto la comprensione e il successo di pubblico informato per la sua tecnologia visionaria nella nostra penisola (che tuttavia non aveva i mezzi economici per metterla in pratica). In patria, nella patria della Prima Rivoluzione Industriale al gran galoppo verso la Seconda, Babbage ebbe un successo riconosciuto soprattutto in gioventù e come accademico: “Tenni l’incarico della cattedra di Newton per pochi anni, e ancora provo profonda gratitudine per l’onore che l’Università mi ha conferito – il solo onore che ho mai ricevuto nel mio Paese”. Il tanto decantato pragmatismo isolano e, giusto per fare un esempio, quello dei commissari della Grande Esposizione di Londra del 1862 relegò la sua Macchina Analitica “in un piccolo buco in un angolo scuro, dove poteva essere vista, con grande difficoltà, da sei persone alla volta” (cosa tristissima, ve lo dice un esperto in fatto di fiere). Il tutto in un clima di favoritismi e spese inutili (e forse questo ci ricorda qualcosa). Alla faccia della generosità e del grande desiderio di creare e condividere un linguaggio universale che aveva caratterizzato l’attività dell’uomo di scienza fin da quando era ragazzo e si appassionava allo studio delle Istituzioni analitiche della nostra Maria Gaetana Agnesi.


Si consolerà citando il poema di Byron, padre fugace di Ada Lovelace, La profezia di Dante: “L’uomo è ingiusto e il tempo è galantomo”. Babbage infatti fu uomo poliedrico e di grandi letture, non solo in campo scientifico. Amante dell’arte (il padre aveva una piccola collezione) e della musica, soprattutto per organo (erano gli anni della riscoperta di Bach da parte di Mendelssohn). La sua sensibilità, connotata da un cristianesimo decisamente progressista, lo portò a riconoscere in grande anticipo sui tempi anche l’intelligenza degli animali, anzi, la loro esistenza intellettuale: “L’uomo possiede sorgenti di conoscenza attraverso i sensi. Egli personalmente pensa a se stesso come la più alta opera dell’Architetto Altissimo; ma è possibile che sia la più bassa. Se altri animali possiedono sensi di una natura differente dalla nostra, sarebbe possibile che noi fossimo appena a conoscenza del fatto. Già quegli animali, avendo altre forme di informazione e di piacere potrebbero, sebbene sdegnati da noi, provar piacere di un’esistenza corporea e anche intellettuale, assai più elevata della nostra”.

Non potevo non inserire il mio adorato Elvis

Fu anche, da bravo inglese, un appassionato sportivo: “Ero assai appassionato di sport nautici, non della fatica manuale del canottaggio, ma della più intellettuale arte del veleggiare”. D’altronde la sfida canonica fra canottieri di Cambridge e Oxford sarebbe iniziata ben dopo i suoi studi universitari.
Ma, tornando all’Italia, sono memorabili le pagine dei suoi incontri con Carlo Alberto, che si dimostrava molto meno “re tentenna” in campo scientifico di quanto non lo fosse in politica. Nacque una sincera amicizia che riuscì a vincere la timidezza di entrambi, specie quella patologica del monarca (“sperimentai su me stesso la miseria di quella afflizione – la timidezza – e provai come assai più doloroso può inevitabilmente diventare quando ciò tocca in sorte a una persona posta nel rango più elevato”). Con quel re “notevolmente alto”, sempre vestito da militare e con “una tale espressione di contegno” discusse approfonditamente soprattutto sulle prime applicazioni dell’elettricità e sul telegrafo elettrico, suscitando uno dei rari momenti di entusiasmo mai provati dal sovrano. Con i suoi strumenti scientifici Babbage riuscì anche ad appassionare i giovani principi. Ancora più simpatico-simpatetico il secondo incontro, quando il matematico recò in dono alla regina un ritratto in seta di Jacquard (il cui telaio meccanico fu grande fonte di ispirazione per le prime macchine computazionali). L’apertura della scatola provocò volo e caduta di un “mucchio di fogli di carta argentata della più eterea apparenza”. Segue la scena dell’inglese e dell’italiano in ginocchio a raccogliere quegli “angeli caduti”: “Sentii un ostacolo che si presentò al mio piede sinistro. Guardandomi con attenzione percepii che il calcagno di sua maestà era entrato in contatto con il dito del piede dello scienziato. Un sorriso comico e gentile si irradiò sul volto del re, mentre un incontenibile ma non irriverente sorriso illuminava io mio volto.  Una volta che l’intera armata di farfalle fu infine catturata e l’incisione rimessa a posto, il re iniziò una conversazione con me intorno a vari soggetti. Il processo di produzione del vino divenne allora soggetto”. Sarà stato un caso? Fatto sta che una settimana dopo il buongustaio Charles era a Racconigi a seguire le procedure di vendemmia in “uno dei più bei domini reali”. In procinto di ripartire alla volta di Ginevra un amico ben inserito a corte gli rammentò l’eccezionalità dell’accoglienza del sovrano: “Il re ha fatto per te tre cose, che sono inusuali. Ha stretto la tua mano. Ti ha chiesto di stare seduto durante l’udienza. Ti ha permesso di fare un regalo alla regina. Quest’ultima è la più insolita di tutte”.


Ma nel cuore di Babbage non restò solo l’esperienza piemontese. Visitò con grande piacere e soddisfazione anche Bologna, Firenze e Roma (del resto amava molto viaggiare e visitò Parigi, Vienna e Berlino spingendosi fino a Mosca). Nel Regno delle Due Sicilie, poi, dopo essere stato suggestionato dall’analogia fra un vaso sanguigno e “la superficie che a quel tempo formava il fondo del grande cratere del Vesuvio”, trova a Pozzuoli il suo monumento d’arte d’elezione, che lo spinge a pubblicare uno studio sul bradisismo, Observations on the Temple of Serapis at Pozzuoli: “Durante un parte della mia permanenza a Napoli la mia attenzione fu concentrata su quella che nella mia opinione è la più notevole costruzione sulla faccia della terra, il Tempio di Serapide a Pozzuoli. […] Il risultato di questa perizia mi condusse negli anni seguenti a spiegare i vari innalzamenti e depressioni di parte della superficie della terra, in diversi periodi di tempo, con una teoria che ho chiamato la teoria delle superfici isotermiche terrestri”.


Di particolare interesse per noi di Neoludica (parlo di me e della co-curatrice Debora Ferrari), quando abbiamo portato la nostra mostra alla Biennale di Venezia, il paragrafo che segue questa teoria geologica, dedicato ai Giochi di abilità: “Presto arrivai alla dimostrazione che ogni gioco di abilità è suscettibile di essere giocato da un automa”. Ci sarebbe piaciuto avere al nostro fianco il grande scienziato che aveva profetizzato una macchina per giocare a Tris (computer costruito proprio nei laboratori dell’Università di Cambridge nel 1952) e certo gli avremmo dedicato molto più spazio che all’Expo del 1862.
Dopotutto era stato anche tra i primi ad usare il termine “avatar” in un racconto-visione presente nelle memorie e aveva in mente progetti che oggi definiremmo multimediali per teatro e danza.
Insomma, idea e invenzione di una grande Macchina in grado di connettere intelligenza umana e artificiale in vista di una più ampia e poliedrica visione della realtà non potevano che sorgere da un ingegno, da un genio eclettico tutt’altro che macchinoso, ma amante della tecnologia nel senso profondo della parola.



SimCity e le Leggi di Platone
“Un bravo architetto bisogna che giochi” (I, 643b)


Sono arrivato a SimCity una ventina d’anni fa, mentre riprendevo in mano le Leggi di Platone: il filosofo deve avere influito sul videogiocatore. Tanto restava cupo il libro (il mio horror preferito) quanto retroilluminato il videogame. Dietro entrambi c’era in un certo senso la stessa matrice: quelle idee-numeri che dalla Grecia antica si trasformano in programmazione informatica nelle quinte di città ideali o virtuali. Cosa c’era di più simile a un’idea platonica di quei floppy disk che inserivo forsennatamente in un computer già vecchio? Non aveva tentato la stessa cosa Platone con i suoi sfortunati tentativi di riforma politica? Quando superavo il fatidico numero di 5040 cittadini per la sua polis ideale sentivo i tre vecchi terribili del dialogo rimproverarmi: “E adesso come farai a dividere per  12 numeri consecutivi la somma dei tuoi abitanti? Sara il caos!”. Era proprio così: ma la mentalità di oggi non ha paura di confrontarsi col caos, non teme più quel pantheon rivisitato e corretto di 12 divinità - dice niente questo numero? – che avevano nella vita dell’uomo il gioco preferito. Dopotutto 5040 era divisibile solo per 11 dei primi 12 numeri quindi, sottinteso, la rovina ciclica di ogni costruzione umana era inevitabile. Era questo il silenzio della voce interiore a fronte di centinaia di pagine scritte e partite perse a causa di mostri, calamità naturali o, più realisticamente, di traffico e inquinamento.
Sic transit SimCity: un’esperienza pregnante per quando portai l’arte dei videogiochi alla Biennale di Venezia con Neoludica.




QUANDO LA STORIA FA "PONG"

Nixon, Mao e un leggendario videogioco




FABIO MANISCALCO

Un grande archeologo, un eroe dei nostri giorni

Fabio Maniscalco appone lo Scudo Blu dell'UNESCO a difesa di un bene culturale in area di guerra

Voglio ricordare un eroe dei nostri giorni, perché ce ne sono ancora - e tanti - anche se se ne parla poco.
Per Fabio Maniscalco, a sei anni dalla sua prematura scomparsa, questi versi di John Keats, morto come lui troppo presto:
Bellezza è verità
Verità è bellezza
Questo è quanto sappiamo e dobbiamo sapere.

E due articoli, un commosso ricordo dell'Associazione Nazionale Archeologi e uno splendido testo della moglie Mariarosaria Ruggiero, che possono ben illustrare coraggio, rigore e assoluta attualità di un uomo che ha fatto della propria vita una grande opera d'arte.


"Oggi 1 febbraio 2008, dopo una lunga lotta per la vita, si è prematuramente spento a soli 42 anni l’archeologo Fabio Maniscalco, uno dei massimi esperti mondiali in materia di salvaguardia dei beni culturali nelle aree di conflitti bellici. Docente presso la Facoltà di Studi Arabo-Islamici dell’Università “Orientale” di Napoli, con l’Osservatorio per la Protezione dei Beni Culturali in Area di Crisi dell’ISFORM, da lui fondato, aveva diretto attività e progetti finalizzati alla tutela dei beni culturali in Bosnia, Albania, Kosovo, Afghanistan, Nigeria, Palestina e molti altri paesi, impegnandosi in prima persona per censire e arginare i danni al patrimonio culturale nel corso dei conflitti bellici, tramite decine di iniziative, dossier, fotoreportage, appelli e pubblicazioni, al fine di sensibilizzare sull’argomento le istituzioni internazionale l’opinione pubblica mondiale. È proprio a causa dei suoi interventi in aree di guerra e alla conseguente esposizione all’uranio impoverito e ai metalli pesanti in Bosnia e in Kosovo, che il prof. Fabio Maniscalco aveva contratto una forma rara ed anomala di adenocarcinoma pancreatico. Gli erano stati asportati lo stomaco, parte del pancreas, il duodeno, il primo tratto dell’intestino e la colecisti. Da oltre un anno lottava coraggiosamente contro la malattia. Autore di fondamentali contributi scientifici sul tema della protezione del patrimonio culturale, ha fondato e diretto la prima rivista scientifica internazionale e multidisciplinare on line dedicata alla tutela e valorizzazione dei beni culturali: il “Web Journal on Cultural Patrimony” (www.webjournal.unior.it), cui hanno aderito oltre 50 Università e Centri di Ricerca in tutto il mondo, e creato la prima collana monografica dedicata al settore: “Mediterraneum. Tutela e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali”. Per la sua coraggiosa attività il Prof. Maniscalco era stato nominato “Professore per Chiara Fama“ di “Salvaguardia del Patrimonio Archeologico e Culturale” dall’Accademia delle Scienze di Albania. Lo scorso anno la sua candidatura al Premio Nobel per la Pace aveva ricevuto l’adesione di centinaia di esponenti del mondo accademico provenienti da tutto il mondo, aveva inoltre ricevuto da Legambiente il premio 'Amici dell’Ambiente' [...]".



Fabio Maniscalco riceve i complimenti per la sua opera "Sarajevo" dal Ministro della Difesa Andreatta

FORMARE, EDUCARE E COOPERARE: L'ATTIVITÀ DI FABIO MANISCALCO E L'OSSERVATORIO PER LA PROTEZIONE DEI BENI CULTURALI IN AREA DI CRISI

"[...] Fabio era certo che solo l’educazione a sentire come un patrimonio comune l’espressione culturale dell’altro, anche del nemico, è la chiave per proteggere il patrimonio culturale mondiale che soffre di saccheggi e distruzioni, di snaturamenti e deturpazioni causati non solo dalla guerra, ma anche dagli interventi ricostruttivi del dopoguerra, oltre che da terremoti e disastri naturali. L’operato dell’Osservatorio fu guidato dall’esigenza di una regolamentazione della materia di tutela dei diritti umani e della difesa della cultura, dalla necessità di una divulgazione, applicazione e, ove necessario, di una revisione della legislazione; Fabio fu in più occasioni critico anche sull’operato dell’ONU, che ha in più di una circostanza dimostrato di essere subordinata alle grandi potenze mondiali, e dell’UNESCO, che non sempre è stata in grado di gestire le situazioni di crisi in maniera del tutto autonoma e indipendente.
Nell’opera complessiva di Fabio, tutelare e conservare hanno significato, dunque, non solo studiare e informare, ma essenzialmente formare, educare e cooperare; queste sono state le finalità precipue dell’Osservatorio che, nel corso dei dieci anni di vita, condusse questa disciplina da un piano teorico a un piano pratico, concretizzando indagini e studi sulla situazione dei beni culturali in alcune delle aree belliche mondiali più critiche, al fine di contrastare i pericoli per il patrimonio di quelle regioni martoriate".




IL REGNO DEL CONGO, IL PRIMO VESCOVO DELL’AFRICA NERA



#IoRestoaCasa ma viaggio nella storia delle civiltà africane. Primo amore: il Regno del Congo (oggi soprattutto Angola del nord), conosciuto da piccolo nella meravigliosa enciclopedia I Popoli della Terra, da ragazzo su Africa di Hosea Jaffe, quindi nei libri del grande Basil Davidson e nel saggio letto e riletto di Randles. Fino alla recentissima biografia dello storico del Congo Brazzaville A. F. Nganga su Dom Henrique Ne Kinu a Mvemba (1495-1531), consacrato da vescovo della diocesi di Utica (odierna Tunisia) nel 1518 da papa Leone X Medici e caso unico fino a Joseph Kiwanuka, vescovo di Masaka (Uganda) nel 1939.


Henrique, figlio del grande re (“manikongo”) Dom Afonso I (Mani Sunda) e nipote di João I (Nzinga a Nkuwu), che aveva scelto di convertirsi (spontaneamente) al cristianesimo dopo l’incontro – è bene sottolinearlo: alla pari – con navigatori e stato portoghesi. Sarebbe stato bello vedere il vescovo Henrique partecipare al Concilio di Trento. Purtroppo morì a soli 36 anni nel 1531, quando le  nuove strategie pastorali avevano già iniziato a emarginare gli africani dal sacerdozio.


Il rapporto con la Chiesa di Roma fu comunque più proficuo che col Portogallo. D’altro canto la scelta di diventare cristiani era stata anche, se non soprattutto, politica. C’era tutta la magia di nuove tecnologie e prodotti che approdavano dall’oceano, un tempo ritenuto sfera del sacro, dimora degli spiriti di antenati che si incarnavano in corpi bianchi... E non mi riferisco solo alle armi arrivate con Vele e cannoni (titolo di un libro fondamentale di Carlo M. Cipolla), ma anche a strumenti altrettanto formidabili come libri e scrittura. Afonso I, un gigante della politica dell’epoca, si dedicò subito anima e corpo alla fondazione di scuole per i figli della classe dirigente e, contrariamente all’Europa, l’insegnamento fu aperto anche alle donne (una delle sue sorelle fu apprezzata professoressa). Il corpo docente era però principalmente composto da religiosi europei e continua era la richiesta di nuovi maestri per avere classi meno numerose (proposta lungimirante sempre valida, anche da noi, oggi). Tuttavia, col passare degli anni, appelli come questo e altri finalizzati a un maggior apporto di specialisti nei campi delle più diverse tecnologie rimasero lettera morta alla corte lusitana. In un’Europa che ancora non aveva elaborato teorie di superiorità culturale, ma soltanto cultuale, si faceva strada il timore per la grande intraprendenza del manikongo e del suo popolo. Come ha sottolineato Randles: “Le lettere di Dom Afonso mettono in luce la delusione di un uomo che aveva aderito di tutto cuore alla civiltà europea, che credeva ancora alla buona fede e alla generosità di suo ‘fratello’ – è  la parola da lui usata nel rivolgersi al re del Portogallo – ma che si trovava profondamente sorpreso e rattristato dal comportamento interessato, disinvolto, vedi insolente, dei portoghesi residenti in Congo”.
Afonso I, in una lettera del 1516 al re del Portogallo Manuel I, era stato descritto in termini entusiasti: “Sembra che non sia un uomo bensì un angelo […] conosce meglio di noi i Profeti e il Vangelo e tutte le vite dei santi e tutte le cose di nostra Santa Madre Chiesa […] poiché non fa che studiare e spesse volte gli succede di addormentarsi sui suoi libri e sovente dimentica di mangiare e bere per parlare delle cose di Nostro Signore”.

I resti della Cattedrale di São Salvador (foto di Madjey Fernandez, 2013)

Soltanto dieci anni dopo il re congolese già denunciava con forza il coinvolgimento dei portoghesi nella tratta degli schiavi, anche a danno dei suoi sudditi: “Ogni giorno gli schiavisti rapiscono membri del Nostro popolo, figli di questa terra, figli dei Nostri nobili e vassalli, persino persone della Nostra famiglia. […] Necessitiamo nel Nostro regno solo di sacerdoti e insegnanti, non di mercanti, a meno che non siano di vino e di farina per il Nostro popolo. È Nostra volontà che questo regno non sia luogo di commercio o trasporto degli schiavi”.
Arrivati al 1540, poi, sono certe le trame dei lusitani dietro il tentativo di assassinare il loro ex “angelo” mentre assiste a una funzione religiosa. Dato che, come in massima parte dei regni africani, non era prevista la successione dinastica e ogni passaggio di poteri avveniva in modo convulso, il re intravvede forte il rischio che, con la sua scomparsa, “possano imporre un re di loro scelta”.
Infatti alla sua morte, nel 1543, il Congo piomba nel caos: lotte di successione si alternano a regni brevi e deboli. Il tutto aggravato dal trauma dell’invasione particolarmente feroce di un popolo nomade (e cannibale) di recente costituzione: gli Jaga. Soltanto l’aiuto di un forte contingente portoghese permette al re Alvaro I, nel 1571, di evitare il peggio. Il prezzo da pagare è il via libera all’occupazione lusitana della provincia di Angola, dove viene fondata la città di Luanda, avamposto della futura colonizzazione. Il regno inoltre è preda anche di continue spinte centrifughe da parte dei governatori delle province, una specie di feudalizzazione riconosciuta dal potere centrale con l’attribuzione di nuovi titoli nobiliari di stampo europeo come “conte”, “duca”, “marchese”. Nei tre quadri attribuiti al pittore olandese Albert Eckhout (1610-1665) o, più di recente, ai contemporanei artisti tedeschi Jaspar e Jeronimus Beckx troviamo al centro proprio il cugino di uno di questi nuovi “conti”, quello della provincia del Soyo: Dom Miguel De Castro,  ambasciatore in Olanda nel 1643, fra i servitori Diego Bemba e Pedro Sunda (e ritratti e psicologie di questi ultimi due, fa piacere dirlo, sono di livello decisamente superiore).


Alle continue pretese di Lisbona Alvaro I cerca un contraltare nella Chiesa, ribattezzando São Salvador la capitale Mbanza Congo (oggi Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO) e chiedendone il riconoscimento come diocesi. Una consacrazione che arriverà non solo col ritardo di un quarto di secolo (1596), ma che vedrà i vescovi, questa volta tutti rigidamente europei, che preferiranno risiedere, guarda caso, a Luanda, rifiutandosi per di più di consacrare sacerdoti indigeni (condotta riprovevole che provocherà proteste sempre più diffuse che sfoceranno a inizio XVIII secolo nell’eroica rivolta di Kimpa Vita, battezzata Dona Beatrix, la Giovanna d’Arco del Congo).
Era finita da un pezzo la “fratellanza” che si scambiavano per via epistolare Afonso e Manuel. Anche se ne I Lusiadi  di Luís de Camões leggiamo ancora “Il gran regno del Congo ivi si estende,/ cui demmo già la religion di Cristo” (V, 13), si diffonde sempre più tra i portoghesi in Africa l’idea che in fondo i congolesi non siano altro che “pagani” come le altre popolazioni (la scusa era soprattutto la persistente pratica della poligamia). Eccoli allora preferire i cannibali Jaga come compagni di caccia di nuovi schiavi, il cui traffico aumenta in modo esponenziale. Altro che stereotipi da certo vecchio cinema esotico, si tratta di una triste abitudine, quella di usare popolazioni divenute particolarmente feroci e bellicose per tutta una serie di circostanze contro altre più pacifiche, in particolare nomadi contro sedentari, che poi diventerà tipica di tutte le potenze coloniali e di certi loro apprendisti locali dopo l’indipendenza (parlo del buon numero di dittatori sanguinari coccolati soprattutto dagli occidentali nella seconda metà del ‘900 e oltre).
Non che i regimi politici africani originali fossero esenti da forme consolidate e spesso estreme di violenza, tutt’altro, ma l’apocalisse provocata nell’Africa Nera dagli europei finisce per metterle in secondo piano. Il rapporto vantaggi-svantaggi nell’arco dei secoli finisce per pendere sempre più verso il basso. Ma la resistenza è tenace. “Kulula mpanda”, “Togliere questa maledizione”, pregava il manikongo quando veniva incoronato e non saranno poche le volte che i congolesi vinceranno in battaglia portoghesi e cannibali. E’ il caso del re Pedro II e, soprattutto, dell’indomabile Nzinga (o Anna I), regina dei limitrofi stati di Ndongo e Matamba, certo feroce e spietata ma contro nemici feroci e spietati, oggi eroina del moderno stato angolano. L’arrivo degli olandesi, infine, permette a un altro grande congolese, Garcia II (re dal 1641 al 1661), di ribaltare le alleanze (prima schierandosi con gli stessi olandesi e poi con gli spagnoli) e di assicurare al proprio dominio gli ultimi anni di grandezza. Le ragioni del suo risentimento contro i portoghesi (esclusi i gesuiti, che avevano ripetutamente condannato le scorrerie dei loro connazionali) è ben chiarito da una lettera del 1643: “Il materiale di scambio (dei portoghesi) sono degli schiavi, che non sono né oro né tessuto, bensì esseri umani. […] La nostra ingenuità ha consentito l’apparizione di tanti mali nei nostri regni […] L’imparità di armi ci ha fatto perdere tutto, poiché di fronte alla forza non c’è diritto che tenga. […] La mia volontà è che le mie terre siano indipendenti. E’ mia ferma intenzione, e dovessi anche rimanere fulminato, morirò per liberare ciò che mi appartiene”.


Ancora una volta si ricerca l’aiuto della chiesa cattolica. Già nel 1604 c’era stata la coraggiosa ambasceria guidata da Manuel Ne Vunda, inviato da Alvaro II presso la Santa Sede. Raggiunta a ranghi decimati, dopo mille peripezie, solo nel 1608. Giusto in tempo perché il delegato, ormai in agonia, morisse dopo aver ricevuto la visita di papa Paolo V al capezzale. Successivamente ritratto in un busto scolpito da Stefano Maderno (con l’aiuto dell’artista Francesco Caporale), in un quadro di Raffaello Schiaminossi e in un affresco del Taschi nella Sala dei Corazzieri al Quirinale, il nunzio fu sepolto nella basilica di Santa Maria Maggiore. Risultati pratici oltre la gloria: nessuno. Per questo Garcia II ci riprova, nel 1648, spedendo una missione di frati cappuccini, ormai presenza maggioritaria in Congo, alla volta di papa Innocenzo X, perché avvalli con un decreto la sua fondamentale riforma della successione al regno in senso dinastico. Il papa non trova il coraggio di contrastare gli interessi dei portoghesi, ben felici di approfittare degli interregni caotici della monarchia elettiva, e si limita a spedire una corona dorata alla volta di São Salvador. La profonda delusione del sovrano, anche se alla lunga non minerà la sua fiducia (tutto sommato ben riposta) nei cappuccini, diventa però esemplare del senso di rabbia e abbandono a se stessi dei congolesi di fronte alle continue provocazioni dei portoghesi di Luanda.

Albert Eckhout, Ritratto di Garcia II (1641)

Dopo la morte di Garcia II la situazione precipita e si giunge allo scontro, che avviene a Ulanga, presso Ambuila, il 29 ottobre 1665. La battaglia è durissima (nell’esercito congolese combattono anche diversi europei residenti a São Salvador), ma alla fine l’artiglieria portoghese ha la meglio. Per il Congo è una catastrofe: muoiono il re Antonio I, quattrocento nobili e cinquemila sudditi. Orrore nell’orrore: la testa del re viene portata in trionfo a Luanda. Il regno non viene invaso solo per l’opposizione della corona portoghese, spesso in contrasto con la condotta avventuristica dei coloni d’oltremare e all’epoca stremata dalla “Guerra di restaurazione” con la Spagna (che terminerà solo nel 1668).
Tuttavia il 1665 rappresenta un punto di non ritorno per il regno africano. La crisi diventa irreversibile. Anche se agli inizi del XVIII secolo Pedro IV riesce a ristabilire una qualche forma di autorità, lo stato è ormai una pallida ombra del passato. Occorreranno, però, ancora più di due secoli prima che i portoghesi dichiarino il controllo di tutto l’odierno Angola, agli inizi del ‘900. Perché, è bene ribadirlo, nonostante gli orrori dello schiavismo e le nefandezze della successiva ideologia razzista, le potenze coloniali europee riusciranno a superare i possedimenti costieri e a occupare i territori interni dell’Africa solo a Seconda Rivoluzione Industriale avanzata. La resistenza degli africani fu lunga e tenace.
Il regno viene formalmente abolito nel 1914. L’ultimo a dichiararsi re del Congo muore nel 1958, quando ormai la lotta di liberazione è da tempo in ben altre mani. Una libertà pagata a carissimo prezzo e con enorme coraggio. Com’è scritto, scolpito nella poesia Sanguinanti e germoglianti del primo presidente dell’Angola libero (dal 1975 al ’79), Agostinho Neto.


“Noi
Dell’Africa immensa
Al di là del tradimento degli uomini
Attraverso foreste maestose invincibili
Attraverso il fluire della vita
Ansiosa veemente copiosa nei fiumi ruggenti
Per il suono armonioso di marimbe in sordina
Per gli sguardi gioventù delle folle
Folle di braccia di ansia di speranza”.






BLACK LIKE MENERO COME ME

Il capolavoro di J. H. Griffin ancora di grande attualità


Il nero. Il Sud. Ma sono particolari. La storia vera è quella universale,
di uomini che distruggono le anime e i corpi di altri uomini
(e con ciò distruggono se stessi)
per ragioni incomprensibili ad ambedue le parti in causa.
È la storia dei perseguitati, dei defraudati, dei temuti e dei detestati.
Potrebbero essere gli ebrei in Germania,i messicani in molti Stati
o i membri di un qualsiasi gruppo "inferiore".
Notereste una differenza soltanto nei particolari. La storia sarebbe identica.
John Howard Griffin


Pazzesco ma è così. Come i rigurgiti di razzismo oggi e chi ci specula in politica. Ho dovuto cercare fra i remainders per trovare la vecchia edizione Longanesi del ’67 (l’ultima ristampa è del ’78). Un uomo, uno scrittore, un libro dal coraggio formidabile frutto di un’esperienza dal vivo nel 1959 quando la lotta di massa contro la segregazione razziale negli USA era agli inizi (ma, in quanto a uguali e concreti diritti, abbiamo visto con la terribile morte di George Floyd ancora a che punto siamo).
Griffin - di cui non esiste neanche la pagina italiana in Wikipedia... - vuole provare sulla propria pelle cosa si sente a essere nero nel sud degli Stati Uniti e si sottopone a una serie estenuante di cure dermatologiche. Il risultato è tanto perfetto quanto orribile il senso di paura e persecuzione che il nuovo John Howard Black prova per tutti i quaranta giorni dell’esperimento attraversando Louisiana, Mississippi, Alabama e Georgia.
E non stiamo parlando di qualcuno vissuto nella bambagia: l’uomo aveva condotto missioni pericolosissime in Europa contro il nazismo partecipando in prima persona alle lotte della Resistenza francese ed era stato decorato per coraggio militando nell’aeronautica americana nel Pacifico, dove aveva curato i rapporti con gli abitanti delle Isole Salomone studiandone la cultura. Dopo aver subito gli esiti di un attacco di malaria spinale, a causa di un’esplosione, era rimasto cieco per undici anni (1946-57), ma aveva cercato sempre di vedere il lato positivo e pieno di speranza della sua condizione umana: “Non giudicavo le persone dal colore della pelle, ma solo da voci, affezioni e sentimenti. Lì ho capito tante cose che con la vista mi sfuggivano”.

Tenera scende la notte
Nera come me...

Tuttavia neppure tutta questa ricca e tormentata serie di esperienze riesce a contenere lo shock dei primi (e degli ultimi) giorni del suo reportage: “Di cosa avevamo paura? Non lo saprei dire esattamente… Eravamo vittime di quel terrore senza nome… Una cosa orribile e inspiegabile. Mi ricordava il timore costante e tormentoso che ci assillava in Europa quando Hitler iniziò la sua marcia trionfale e non osavamo parlare con gli ebrei (vergognandocene profondamente). Questa paura è onnipresente per tutti i neri del Sud e anche per molti bianchi onesti che si rendono conto della situazione, ne provano vergogna e ne sono umiliati”. E lui, texano bianco e onesto, provava ora a porvi rimedio. Il resoconto sarebbe stato pubblicato su Sepia, la rivista afroamericana più diffusa nel “Deep South”.

Claudette Colvin, attivista arrestata a 15 anni il 2 marzo 1955,
la prima a sfidare la segregazione sugli autobus a Montgomery (Alabama)

Il viaggio ha inizio a New Orleans il 28 ottobre, cinque anni dopo la prima sentenza della Corte Suprema che aveva iniziato ad aprire un varco nel muro della segregazione e due dopo l’intervento dell’esercito a difesa del diritto allo studio di nove studenti neri a Little Rock, in Arkansas. Il presidente Eisenhower si era impegnato in prima persona e il partito repubblicano conservava ancora barlumi di quella politica filoafroamericana che lo aveva contraddistinto all’epoca di Lincoln e, soprattutto, di Ulysse Grant, ma la reazione feroce del razzismo sudista contro la “mescolanza delle razze” rendeva faticosi – e traumatici – i primi tentativi di cambiamento. Le cose muteranno più rapidamente il decennio successivo quando, con Kennedy e Johnson, si trasformerà profondamente quel partito democratico che aveva proprio in molti suoi esponenti del sud – fin dalla fine della Guerra di Secessione - i principali difensori di questo apartheid (i famigerati “Dixiecrat”). Paola di Griffin: “I personaggi più abbietti non sono i razzisti ignoranti, ma i cervelli legali che gli servono da facciata”. Ironia della storia, il sabotaggio di questa lotta per i diritti civili sarà fatto proprio da una parte sempre più influente dei repubblicani, soprattutto da quella “Destra religiosa” che vede oggi in Trump il suo idolo.
Tornando invece al prologo del viaggio attraverso la notte di Griffin, il primo mentore è un amico lustrascarpe, Sterling Williams, e l’immagine del pranzo in un tegame di riso e rape riscaldati è già tutto un programma. New Orleans è meno peggio di altri posti, merito anche della forte presenza cattolica, meno disponibile alla propaganda razzista, specie in ambito colto ed ecclesiastico (siamo inoltre nell'epoca del rinnovamento di papa Giovanni e alle porte del Concilio). È un motivo di orgoglio per lo scrittore, convertitosi al cattolicesimo nel ’52 e laico carmelitano. Tuttavia anche qui si avverte già quel fastidio dei bianchi pronto subito a trasformarsi in odio verso qualsiasi nuovo atteggiamento della popolazione di colore: “Nel mormorio di una conversazione la parola ‘nigger’ spicca come un lampo accecante”.

E quando contemplavo quella Terra di Nessuno
nella quale era stata isolata l'intelligenza nera in America,
mi domandavo se fosse mai esistito, in tutta la storia dell'umanità,
un attacco più corrosivo e devastatore del concetto della discriminazione razziale.

Ma il peggio deve ancora venire e John Howard lo vivrà sulla propria pelle nei passaggi in Mississippi e Alabama.
Il primo è un viaggio in autobus, mezzi di trasporto che già  in città si fermano solo quando deve scendere un bianco: dieci ore di viaggio con una sola sosta dove ai passeggeri di colore è vietato scendere. La segregazione dei servizi igienici e l’assoluta scarsità di quelli riservati ai neri è un vero e proprio dramma in tutto il profondo Sud (e non solo: anche fuori dai ghetti di buona parte del resto del Paese o alla stessa NASA, come ben rappresentato da quello splendido film che è Il diritto di contare).

Katherine Johnson, matematica, informatica e fisica:
la sua vita e la sua lotta antirazzista hanno ispirato il film.

La tirannia sui bisogni fisiologici delle popolazioni emarginate è il più eclatante di tutta quella serie di piccoli orrori quotidiani messi in atto da maggioranze silenziose e rabbiose. È qualcosa che hanno conosciuto i nostri emigranti e che conoscono bene anche tanti nostri immigrati. Impedire l’igiene è il mezzo più sporco per condannare come “sporco” (fuori e quindi dentro) chi viene emarginato, anzi, la massa degli emarginati, privati della loro individualità: “Una parte importante della mia vita quotidiana era dedicata alla ricerca di certe cose elementari che i bianchi danno per scontate: un luogo dove mangiare o dove lavarsi le mani o dove bere un bicchier d’acqua… Imparai a mangiare molto se mi si presentava l’occasione, perché forse non ne avrei più avuto l’opportunità quando avessi sentito i morsi della fame… A volte bisognava percorrere chilometri per avere un bicchier d’acqua… Qui non si respirava più l'aria d'America. Avevo l'impressione di trovarmi in un paese ignoto e sinistro”.

Essere nero in questo paese ed esserne relativamente cosciente
significa provare una rabbia quasi continua

E infatti sono luoghi da incubo, teatro di tanti film horror dagli anni ’70 in poi (ma ci aveva già pensato il grande Roger Corman con L’odio esplode a Dallas, uscito nel ’62), dove passare da bianco a nero è come mettere gli occhiali di Essi vivono e scoprire dietro la gentilezza tanto sbandierata dell’”uomo del Sud” il ghigno del boia. Un carnefice che vive comunque in zone economicamente depresse e connotate da un moralismo religioso tanto ipocrita quanto spietato. Perché la “Bible Belt”, la “Cintura della Bibbia” del meridione degli Stati Uniti, col suo culto del testo sacro versione Re Giacomo e il “marchio di Caino” che aveva giustificato la schiavitù, era il luogo per eccellenza della repressione sessuale. Vissuta in primis dai bianchi stessi e poi sfogata sugli ex-schiavi col ferreo divieto di non fissare una donna bianca neppure se riprodotta sui manifesti dei cinema. Un errore che Griffin commette, per fortuna senza essere visto. Era ancora fresco il ricordo del terribile linciaggio di Mack Charles Parker, ingiustamente accusato di stupro in aprile nella contea di Pearl River (Mississippi).

Due fra i tanti martiri del razzismo negli Stati Uniti: il giovane Parker quando era ancora nell'esercito, vittima della menzogna e dell'isteria; Viola Liuzzo, attivista massacrata nel 1965 dal Ku Klux Klan di ritorno da Selma, vittima anche post mortem, proprio perché donna e "bianca", di una campagna mediatica di fango.

Sarebbe stato l’ultimo alla luce del sole (chiaramente senza colpevoli né condanne), non ci sarebbero state più le ripugnanti cartoline con la folla festante intorno al cadavere, ma chi poteva saperlo? Essere minacciati per gli afroamericani era la norma, con la Spada di Damocle onnipresente delle abominevoli Leggi Jim Crow. Di rivolgersi alla polizia locale neppure a parlarne: basta aver visto MississippiBurning del compianto Alan Parker o il meno conosciuto ma sempre ottimo Gang in Blue dei miei amati Melvin e Mario Van Peebles (il primo del 1988, il secondo del ’96, ma se pensiamo cos'è successo ancora nel 2020). L’FBI agiva a singhiozzo, ostacolata dal suo stesso direttore, l’inquietante John Edgar Hoover. La resistenza passiva era la pratica quotidiana. O l’indifferenza, il torpore descritti da un protagonista della poesia afroamericana (e non solo) come Arna Bontemps.

Gli anni vanno a ritroso con un risuonare di ferro,
Una mano sulla porta,
Una foglia secca vibra sul muro.
Gli spettri camminano,
Hanno calpestato le rose,
Mentre i pioppi si drizzano immoti come la morte.

Oppure - o insieme - il rifugio nella musica e nello sport (quando va bene); nel sesso machista e nell’alcool (quando non c’è altro): uniche distrazioni da una vita resa impossibile. Ecco allora il mito dell’animalità del “negro” (cavallo da parata alle Olimpiadi o carne da macello per le guerre) che tanto ripugna e attira il razzista. Memorabili le pagine dedicate ai passaggi in auto ricevuti da bianchi la notte per ascoltare i racconti delle presunte prodezze sessuali dei neri. C’è addirittura chi chiede a Griffin di mostrargli i genitali! Chi ha visto quel gioiello di Ed Wood di Tim Burton ricorderà il produttore di Glen or Glenda che diceva che i film morbosi avevano successo specie fra i “bifolchi” del sud (tanto per cambiare un altro tipo di razzismo, che il sottoscritto si ricorda bene anche da noi). Quando a dare un passaggio allo scrittore è un giovane incredibilmente normale, senza pregiudizi, che tratta il passeggero come la moglie da pari a pari - non dimentichiamo che l’odio delle donne bianche, specie se anziane, era particolarmente rancoroso proprio a causa della loro stessa condizione opprimente - ed è solo entusiasta e parla con amore del bambino che gli è appena nato, anche per chi legge è un momento di indescrivibile respiro.

Puoi spararmi con le tue parole,
puoi tagliarmi coi tuoi occhi,
puoi uccidermi con il tuo odio,
ma ancora, come l’aria, mi solleverò.

Ma la norma è violenza sessuale esercitata in ogni dove ai danni delle donne afroamericane, costrette dalla miseria a servire e a prostituirsi. In Alabama un conducente di autocarro, che viaggia con tanto di fucile accanto (per la caccia ai cervi dice lui), lo fa presente in modo brutale e senza alcun pudore al nostro eroe: “Mi disse che tutti gli uomini bianchi della regione vanno pazzi per le ragazze negre. Ne aveva assunte parecchie per i lavori di casa e per l’ufficio. ‘E me le sono passate tutte… No, non rifiutano se vogliono mangiare o dar da mangiare ai bambini… Beh, che diavolo, lo fanno tutti… Vi facciamo un favore dando un po’ di sangue bianco ai vostri bambini’”. Alla faccia del culto della “purezza della razza” e dell'orrore tanto esibito per il “meticciato”! Un bel ritratto delle continue contraddizioni di questo mondo alienato. È sempre lo stesso personaggio, tanto concreto quanto vero e proprio simbolo di tutto un universo oscurantista, a mettere in chiaro con fredda ferocia - “I suoi simpatici occhi azzurri erano diventati giallastri… L’immensità del suo odio mi sconvolse” - alcuni punti fermi della nuova reazione alla lotta per i diritti civili:
“Provate a seminar zizzania tra questi ‘nigger’ e com’è vero l’inferno vi sistemiamo noi”.
“Si può uccidere un negro e gettarlo in quelle paludi e nessuno saprà mai che fine abbia fatto”.
“Noi accettiamo i vostri quattrini se volete comprar qualcosa. E naturalmente ci prendiamo le vostre donne. Ma per tutto il resto è come se voi non esisteste nemmeno. E più presto ve lo ficcherete in testa, meglio sarà”.


A questa crescendo agghiacciante va aggiunto quanto aveva risposto il caposquadra di una fabbrica di Mobile, sempre in Alabama, a John Howard Black vanamente alla ricerca di un lavoro decente: “Stiamo eliminando tutti voi dai posti migliori in questa fabbrica. Ci vorrà del tempo, ma ci riusciremo. Ben presto gli unici lavori che potrete fare saranno quelli che un bianco non accetterebbe mai”.
Senza contare le continue incursioni in auto con insulti, se non peggio, dei suprematisti nei ghetti in pieno giorno e i falò poco rassicuranti del Ku Klux Klan di notte, lo squallore delle condizioni abitative, la carente e costosa assistenza sanitaria, l’impossibilità di accedere a un’istruzione decente, le tasse pagate senza avere nulla in cambio, l’indebitamento perseguito come politica da banche e usurai bianchi (spesso la stessa cosa), l’impossibilità quasi ovunque di esercitare il diritto di voto grazie a cavilli o a veri e propri esami di ammissione impossibili da superare (ricordo  che ancora oggi in quasi tutti gli stati degli USA, specie al sud, le leggi che impediscono il voto a chi ha commesso reati anche se scontata la pena - le antiquatissime “felony disenfranchisement - riguardano milioni di potenziali elettori, soprattutto appartenenti alle minoranze)… Direi che solo questo può bastare.
Non c’è quindi da stupirsi che le grandi migrazioni degli afroamericani dal Sud verso le città del Nord siano durate fino ai primi anni ’70 (dall’inizio del ‘900 parliamo di più di 6.000.000 di persone). Tuttavia la popolazione di Mobile, alla faccia di queste cupe profezie, è ancora oggi in maggioranza nera e dal 2005 al 2013 è stata governata dal primo sindaco afroamericano, il democratico Sam Jones.


È giunto quindi il momento di affrontare le pagine della speranza, perché questo era l’obiettivo di Griffin e i tempi erano finalmente maturi. Una speranza che poteva realizzarsi solo creando unità fra gli oppressi in una lotta pacifica, senza altri razzismi di reazione o ritorni impossibili in Africa (il triste caso di come è andata in Liberia sta a dimostrarlo). In Alabama, a Montgomery, il modello è naturalmente Martin Luther King: “Mentre in tutto il Sud l’azione dei neri - Nota Bene: scrivo ‘neri’ invece del vetusto ‘negri’ della traduzione di Lisa Morpurgo in era pre-astrologica – manca di unità e di coordinamento, a Montgomery è retta con mano salda dal reverendo King… Il razzista bianco è stupito e irritato da questo atteggiamento, perché il suo modo di comportarsi indegno è messo in risalto dalla presa di posizione dei neri”.
Ad Atlanta, in Georgia (terra di origine dei Griffin), grazie alla politica illuminata del sindaco Hartsfield (in carica fino al 1962) e alla tradizione organizzativa della comunità nera in campo economico e culturale, il cambiamento è già in atto. Merito anche dell'accordo bipartisan del '49 tra i politici afroamericani J. W. Dobbs (repubblicano) e A. T. Walden (democratico) che si erano uniti per formare la Lega dei Votanti Neri di Atlanta. Non è quindi un caso se la città è governata ininterrottamente dal 1974 da sindaci neri (spesso in conflitto coi governatori dello stato, come anche in questi ultimi mesi riguardo all'uso delle mascherine contro il Covid-19, sostenuto con forza dalla sindaca Keisha Lance Bottoms). Il problema, come al solito e non soltanto nel sud degli Stati Uniti, sono le piccole realtà urbane e le zone rurali, di frequente sovradimensionate come peso elettorale stile "borghi putridi" inglesi dell'Ottocento. Inoltre ad Atlanta era ed è attivo il quotidiano Atlanta Constitution, che differiva dalla gran parte dei media meridionali piene di "fake news" - dice qualcosa? - contro i "colored", grazie soprattutto ai coraggiosi editoriali di Ralph McGill, Premio Pulitzer proprio nel 1959.


Tuttavia neppure qui mancano gli episodi sgradevoli che hanno costellato l’odissea dello scrittore, che decide di tornare all’abituale colorito della pelle. Prima saltuariamente, in apparenza quasi schizofrenico, ma lui ormai era l'altro, aveva capito fino in fondo che l'altro è in lui, in noi e una volta compreso questo nulla è più come prima. Nelle ragioni della scelta definitiva della pigmentazione, da vero scrittore, da grande essere umano, è assolutamente sincero: “Mi sentii atterrito quando mi resi conto che se la mia pelle fosse rimasta nera anche i miei figli sarebbero stati condannati senza esitazione a una vita di miseria… Il ritorno alla vita da ‘bianco’ mi lasciava sempre smarrito sulle prime. Dovevo controllarmi per non lasciarmi sfuggire quelle parole un po’ sboccate che i neri usano correntemente fra loro…Mi resi conto che, se come nero, ero piuttosto ben vestito, come bianco parevo un miserabile…Il poliziotto mi salutò con un affabile cenno del capo… Fui invaso da una strana esultanza, da un senso di liberazione… Andai a gabinetto e nessuno mi fermò per chiedermi: ‘Che ci fai tu qui, nigger?’… Poi non provai più alcuna gioia. Vedevo volti sorridenti e cortesi. I volti dell’uomo bianco che guarda il suo simile, ma ricordavo benissimo anche il suo altro volto, quello carico di odio. Quel miracolo aveva un sapore amaro... Mi sentivo stranamente malinconico all'idea di lasciare il mondo dei neri dopo esserci vissuto a lungo, partecipando ai suoi dolori e alle sue pene". Un'immagine condivisa dal fotografo Dan Rutledge, che aveva accompagnato Griffin nelle ultime tappe del suo viaggio e "mentre fotografava certe scene si rendeva conto che quegli uomini e i loro ideali erano del tutto sconosciuti alla maggior parte degli americani, e troppo al di là della comprensione dei razzisti del Sud".
Ma nel 1959 era la decisione più efficace. Diversamente il libro, rivisto anche con la partecipazione dei più importanti esponenti della comunità nera di Atlanta, non avrebbe l'impatto che doveva avere e l'autore non avrebbe potuto muoversi liberamente. Non dimentichiamoci poi che abitava in Texas...

Griffin intervistato dalla star del giornalismo televisivo Mike Wallace

Dopo qualche giorno di pausa corroborante per lo spirito ospite del monastero trappista di Conyers - "Un bianco che viene in un monastero trappista non è il tipo che tenga un occhio a Dio e l'altro al colore della pelle del suo prossimo" - e la rilettura di qualche brano dell'amato Jacques Maritain ("egli descriveva tutti i razzisti di ogni luogo e di ogni tempo"), lo scrittore torna ad abbracciare la famiglia: "Vidi arrivare la macchina coi bambini che gridavano e agitavano le mani dai finestrini. Poi sentii le loro braccia attorno al mio collo - emozione che aveva provato anche coi sei figli di una dignitosa e poverissima famiglia contadina nera in una baracca sperduta nei boschi dell'Alabama - e nell'entusiasmo di quella riunione mi balenò nella mente il ricordo di tanti pregiudizi e fanatismi cui avevo assistito. 'Signore Iddio" mormorai 'perché gli uomini si comportano così in un mondo che pure ci riserva gioie come queste?'".


Il sogno dell'integrazione diventerà realtà di lì a poco, ma, come sappiamo, è sempre in fieri. E l'uomo che era stato e continuava a essere bianco e nero pagherà cara  la sua missione. Minacce continue, l'impiccagione in effigie nella sua Mansfield, il trasferimento della famiglia in Messico e poi il cambio di residenza a Forth Worth. Nel 1964 riceverà, insieme al presidente John Kennedy (alla memoria), il prezioso Premio Pacem in Terris conferito dalla Diocesi di Davenport (Iowa). Nello stesso anno matura il film tratto dal libro, diretto dai coniugi Carl e Gerda Lerner, da sempre impegnati nella lotta contro le disuguaglianze negli USA (e naturalmente ex Lista Nera del maccartismo).
La morte nel 1980 a soli sessant'anni - verrebbe voglia di dire "Muore giovane chi è caro agli dei" - non intacca minimamente la forza viva e contemporanea dello scrittore. È ancora qui, in queste pagine ingiallite,  colorate, mentre dialoga col reverendo afroamericano Samuel Williams:
"'Ho speso tanti anni' mi disse 'per studiare il fenomeno dell'amore.'
'E io ho speso anni per studiare il fenomeno della giustizia.'
'In fondo abbiamo studiato la stessa cosa'".





LA VERA SPERANZA DI KAREEM, LA NOIA DISTOPICA DI ELLROY

Razzismo, nuovi "borghi putridi"americani e simboli abbattuti


Il significato dell'esistenza si acquista soltanto quando si lotta
per strappare un significato al dolore senza senso.



“Il pacifismo ha preso il sopravvento negli ultimi giorni, i vandali e i provocatori sono stati respinti o tenuti a bada dal  movimento, oltre che dalla polizia. […] Ma gli afroamericani hanno vissuto in un edificio in fiamme da decenni, soffocati dal fumo mentre le fiamme si avvicinano. Il razzismo in America è quel fumo tossico nell'aria. E' invisibile, ma ti soffoca. E adesso c'è pure il Covid, che colpisce i neri svantaggiati più di ogni gruppo etnico. […] L'America deve capire, ammettere e confessare che il razzismo è ancora dentro di lei. Solo così potrà disintossicarsi. [...] Ma non voglio demonizzare la polizia: ci sono bravi poliziotti e cattivi poliziotti. […] Il movimento è stato abbracciato anche dai bianchi, dai latini, dagli asiatici, tanti gruppi diversi, multietnici e culturali che confluiscono dentro questo attivismo per l'eguaglianza razziale e i diritti umani e civili in genere. […] Nel Black Lives Matter  confluiscono anche il femminismo, il MeToo, il  Lgbtq, tutti soffriamo dallo stesso problema, e tutti capiscono che se uno di noi non è libero nessuno è libero”.
Passaggi della bellissima intervista di Silvia Bizio su Repubblica a Kareem Abdul-Jabbar, mito dello sport ma soprattutto persona di grande umanità da sempre impegnata nel sociale, ci offre una lucida analisi politica ricca di speranza e ne abbiamo bisogno ("Difficile dire, ma io ho speranza. Siamo presi fra Storia e Speranza."). Non solo quando commenta con esemplare equilibrio, contenendo un giustissimo sdegno, l’assassinio di George Floyd, ma anche quando individua quello che è ormai un problema cruciale per ogni soluzione democratica: il sistema elettorale americano. "Bisogna cambiare il collegio elettorale che è un anacronismo. La maggior parte degli americani vivono in città e il nostro corpo legislativo non lo riflette. Riuscire ad avere i risultati elettorali che riflettono quello che la gente in America veramente vuole è una cosa che va fatta. E' un sistema che va cambiato". Il problema dei “borghi putridi” (collegi rurali favoriti rispetto a quelli cittadini) che distorse la rappresentanza parlamentare in Inghilterra fino alla riforma del 1832 (e a quella del 1872) si ripropone oggi negli USA. Nelle presidenziali americane il contrasto fra voti complessivi e grandi elettori, escludendo l’episodio dell’elezione di Harrison nel 1888, non si era fatto sentire fino alla contestata vittoria di Bush junior nel 2000 (Al Gore sconfitto nonostante 500.000 voti più dell’avversario). Con l’ultima tornata elettorale il distacco è diventato di quasi 3.000.000 di elettori: è pericoloso - e ridicolo - che si continuino ad eleggere presidenti non espressione dalla maggioranza complessiva degli elettori o quanto meno con collegi meno sperequati. Specie se, come Trump, non si fa nulla per ricucire questo strappo, anzi.
All’opposto di tale profondità la solita solfa ormai superficiale di James Ellroy col suo lucroso pessimismo di comodo e il suo conservatorismo esibizionista e retrivo, utile a fargli vendere qualche copia in più oltre al pubblico affezionatissimo di radical chic masochisti. Stare dalla parte della polizia non significa essere complici di chi abusa e infanga una divisa per commettere crimini senza pagarne le conseguenze. Certo, non siamo al delirio dell’ex nunzio Viganò (a volte mi viene la tentazione di dar ragione al Lavater), ma, d’altro canto, per gente frustrata come questa, che brama vedere criminali dappertutto, i delinquenti senza speranza sono merce preziosa. Dopo il Covid e con quello che succede negli USA, in Brasile o a Hong Kong, solo per fare qualche esempio, spero che almeno ci si cominci a stancare di tutto questo packaging distopico.

P.S. Per quanto riguarda statue abbattute o imbrattate, tutte comunque di scarso valore artistico, tre lo meritavano da tempo: il mercante di schiavi Edward Colston, il genocida Leopoldo II e anche il razzista Jefferson Davis.
Con l’avvertenza di non inquinare i fiumi o lasciare simulacri in giro come spazzatura, ma semplicemente chiuderli e custodirli in un museo. Con altre opportune avvertenze.




GROENLANDIA: IL LIBRO CHE TRUMP NON LEGGERA’

Collasso di Jared Diamond



E invece dovrebbe, anche se supera gli spazi di un tweet. Perché è uno dei saggi più importanti del nuovo millennio e, tra i tanti argomenti trattati con precisione e chiarezza esemplare dal grande biologo (in primis quelli sugli USA: è un suo compatriota), ci sono capitoli fondamentali (con quelli sull’isola di Pasqua) che riguardano proprio la Groenlandia: ascesa, declino e catastrofe della colonizzazione norvegese fra XI e XV secolo.
Non è un atto di accusa contro i Vichinghi, che non avevano le conoscenze scientifiche sui cambiamenti climatici ora in nostro possesso, ma una preziosa lezione storica per non ripetere gli stessi errori, cioè, chiudersi nelle più viete tradizioni (alimentari, culturali, socio-politiche) rifiutando l’incontro e l’apporto di conoscenze di popoli diversi - e più intelligenti nell’adattamento. Perché c’è anche questo (una sonora lezione per tutti gli eurocentrici): gli Inuit, che vennero dopo i norvegesi (così come loro dopo altre culture amerinde), seppero rispondere meglio ai cambiamenti con una diversa alimentazione (la foca dagli anelli) e diversi mezzi di trasporto (i kayak).
Sarà un caso che Trump non accenni a loro?




TUCIDIDE E BORIS JOHNSON Il lato oscuro dei classici

Commento musicale John Dowland, Lachrimae antiquae


Si tende spesso a sottovalutare i politici contemporanei e sarebbe meglio non farlo. Nel caso di Boris Johnson l’aspetto scarruffato – di un conservatore poi – non aiuta. Ma l’uomo e il politico non sono figli di un conciapelli come Cleone di Atene, si sono formati nelle scuole elitarie di Eton e Oxford, le stesse del suo nemico di partito David Cameron, suo compagno di sbronze e vandalismi nel Bulllington Club.

A Oxford si laurea in Lettere Classiche e approfondisce lo studio di Tucidide. Gli articoli che ho letto a questo proposito hanno approfondito questo aspetto solo fino a un certo punto.

Qui non si tratta dei soliti banali paralleli, tipo Atene-USA e Sparta-URSS, perché, se in Inghilterra si parla di Tucidide, il riferimento va subito a chi ne ha curato una famosa (e ottima) edizione del testo greco: Enoch Powel.

Tanto eccellente come filologo quanto xenofobo come politico, Powell abbandonò il partito conservatore nel 1974 in opposizione al leader del suo partito e primo ministro Edward Heath, che aveva voluto l’ingresso del Regno Unito nella CEE (forse questo ci ricorda qualcosa).

Nel suo bellissimo Otto braccia per abbracciarti Hanif Kureishi ricorda il clima di terrore vissuto dalla popolazione di origine asiatica (e non solo) dopo il famigerato discorso contro gli immigrati tenuto da Powell a Birmingham nel 1968 contro il Race Relation Act, la legge contro la discriminazione razziale voluta dal governo laburista di Harold Wilson. I riferimenti classici di quello che è passato alla storia come Rivers of Blood non mancano, in primis il cupo Libro VI dell’Eneide - “bella, horrida bella/ et Thybrim multo spumantem sanguine cerno”, “guerre, orribili guerre vedo e il Tevere/ che tutto spumeggia di molto sangue” - popolato dalle profetiche ombre dell’Ade (e infatti Powell venne subito rimosso da ministro-ombra della difesa conservatore dal nemico di partito Heath).

Revanscismo, chiusura verso l’esterno e la multiculturalità: quando Boris cita Tucidide manda un messaggio in codice a chi sa che dietro c’è Enoch, ripulito e aggiornato. Inoltre lo stesso Tucidide e i protagonisti della sua Storia (storia, è bene ricordarlo, di una guerra, quella del Peloponneso), così facilmente aureolati come “classici” - come i “classici” in generale, che invece vanno anche e soprattutto analizzati e interpretati nel loro contesto in continua definizione - sono cari, Pericle in primis, a un certo tipo di establishment conservatore per ragioni ben poco democratiche.

Johnson e compagnia, infatti, prediligono l’Atene imperialista della Lega di Delo (nostalgia dell’impero inglese) e il mito dell’“autoctonia” del popolo dell’Attica, su cui fece leva Pericle per chiudere le porte della cittadinanza a coloro che non erano figli di padre e madre ateniese (nel 451/50 a.C.). Legge che poi finì per ritorcersi contro lo stesso Pericle quando rimase col solo figlio avuto dalla compagna Aspasia, donna  eccezionale e libera - contrariamente alle ateniesi doc segregate in casa - ma col difetto di essere originaria di Mileto. La legge, in questo caso, fu mitigata ad personam… Restò comunque la grave eredità a lungo termine di una grande esclusione in termini quantitativi e qualitativi, ma la “nobilitazione” delle masse popolari “purosangue” offerta dal grande capo, democratico sì ma di illustre famiglia aristocratica (la dinasty degli Alcmeonidi), è certo un modello per gli intellettuali favorevoli alla Brexit.

C’è poi il solito refrain di Atene “scuola dell’Ellade” che Tucidide mette in bocca a Pericle, poi echeggiato in grande, “scuola di tutto il mondo”, dall’oratore Isocrate (altro modello per i conservatori di sempre, quelli di una Grecia tutta monumenti candidi, bianchi). Questo mito della “missione civilizzatrice” dei “barbari” farà da modello nelle scuole della vecchia Europa, a tutti i livelli, fino a epoche anche troppo recenti e, nell’impero britannico, vedrà banditori dello spessore di un Kipling (autore tutt’altro che per l’infanzia): The White Man's Burden (Il fardello dell’uomo bianco).

Dulcis in fundo, lo stesso Tucidide non amava affatto la democrazia radicale (oggi lo diremmo fautore di un forte esecutivo, se non di una politica autoritaria, gestito dalle classi privilegiate in una "democrazia" con diritto di voto limitato dal censo). Generale coinvolto nella sconfitta ateniese ad Anfipoli, fu esiliato o si allontanò volontariamente da Atene dividendosi fra i suoi possessi minerari (vere e proprie miniere d’oro) in Tracia e la corte di Archelao I di Macedonia. Salvo poi tornare, con molta probabilità, in incognito ad Atene per sostenere il colpo di stato oligarchico del 411.

Quindi se Boris Johnson parla di Grecia (antica) invia messaggi precisi a una ristretta élite, aggiornando la politica conservatrice più retriva con camuffamenti populisti e demagogici tratti dal suo Tucidide (suo e di Enoch Powell). C’è bisogno di piacere alle masse? Ecco pronto l’esempio di Cleone, il successore “plebeo” di Pericle: eloquio movimentato, aggressivo, probabilmente gli stessi capelli scarruffati.

In nome della Brexit si procede a testa bassa contro l’Unione Europea minacciando e ventilando il peggio: il modello, in questo caso, è tanto la sfrontatezza del giovane Alcibiade, (quello dei dialoghi platonici non tanto il successivo uomo politico più duttile) quanto, più nascosta e sospirata, la condotta degli Ateniesi contro l’isola di Melo (con la fondamentale differenza che Johnson non ha più alle spalle un impero, ma le ultime ombre).

Insomma, per lui la storia greca è un repertorio di maschere da indossare alla bisogna per quella che sembra una commedia, ma rischia di essere una tragedia.

Luca Traini



IL VIAGGIO SEGRETO DEL PAPA IN SCOZIA



Commento musicale Johannes Ockeghem, Missa Au Travail Suis



La cancelleria inglese era al corrente di questa missione alla corte di Scozia, alleata della Francia, e subito aveva sguinzagliato i migliori agenti per bloccare un misterioso personaggio che si sapeva diretto verso i resti del Vallo di Adriano. Una spia. Un umanista. Un’agente doppiamente pericoloso.
In questi tristi tempi di Brexit torno al viaggio enigmatico del giovane Enea Silvio Piccolomini, in seguito papa Pio II (1458-64), in un’Europa divisa e lacerata dalle guerre: dice niente questo?
Nel 1435 era soltanto un diplomatico aspirante scrittore (suo il bestseller erotico del XV secolo: Storia di due amanti). Inviato oltremanica dal cardinale Albergati (ritratto nel capolavoro di Van Eyck fra quelli degli alleati Carlo VII di Francia e Giacomo I di Scozia), nemico numero uno degli inglesi per aver fatto riconciliare il Ducato di Borgogna con la Francia col primo Trattato di Arras dello stesso anno.
La vicenda è narrata con maestria nei suoi Commentari, 2500 pagine letteralmente da divorare per gli appassionati (naturalmente col sollievo finale di non essere vissuti in quell’epoca terribile).
Enea sostiene che il suo incarico era solo un intervento per far riacquistare a un prelato senza nome il favore di re Giacomo… Difficile crederlo. E poi i viaggi in realtà sono due.


Commento musicale Antoine Busnois Anthoni usque limina

Il primo comincia subito male, “accolto come persona sospetta” a Calais e messo sotto custodia. “Ma gli venne in aiuto il cardinale di Winchester che, tornando allora da Arras, ordinò che Enea venisse liberato” (naturalmente i Commentari di un umanista non potevano essere che in terza persona come quelli di Giulio Cesare, tanto più per uno che era stato chiamato non a caso Enea Silvio e si credeva discendente della Gens Iulia per via di una delle solite genealogie leggendarie dell’epoca). Tuttavia, giunto alla corte di Enrico VI, non solo non gli viene rilasciato il salvacondotto per la Scozia, riceve anche l’ingiunzione a fare marcia indietro proprio perché segretario dell’Albergati (“verso il quale nutrivano una particolare inimicizia”). “Tutto ciò era assolutamente ignoto a Enea” (altra bugia). In ogni caso l’occhio attento della spia, dell’umanista e dell’uomo d’affari (i Piccolomini erano stati anche questo) riesce a osservare con ammirazione crescita economica, monumenti e miti di Londra e dintorni in grande ascesa: “Città popolosa e ricchissima; e la nobile cattedrale di San Paolo; e le stupende tombe dei re; e il fiume Tamigi, più veloce quando la marea lo rimonta che quando scorre verso il mare; e il ponte come una città; e il villaggio (di Strood, nel Kent) in cui si dice nascano uomini con la coda; e il monumento che tutti gli altri supera in fama, il dorato mausoleo di San Tommaso di Canterbury, tutto coperto di diamanti, perle e carbonchi”.


Commento musicale Guillaume Dufay, Ave Maris Stella

Il secondo viaggio, dal porto olandese oggi interrato di Sluis, rischia di finire anche peggio, con due tempeste che trascinano la nave fino in Norvegia. Approda sulle coste scozzesi dell’East Lothian dopo ben 12 giorni da incubo. Per sciogliere un voto fatto in mare cammina, inoltre, per diversi chilometri a piedi nudi - a fine autunno! - per ringraziare la Vergine nella chiesa di Whitekirk restando a lungo claudicante a causa dei piedi semicongelati. La missione alla corte di Giacomo I ha comunque successo. E anche il ritratto che fa della Scozia resta memorabile (a parte l’errore di scambiarla per un’isola): “E’ una terra fredda che produce poche messi e, in gran parte è priva di alberi. Nel suo sottosuolo si trova una pietra solforosa (la torba) che gli Scozzesi estraggono per farne fuoco. Le città non hanno mura. Le case in gran parte non sono costruite con calce; i tetti, nei villaggi, sono coperti di zolle erbose; le porte delle capanne sono chiuse da pelli bovine… Si cibano abbondantemente di carne e di pesce, e il pane lo considerano un lusso… Non hanno vino se non quello che viene importato… In Scozia si trovano più ostriche che in Inghilterra, e in esse assai più perle. Esporta nelle Fiandre cuoio, lana, pesce salato e perle. Non c’è nulla che gli Scozzesi stiano a sentire più volentieri delle ingiurie contro gli Inglesi… Gli Scozzesi che vivono nella foresta parlano una lingua diversa… Enea aveva sentito che là crescono degli alberi, sulla riva di un fiume, i cui frutti se cadono  a terra marciscono, se invece nell’acqua, si animano e si trasformano in uccelli. Cercò incuriosito tale prodigio, ma seppe che era tutto falso… Poté invece confermare che in occasione del solstizio invernale – Enea si trovò in Scozia proprio allora – il giorno non dura lassù più di quattro ore”.


Commento musicale John Dunstable, Quam pulchra es

Sensuale anche in vecchiaia (dopotutto veniva da quella Siena da lui definita “città di Venere”), il papa che fa scrivere le sue memorie sostituisce per un attimo Cesare con Ovidio e va col ricordo soprattutto alle Scozzesi: “Gli uomini sono bassi e audaci; le donne di carnagione chiara e belle e inclini all’amore. Baciare una donna è cosa di minor conto lassù che in Italia prenderle per mano”.
E saranno proprio due donne, questa volta inglesi, a offrirsi di salvarlo, una volta attraversata la frontiera, il fiume Tweed, travestito da mercante. Infatti, giunto in un grosso villaggio e ospitato a base di di galline e oche da un sacerdote che sembra uscito dai racconti di Chaucer, dopo aver stupito gli abitanti accorsi in massa che “mai avevano visto il vino e il pane bianco… Fu necessario distribuire tutto il pane e il vino fra quella gente” (eccolo qua in nuce il vicario di Cristo), viene a sapere che per la notte gli uomini si sarebbero ritirati in una torre lontana per ripararsi dalle scorrerie degli Scozzesi…
“Enea li implorò, ma non lo vollero, né vollero portare alcuna femmina, benché ci fossero in quel luogo numerose giovani e donne assai belle. Alle donne, secondo quella gente, i nemici non possono fare alcun male, ché lo stupro non lo considerano un male”. Il termine è pesante e ferisce la nostra sensibilità, ma dal successivo comportamento compassato delle contadine e da quanto detto prima delle Scozzesi sembra che in realtà si tratti più di libertà sessuale femminile, piuttosto diffusa nelle classi meno abbienti dell’epoca e comunque sempre poco comprensibile - e quasi sempre condannatissima come “pratica animalesca” - dai ceti privilegiati.
Fatto sta che “Enea rimase là solo, con due servi e una guida, fra cento femmine, che, fatto un gran cerchio intorno al fuoco, passavano la notte in veglia a mondar canapa e a scambiare lunghe chiacchiere. Trascorsa buona parte della notte, due giovanette condussero Enea, appesantito dal sonno, in una stanzetta con un pagliericcio, pronte a giacere con lui se richieste, perché tale è il costume del luogo”…
Cosa sarà successo? Il futuro papa, che racconta quando lo è già, dice nulla. Anzi, proprio il fatto di aver resistito alle “tentazioni” lo avrebbe salvato dal pericolo: invece dei “ladroni” il trambusto avvertito nelle tenebre con “gran clamore di cani latranti e strepito d’oche” è quello provocato dall’arrivo di amici della gente del posto. Voto di castità quindi esaudito o solo stanchezza post coenam? Sarà andata così? Si sa che Enea non scrisse solo d’amore: ebbe anche figli illegittimi. D’altronde, nella Storia di due amanti, il suo Eurialo, di fronte a una Lucrezia in tunica leggera e aderente, non aveva potuto “resistere oltre all’eccitazione”…


Commento  musicale Gilles Binchois, Adieu,jusque je vous revoye

Il mattino dopo è di nuovo in viaggio e giunge a Newcastle-upon-Tyne, “città che dicono essere stata costruita da Cesare” (irreale: il "suo antenato” non superò mail il Kent). Ma “per la prima volta gli parve là di rivedere il mondo reale e la faccia abitata della terra… (I luoghi che aveva appena visitato) non hanno nulla di simile al mondo in cui abitiamo: sono terre selvagge, incolte e mai visitate neppure dal pallido sole invernale”. E dopo questo ritorno a una luminosità “naturale” un po’ di luce spirituale a Durham “per far visita al sepolcro del venerabile Beda” (e qualche notizia per la sua spedizione l’aveva presa certo dalla sua Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum). Quindi è la volta di York “dove sorge una cattedrale famosa in tutto il mondo per vastità e bellezza” (storica rivale di quella di Canterbury fin dall’XI secolo, vedi per esempio in Eadmero, Historia novorum in Anglia).
La cosa divertente- e inquietante – è che durante questo ritorno in incognito Enea viene accompagnato da un giurista inglese che sputa fuoco e fiamme sul Trattato di Arras e maledice continuamente il cardinale Albergati definendolo “un lupo travestito da agnello”: “Chi non si meraviglierebbe dei casi della fortuna? Enea fu accompagnato e protetto fino a Londra da uno che, se l’avesse conosciuto, l’avrebbe subito gettato in prigione”.
Quella Londra tanto ammirata da cui però nessuno straniero può uscire senza lasciapassare. E allora, finale dolceamaro, non resta che “corrompere le guardie del porto – cosa tutt’altro che difficile con tal sorta di gente – che niente ha più dolce dell’oro”. Il diplomatico travestito da mercante ha salvato la pelle all’umanista: potrà tornare a leggere con comodo la condanna dell’”esecranda fame dell’oro” del suo Virgilio.
Non prima di aver attraversato mezza Europa in otto righe come nulla fosse per raggiungere l’Albergati al Concilio di Basilea: strade e assise da brivido.
Si ammalerà gravemente soltanto due anni dopo a Milano. E anche da questi terribili “settantacinque giorni di febbre ardente” riuscirà a riprendersi. Per continuare i suoi intrighi e venire incoronato, prima ancora che pontefice, poeta il 27 luglio 1442 dall’imperatore Federico III. Ma più che il versificatore latino, il cantore di una nuova Cinzia dopo quella di Properzio, resta il grande prosatore che lascerà la poesia agli architetti della sua Pienza rapito dai ben più prosaici impegni di papa e soprattutto - e sempre - di politico.




CANTERBURY TALE
Eadmero, Anselmo d'Aosta e i figli di Guglielmo il Conquistatore
Il dramma sacro della politica
(Parte prima)

Commento musicale Godric of FinchaleSainte Nicholaes, Godes Druth

"Anselmo, del quale nessun uomo è mai stato più tenace nella giustizia, nessuno così scrupolosamente erudito,

nessuno così profondamente spirituale, lui padre della patria, lui esempio per il mondo"

Guglielmo di MalmesburyStoria dei re d'inghilterra

"Eadmero ha esposto con tale chiarezza ogni cosa da farla in certo qual modo rivivere davanti ai nostri occhi"

Guglielmo di Malmesbury, Storia dei vescovi d'Inghilterra




Dopo Re Artù e prima di Robin Hood il mondo tutto concreto, ma non meno affascinante, di storia e politica inglese a cavallo fra XI e XII secolo. Narrato con rigore, passione - e senza miracoli - da Eadmero, discepolo fedele del teologo aostano quanto della musa Clio (peccato che alla lunga provocò la rottura col maestro, poco amante di storici e agiografi). Peccato da noi perdonatissimo, specie in questi brutti tempi di Brexit, perché fonte insostituibile per un periodo poco noto della mia amata storia della Gran Bretagna. Poco conosciuto specie in Italia (Valle d’Aosta esclusa): a scuola tutto si ferma con battaglia di Hastings e Arazzo di Bayeux e si riparte con le Crociate e un Riccardo Cuor di Leone che si fatica a sottrarre alla solita aura leggendaria.

La sua Historia novorum in Anglia è storia di tutta una serie di novità.

Una nuova dinastia normanna, scandinava ma nulla a che fare con la dominazione danese di Canuto il Grande, perché ormai francese, con latino e lingua d'oïl a corte.

Una nuova dominazione benedetta da papi riformatori come Alessandro II, che da tempo cercavano di ricondurre il clero anglosassone sotto l’egida di Roma sul modello di Gregorio Magno.

E un nuovo contrasto fra potere temporale e spirituale che culminerà nel 1170 con l’assassinio del più illustre dei successori di Anselmo all’arcivescovado di Canterbury: Thomas Becket (anche questo idealizzato nel capolavoro teatrale di T. S. Eliot, ma c’era da combattere il nazismo).

Una mappa di Canterbury della metà del XII secolo

Procediamo con ordine. Eadmero è di famiglia nobile del Kent e viene avviato fin da piccolo alla vita di monaco nella sua Canterbury dove, da subito, diventa affamato di racconti dei confratelli più anziani. Lo storico in nuce è già qui: “Sin dalla prima infanzia era mia abitudine osservare con scrupolosa attenzione e imprimere nella mia memoria qualsiasi novità si presentasse, soprattutto nell’ambito della Chiesa… Mi ricordai delle parole che un tempo avevo sentito, quand’ero ancora fanciullo, dalla bocca degli anziani della nostra Chiesa, ossia Edvino, uomo  mirabile, Blacmanno, Farmanno e alcuni altri. Questi uomini degni di memoria erano soliti raccontare del tempo della loro gioventù” (Storia dei tempi nuovi in Inghilterra, II, 973, Jaca Book, 2009).

In tutta la sua opera, che inizia col classico elogio premoderno del passato – quanto sono solito chiamare “il sol dell’avvenuto” – affiora, in simbiosi con la solita nostalgia per i “bei tempi andati”, quelli del clero inglese pre-invasione (“il gloriosissimo re Edoardo… Dunstano, vescovo di Canterbury, tutto plasmato di virtù”), una diffidenza ben poco celata verso i non autoctoni. Quindi cosa finisce per legare con devozione filiale questo anglosassone doc a uno “straniero” come Anselmo?

San Dunstano orante (miniatura dal Glastonbury Classbook, XI sec)

C’è da sottolineare che la dominazione normanna aveva portato con sé nuovi arcivescovi  da oltre Manica (e l’ultimo dei locali, Stigando, non aveva certo brillato in santità): prima Lanfranco da Pavia e poi lo stesso Anselmo. Come ha ben sottolineato Charles Burns (in Storia religiosa dell’Inghilterra, La Casa di Matriona e Fondazione Ambrosiana Paolo VI, 1991): “In nessuna delle epoche precedenti le vicende della Ecclesia Anglicana si intrecciarono così strettamente a quelle della chiesa latina occidentale come nel periodo che va dall’invasione normanna fino alla morte di Giovanni Senzaterra nel 1216… con la cessione del suoi regno in feudo alla Chiesa”. Con l’avvertenza di Coloman Étienne Viola (in Anselmo d’Aosta educatore europeo, Jaca Book, 2003), che evidenzia bene i limiti di questo riavvicinamento della Chiesa inglese a quella romana sotto la dominazione normanna: “Guglielmo il Conquistatore regnava già secondo gli usus atque leges, quelle leggi non scritte, semplici consuetudini che gli davano un potere quasi assoluto anche nel campo dei beni ecclesiastici… Non lasciava deliberare o vietare alcunché al primate del regno, cioè all’arcivescovo di Canterbury, se non era conforme al volere reale e se non era ordinato in primo luogo dal re stesso”.

Sant'Anselmo d'Aosta, canonizzato nel 1163 e proclamato dottore della Chiesa nel 1720, in una delle rarissime rappresentazioni
quasi coeve: qui è ritratto con Matilde di Canossa in una miniatura della seconda metà del XII sec.

Le radici dell’affetto di Eadmero e del dramma politico-religioso di Anselmo trapelano da queste righe, accomunate dal deciso sostegno della primazia di Canterbury su tutte le altre sedi episcopali in terra inglese. Un bel problema, perché le fonti storiche a fondamento di questa affermazione, in primis la Storia Ecclesiastica del mio caro Beda (VIII sec.), erano tutt’altro che chiare, anzi. Papa Gregorio Magno, a cavallo fra VI e VII secolo, aveva previsto per il suo inviato Agostino un arcivescovado a Londra, ma questi aveva potuto esercitarlo solo nella capitale del re di cui era ospite, Etelberto del Kent, cioè Canterbury. Aveva inoltre comandato che stabilisse un episcopato anche a York, altra città importante nella memoria che avevano dell’impero romano, ma che non sarebbe rimasto in subordine alla morte dello stesso Agostino. Progetti di difficile attuazione anche per il forte controllo esercitato anche allora dal potere regio (sembra il peccato originario del cattolicesimo inglese). Come ha sottolineato il grande Peter Brown in quel capolavoro che è La nascita dell’Europa cristiana (Laterza, 1995): “La comunità monastica di Canterbury fu ridotta ad assomigliare a una residenza recintata di privilegiati stranieri – persone apprezzabili ma potenzialmente disgreganti che era meglio tenere sotto sorveglianza vicino alla corte reale – e non le fu consentito di ricreare quell’estesa rete di episcopati ‘romani’ com’era nei voti di Gregorio”.

Quanto resta oggi dell'Abbazia di Whitby

Era stato nei fatti, in seguito a tutta una serie di convergenze di natura politica, che, nella seconda metà del VII secolo, Teodoro, greco dell’Asia Minore bizantina inviato sull’isola da papa Vitaliano, era diventato “il primo arcivescovo cui tutta la chiesa degli Angli acconsentì di obbedire” (Beda il Venerabile, Storia ecclesiastica degli Angli, IV,2, Città Nuova Editrice, 1987). Grazie anche all’operato di un altro coltissimo prelato, il berbero Adriano, che a Canterbury aveva creato una vera e propria scuola dove “sia l’uno che l’altro, istruiti a fondo nelle lettere sia sacre che profane, raccolta una schiera di discepoli, diffondevano ogni giorno fiumi di dottrina  salutare per irrigare i loro cuori. Infatti insieme allo studio delle Sacre Scritture fornivano nozioni di arte metrica, di astronomia, di computo ecclesiastico (per calcolare la data della Pasqua). Ne è prova che alcuni dei loro discepoli conoscono la lingua greca e latina come la loro lingua madre” (Beda il Venerabile, come sopra). Il vescovo poeta Aldelmo di Malmesbury (639-709), il primo grande classico della letteratura anglosassone - di cui abbiamo già parlato in La scuola misteriosa e la grammatica inquietante di Virgilio Marone Grammatico – è uno dei migliori prodotti di questo insegnamento. Grazie a Teodoro e Adriano col Sinodo di Whitby (664) l’influenza della Chiesa di Roma si sostituisce a quella irlandese. Ma il dominio di Canterbury resta pur sempre de facto e Lanfranco da Pavia dovrà fare non poche acrobazie (chiamiamole così) per giustificarlo al Concilio di Windsor del 1072. La questione resterà ancora aperta durante l’episcopato anselmiano e il teologo dell’esistenza a priori di Dio dovrà faticare fino agli ultimi giorni per affermare questa pratica tutta a posteriori.

Eadmero ha stima di Lanfranco per le qualità intellettuali e organizzative, ma non c’è feeling (penso anche per il suo ruolo attivo nella repressione della rivolta antinormanna del 1075). Con Anselmo, invece, è tutto diverso. Il carattere dell’aostano è decisamente più affabile. L’umiltà, nonostante il genio teologico, proverbiale. La sensibilità verso la tradizione ecclesiastica inglese, affinata da tre viaggi nell’isola prima di quello fatidico del 1092, più duttile (Eadmero avrà pensato a un nuovo Gregorio Magno con la sua connessione leggendaria fra “Angli” e “angeli”).

E, soprattutto, non abbasserà mai la testa docilmente ai re anglonormanni con cui avrà a che fare, Guglielmo II ed Enrico I (questo scontro, specie col primo, dà vita alle pagine più appassionanti dell’Historia).

Arriviamo quindi al primo dramma, quello dal finale già scritto. Anselmo collaborava da tempo anche se a distanza con l’arcivescovo Lanfranco, era perfettamente a conoscenza della politica ecclesiastica dei duchi normanni, con cui aveva già avuto modo di puntare i piedi e mettere in gioco il suo prestigio, e sapeva di essere il candidato principe alla successione sulla cattedra di Canterbury. Quando questa, nel 1089, resta vacante – e lo rimane per più di quattro anni! – si guarda bene dal traversare la Manica.  Viaggia verso la sessantina – è dunque già molto anziano per l’epoca – e il suo desiderio, avendo già dimostrato le sue capacità amministrative come priore del monastero di Le Bec, è quello, diremmo oggi, di una tranquilla pensione tutta dedicata ai suoi adorati studi speculativi. Dopo l’enorme successo di Monologion Proslogion, solo per fare qualche titolo, ha già in mente altre opere.


È un'altra lettura quella preferita dai re anglo normanni, il Domesday Book, letteralmente “Libro del Giorno del Giudizio”, con i dati del censimento catastale del 1085-86, e quindi anche un altro il giorno del giudizio prediletto, quello in cui riscuotere tasse decisamente aumentate che fanno di questi sovrani fra i più ricchi nell’Europa dell’epoca.

È il nuovo contesto storico inaugurato da Gugliemo II nel 1087 a far precipitare la situazione. Un nuovo quadro che in realtà ha molto di vecchio. Costretto a far fronte a cospirazioni interne (lo zio vescovo Oddone) ed esterne (il fratello Roberto duca di Normandia) e quindi a far cassa con una rapacità degna del padre (ma senza il suo prestigio), il giovane re si appropria di tutta una serie di terre ed entrate della Chiesa di Canterbury dopo la morte di Lanfranco e, su suggerimento del consigliere Rainulfo Flambart (ironia della storia, un vescovo), lascia di proposito il seggio vacante. Il rischio di nuove sollevazioni e lo stato endemico di guerra con Scozia e Galles fanno sì che gli espropri, d’altro canto legittimi per il potere laico, non vengano meno, creando un malcontento diffuso nel clero meridionale dell’isola. C’è da chiedersi quanto Guglielmo pensasse di poter ritardare la nomina del nuovo arcivescovo. Eadmero, che naturalmente lo detesta, gli mette in bocca parole pesanti degne di un Enrico VIII o di un dramma shakespeariano: “Ma, per il Sacro Volto di Lucca – così infatti aveva l’abitudine di giurare (interessante questa prima singolare liaison anglo toscana) – nessuno sarà arcivescovo eccetto me”. Dietro le quinte la realtà era più complessa. L’uomo poteva permettersi di essere in privato poco religioso se non addirittura scettico: ho idea che quando Anselmo parla di “infedeli” nel Cur Deus homo, oltre a rivolgersi agli Ebrei invitati in Inghilterra e protetti dai re normanni, si riferisca  proprio a lui quando afferma “Se si chiama ingiusto l’uomo che non rende all’uomo quanto deve, molto di più è ingiusto l’uomo che non rende a Dio quanto deve”. Il sovrano cattolico no, anche se una bella fetta dell’episcopato era tutt’altro che scontenta di una chiesa inglese acefala, non poteva rimandare all’infinito il ripristino di una consacrazione che durava da mezzo millennio.

A smuovere le acque ci pensa, guarda caso, uno dei magnati dell’isola, il normanno Ugo d’Avranches, conte di Chester, vecchio compagno d’armi del Conquistatore e cane da guardia del riottoso Galles. Tre inviti all’amico Anselmo per sovrintendere a un nuovo monastero, reiterati in ragione di una grave malattia da cui, all’arrivo dell’aostano (Anno Domini 1092), sorte vuole che si sia ormai ripreso. Eadmero – e non ci si poteva attendere diversamente – dà una spiegazione tutta religiosa a viaggio, guarigione e speranza rinnovata del clero inglese. Noi, che non dubitiamo del fiuto di una vecchia volpe come il conte così come della rassegnata consapevolezza politica dell’abate di Le Bec, possiamo aggiungere che si trattava con grande probabilità di una mossa per cercare di riportare all’ordine il gioco azzardato del re sullo scacchiere inglese.

[...]

Luca Traini

Continua in https://lucatraini.blogspot.com/2020/06/canterbury-tale.html




A.D. 395: A MILANO SI DECIDONO LE SORTI DELL'IMPERO



E non solo, perché la definitiva separazione fra parte orientale e occidentale ha segnato profondamente e continua a segnare l’Europa.
Tutto venne deciso in una gelida notte d’inverno, l’ultima dell’imperatore Teodosio. Nel missorio che lo ritrae c’è una frattura... I presenti all’agonia sono tutti lì: da Arcadio (futuro – e mediocre – imperatore del ricco Oriente) a Onorio (altrettanto mediocre successore nel più instabile Occidente). Con la mediazione del vero dominus dell’unico potere allora non in crisi: il vescovo Ambrogio. Manca solo l’ultimo vero difensore di Roma, il generale “barbaro” Stilicone (la cui tragica storia ho già trattato in https://lucatraini.blogspot.com/2014/12/il-dittico-di-stilicone-400-d-c.html).
Nel mio romanzo Il Dittico di Aosta descrivo così quel passaggio epocale:
“l’impero restò unito: 4 mesi. Al termine il corpo imbalsamato di Teodosio già partiva  alla volta di Costantinopoli. Era morto di idropisia il 17 gennaio a Milano. E l’ultima notte, chissà con quale fatica, aveva detto qualcosa. Pochi, pochissimi l’avevano ascoltato. Certamente Stilicone, il Vescovo Ambrogio… Non aveva neppure 50 anni e ce n’erano più di 1000 di cui rendere conto.
Se fu spesa qualche lacrima, fu rattrappita dal gelo”.




L'ANTRO DELLE NINFE

Vie di fuga (con e senza ritorno) nella filosofia, nella politica e nell’arte

Leggo e rileggo il libro di Porfirio (III sec.), ogni volta tormentandolo di note (una specie di esorcismo), perché il suo pensiero neoplatonico è tanto affascinante quanto riprovevole, con quella fuga disperata dal mondo materiale. Perché testimonia al livello più alto la crisi devastante di un mondo e di un modo di pensare che non ho proprio nessuna voglia si ripeta oggi. Noi contemporanei abbiamo e dobbiamo avere la forza di comprendere e assorbire nei valori migliori di sempre, quelli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948 e successivi aggiornamenti), qualsiasi cambiamento. Quando affronto queste pagine mi ronza sempre nelle orecchie quel passaggio sublime nella forma e ripugnante nel contenuto del suo maestro Plotino: “Come sulle scene del teatro, così dobbiamo contemplare anche [nella vita] le stragi, le morti, la conquista e il saccheggio delle città come fossero tutti cambiamenti di scena e di costume, lamenti e gemiti teatrali.” (Enneadi III 2,15, trad. G. Faggin, Rusconi). Gli orrori dell’anarchia militare di Roma nel III secolo ridotti a un gioco di ombre stile grotta di Platone. Come non fosse già terribile la vita in tempo di pace per la stragrande maggioranza della popolazione, schiavi in primis. E io mi immagino tra questi, non un senatore (i miei amati musei di arte antica dovrebbero esplicitarlo che noi moderni facciamo la nostra visita di rovine da privilegiati). Nella diffusa idealizzazione di tutto ciò che è antico, tesa a presentarne solo gli aspetti positivi, specie nei social, spesso in funzione critica di elementi e situazioni del presente (vedere soprattutto il negativo della contemporaneità è una vecchia, peggio, ancestrale abitudine dura a morire), è bene che si facciano vivi esperti del settore in grado di contestualizzare queste importanti eredità culturali in tutte le loro sfumature senza pregiudizi rispetto al loro valore storico, ma soprattutto senza predisposizioni acritiche riguardo a tutta la complessità, nel serio e documentato dosaggio di giudizi positivi e negativi, dei tempi che stiamo attraversando. Quindi, quando si fa l’ingresso nell’antro delle ninfe, cantato da Omero, reinterpretato da un filosofo di mille anni dopo - e anche preda di esaurimenti nervosi e manie suicide in cui Leopardi volle travasare in modo perfetto la sua infelicità - bisogna fare attenzione.

"L'antro di Itaca descritto in questi versi da Omero è un enigma:
In capo al porto vi è un olivo dalle ampie foglie:
Vicino è un antro amabile, oscuro,
Sacro alle Ninfe chiamate Naiadi;
In esso sono crateri e anfore
Di pietra; lì le api ripongono il miele.
E vi sono alti telai di pietra, dove le Ninfe
Tessono manti purpurei, meraviglia a vedersi;
Qui scorrono acque perenni; due porte vi sono:
Una, volta a Borea, è la discesa per gli uomini,
L'altra, invece, che si volge a Noto, è per gli dei
E non la varcano gli uomini, ma è il cammino degli immortali".
(Porfirio, L'antro delle ninfe, 1,1-15, a cura di Laura Simonini, Adelphi, 1986)

Infatti non si tratta solo di una lettura esegetica assolutamente decontestualizzata, ma anche - questa è la mia convinzione – di un messaggio politico neppure troppo velato. Nel canto dell’Odissea in questione, il XIII, Ulisse viene riportato a Itaca dai Feaci e lasciato sulla spiaggia di Phorkys mentre dorme un sonno profondo. Sulla cima del dirupo che contorna il porto si trova il nostro antro con accanto un ulivo che domina il paesaggio: ai suoi piedi i marinari di Alcinoo sistemano le ricchezze dell’eroe greco (“bronzo, oro e molte vesti”). Questi, al risveglio, non riconosce subito la sua isola e solo grazie all’ennesimo travestimento di Atena comprenderà con gioia di essere tornato in patria, di aver conosciuto la verità della sua situazione e di essere tornato a quello che era l’obiettivo principale, il fondamento della sua attività di uomo che ha conquistato quanto necessario per tornare alle radici della sua esistenza arricchito. Naturalmente non solo da un punto di vista materiale per Porfirio. Il suo Odisseo nasconde le sue ricchezze nell’antro sacro e si prepara, sotto le mentite spoglie di un mendicante, a ristabilire il suo potere a corte contro gli usurpatori, i Proci. Come non leggere nella riscossa di questo falso figlio di Penìa (la dea della povertà madre di Eros nel Simposio platonico) quella del mondo pagano caro al filosofo contro gli “intrusi” cristiani? Se la datazione de L’antro delle ninfe, operazione tutt’altro che facile, si può far risalire ai primi tempi della frequentazione di Plotino da parte di Porfirio, ecco che allora troviamo un giovane discepolo che non ha ancora assorbito la fondamentale rinuncia alla vita politica del maestro, ma cerca di rispondere ai drammi dell’anarchia militare senza accettarli come fantasmi  e proponendo una via per una possibile restaurazione ideologica dell’ordine sulla base di una nuova lettura della tradizione. Non è un’interpretazione campata per aria, lo dimostra il carattere sanguigno dell’autore che, una volta scomparso Plotino, riaccenderà la lotta contro il cristianesimo - probabilmente durante l’impero di Aureliano, il costruttore delle mura di Roma (della Penelope ideale assediata) - scrivendo un violentissimo Contro i cristianiCi torneremo.

"Né gli antichi costruivano templi senza simboli mistici, né Omero espose a caso il suo racconto su questo soggetto.
Più si potrà mostrare che quanto riguarda l'antro non è finzione di Omero, ma era stato consacrato prima di lui, più questo luogo sacro si rivelerà un tesoro di antica saggezza: per questo merita un'attenta ricerca ed esige che sia rivelato il carattere simbolico della sua consacrazione." (L'antro delle Ninfe 4, 9-17).

Ora analizziamo la grande parafrasi del filosofo in dettaglio. Perché quanto alluso dal mito cantato dall’autore o dagli autori dell’Odissea viene soavemente - e disperatamente – ricomposto come un cadavere a cui ridare vita contro il Lazzaro – altro mito, ma vincente – dei cristiani. C’è all’inizio tutta una concretezza ingannevole nel definire questo antro come un assurdo geografico (testimone il filosofo pitagorico Cronio, di cui non ci è rimasto nulla) e una stranezza materiale - come potrebbero tessere le ninfe Naiadi un telaio di pietra? – che altro non è che una tela di ragno dove restare prigionieri di un mondo altro di formidabili simbologie. La corsa verso l’astrazione è un formidabile crescendo che trae spunto dalla presenza nella grotta di api e miele. Quelle api simbolo di purezza che si credeva nascessero per generazione spontanea dal cadavere di un bue (ma anche da un leone, come nel caso biblico che ho già affrontato in La leggenda diAlessandro Magno in Valle d’Aosta): la “bugonia” cantata da Virgilio nelle Georgiche e da Ovidio nei Fasti. Al bue viene poi connesso il toro rappresentato in altri antri, quelli mitraici (così cari all’élite militare), immagine dell’uccisione del toro primordiale, fecondatore di vita, da parte del dio Mitra (“tauroctonia”, per sottrarlo allo spirito del male Arimanios). Api e bovini simboli di rinascita oltre la morte materiale. Ma l’analisi di Porfirio, la cui filosofia al contrario di quella di Plotino è impregnata  di viva partecipazione ai culti misterici, non si contenta di questa affermazione di fondo. Deve ancora fornire un’interpretazione di quella che per lui è la giusta condotta dell’uomo che sa e giustificarla alla luce dell’ordine immateriale che regola il cosmo, l’universo retto da un ordine.

"Consideravano l'antro simbolo non solo, come si è detto, del cosmo, cioè del generato e del sensibile,
ma l'oscurità degli antri li indusse  a vedervi il simbolo anche di tutte le potenze invisibili,
la cui essenza appunto non è percepibile allo sguardo." (L'antro delle ninfe, 7, 10-14).

Rielaborando la descrizione delle due porte, quella in discesa per gli uomini e l’altra per l’ascesi degli dei (di cui molto probabilmente sono reminiscenza le quattro aperture del Mito di Er nel X libro della Repubblica di Platone), il filosofo neoplatonico passa oltre l’esposizione del dato di fatto della poesia omerica, trasfigurando le due aperture come emblema della natura e sbocchi di due opposte condotte di vita: “Dato quindi che ovunque le due porte sono simbolo della natura, anche l’antro di Omero non ha un solo ingresso, ma due porte, diverse l’una dall’altra a somiglianza della realtà, e una si addice agli dei e ai buoni, l’altra ai mortali e ai più ignobili” (L’Antro delle ninfe 31, 1-6).

Nascita di Atena, tripode attico a figure nere del VI sec. a.C.

Concludendo con l’analisi dell’immagine iniziale dell’olivo, con un uso sapiente dell’artificio retorico dell’“hysteron proteron” nell’ambito della gerarchia dei contenuti, l’esegesi porta a compimento trionfalmente il suo “metodo” ( il suo "cammino di ricerca”): "Non si tratta, come si potrebbe pensare, di una pianta germogliata lì per caso: essa abbraccia e dà unità all'intero enigma dell'antro. [...] È simbolo della saggezza di dio. L'olivo, infatti, è pianta di Atena e Atena è la saggezza. Poiché la dea è nata dalla testa del padre (Zeus), il teologo pensò che il luogo adatto per l'olivo fosse consacrarlo in capo al porto; con ciò volle significare che l'universo non è formazione spontanea o frutto di un caso irrazionale, ma è realizzazione perfetta di natura intelligente e di sapienza, dalla quale è separato come lo è l'olivo, che si erge staccato ma vicino all'antro e in capo a tutto il porto. [...] Giunti a questo antro, dice Omero, bisogna deporre ogni possesso esterno, denudarsi e assumere l'aspetto di un mendico dal corpo avvizzito, gettare ogni cosa superflua, staccarsi dalle sensazioni e allora deliberare con Atena, seduto con lei ai piedi dell'olivo, su come eliminare tutte le passioni che traviano la propria anima. [...] Non bisogna pensare che tali interpretazioni siano forzose [...] ma pensando quanto grandi furono la sapienza degli antichi e l'intelligenza di Omero e la sua perfezione in ogni virtù, non si disconosca che egli ha nascosto l'immagine di realtà più divine sotto la finzione di una favola." (L'antro delle ninfe, 32-36).

Mosaico Socrate e i Sette Saggi, Baalbek, Libano (III sec. d.C.)

Bisogna ammetterlo: la bellezza della prosa di Porfirio e dei versi di Omero sono una rapsodia perfetta in cui restare intrappolati per essere poi assorbiti dalla lettura allegorica del testo poetico. Volutamente, perché i poemi omerici non erano solo questo: erano lo specchio in cui amava riflettersi la cultura greco-romana e brama anche la nostra, se ci facciamo prendere dai sensi e non usiamo la ragione (e qui sono io a usare gli strumenti del filosofo come lui gli esametri del poeta). Quando il neoplatonico “pagano” del III secolo intraprende una lettura allegorica di quella che è la sua tradizione culturale per eccellenza lo fa sullo stile e in sfida con quanto due secoli prima Filone di Alessandria aveva approcciato l’Antico Testamento della Bibbia (primo di una lunghissima serie). E Porfirio, che era fenicio di Tiro, nell'odierno Libano (il nome originario era Malco, “re”, e quindi la porpora del nome ellenizzato gli era congeniale), conosceva l’ebraico e la traduzione in greco di Antico Nuovo Testamento (lo testimoniano bene i frammenti rimasti del suo Contro i cristiani). Nulla era a caso, come tipico della letteratura antica. L’antro delle Ninfe Naiadi, quelle delle sorgenti da cui tutto ha origine, diventano per così dire Oceanine, perché la loro grotta diventa simbolo del cosmo, dell’universo ben ordinato tanto caro al pensiero ellenico. Desiderio di ordine tanto più sentito in un’epoca di continui e profondi rivolgimenti. Se L’antro era stata una proposta costruttiva, il testo contro la nuova religione orientale è ormai “destruens”, combatte una guerra che sembra – ed è – già persa.

Per la difficoltà di essere filosofi nella vita di tutti i giorni, dura realtà concreta che Porfirio sperimentò sulla propria pelle, rimando alle pagine magistrali di Peter Brown: "Un filosofo non era solo un uomo che conosceva la filosofia. Era chiamato a 'essere' un filosofo. Ed era un filosofo perché era divenuto padrone delle proprie passioni: poteva parlare con autorevolezza a coloro che non lo erano, come una guida spirituale e, se necessario, come un censore.[...] Il mondo del potere era contrassegnato da un'agghiacciante assenza di freni legali alla prassi amministrativa. Il sistema giudiziario era andato facendosi sempre più brutale. [...] La schiavitù rimaneva una scuola domestica di crudeltà. I logoi erano la sola garanzia di salvezza che le classi colte sentivano di far propria. 'Con parole misurate - scriveva Gregorio di Nazianzo - tengo a freno la mia rabbia'. Le parole erano una riserva d'ordine in un mondo violento. [...] Era un mondo in cui ci si attendeva che ciascuno apparisse equilibrato quanto le proprie frasi. [...] Era solo in questi termini che la cruda realtà del potere poteva venire articolata e assorbita. Il controllo del potere era reso intellegibile nei termini di un sistema culturale su cui le élites greche avevano prodigato, fino al 400 d.C., un'ingente fatica simbolica".
(Il filosofo e il monaco, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. XIX).

Che sia stato scritto sotto Aureliano o abbia gettato benzina sul fuoco delle persecuzioni di Diocleziano il risultato è lo stesso. Il fallimento del tentativo di fermare il tempo storico all’ombra della metafisica tradizionale, nell’estremo connubio di Platone e Aristotele con vecchi e nuovi culti misterici, insomma tutto questo calderone fondamentalmente riservato a un’élite di iniziati, è equivalente alla scarsa fortuna in campo economico del ben più strutturato calmiere dei prezzi del 301 d.C.. La diffusione e, soprattutto, l’organizzazione del cristianesimo a livello di massa, di cui abbiamo già scritto in Palladio, “La storia lausiaca”, era ormai tale da riuscire a resistere alle stragi dei tetrarchi. Soltanto Giuliano, ancora più in ritardo e con pochissimo tempo a disposizione (361-363 d.C.), tenterà di riprodurre qualcosa di simile cercando di pianificare a livello istituzionale una specie di credo pagano unificato. Vanamente, anche perché si trattava di un Olimpo troppo affollato e differenziato.

Di iniziatico e neoplatonico resterà la nuova immagine dell’imperatore, ormai sacralizzato non più solo nelle province e celato, insieme alla sua corte, agli occhi dei comuni mortali, che emana i suoi editti da una realtà superiore a quella terrena come una specie di Uno plotiniano. 

I cristiani risolveranno questo problema dichiarando Costantino “uguale agli apostoli” e le nuove basiliche dei loro vescovi raccoglieranno migliaia di discepoli (numeri che gli antichi filosofi non si erano mai sognati).

Di ninfe restò solo santa Ninfa, compatrona di Palermo, dalla storia assai confusa ambientata nell’epoca di Costantino, probabile invenzione del XII secolo e comunque surclassata dal successivo culto di santa Rosalia.

Ecco il nostro filosofo immaginato a colloquio con Averroè in una miniatura del XIV sec.

Poi, come capita nella storia - quella concreta, umana - dal pensiero di Porfirio e di Plotino prendono a piene mani proprio quei rivali cristiani per potenziare, in modo implicito, la loro egemonia sul mondo (come detto, avevano strutturato i mezzi materiali per farlo). E in modo esplicito per il medioevo occidentale resta solo la radiografia di Porfirio, la logica tradotta da Boezio, la parte utile, stile quanto capiterà per la dialettica hegeliana col pensiero marxiano e marxista (diverso il caso in Oriente con il mio caro Michele Psello che, in pieno XI secolo, elabora un compendio de L’Antro nella cosiddetta “Università di Costantinopoli”).

Fino a quando il neoplatonismo antico non viene rispolverato per quello nuovo di Marsilio Ficino a conclusione dell’Umanesimo di Firenze. Ed è proprio durante la crisi di quest’ultimo, con un Savonarola di cui Lorenzo, per quanto Magnifico, non riesce più a liberarsi, che un pittore dalla sensibilità raffinata quanto vulnerabile come Botticelli cercherà un’estrema sintesi alla pari fra eredità pagana e cristiana inserendo la Natività proprio nell’antro di Porfirio, in un’Adorazione dei magi (1490-1500) dalla composizione tormentata (vedi la bellissima analisi di Giacomo Montanari). Tentativo non riuscito (anche questo). Quadro mai portato a termine.

Sarebbe arrivato il fatidico 1492 con la morte di Lorenzo de’ Medici e l’America di Colombo (all’inizio scambiata per il Paradiso Terrestre). Sarebbero giunti il Rinascimento del ‘500 e poi la Controriforma, con l’eredità “pagana” confinata dietro le quinte. E poi la filologia tedesca dell’Ottocento dove gli studiosi avrebbero viaggiato in treno, come gli eserciti. Fino al testo tradotto in italiano per Adelphi che oggi ho in mano e che richiudo nella speranza, che sarà anche cristiana ma per me è soprattutto quella di Ernst  Bloch, di non ritrovarci ad avere a che fare con nostalgici, predicatori fanatici e rispettivi eserciti. Con l'ennesima crisi materiale e di pensiero e una fuga, meravigliosa ma inutile, impossibile in un nuovo “antro delle ninfe”.

Luca Traini



VALCAMONICA: UN "MIRACOLO DIGITALE"



Commento musicale M. A. CavazzoniRicercare per organo 




All'inizio della strada per il parco archeologico di Naquane il cielo minaccia pioggia. Troviamo rifugio nella Chiesa delle Sante Faustina e Liberata, dove sei impronte di mani in una pietra cristiana fanno a gara con le antiche incisioni rupestri. L'emozione che toglie il fiato oggi è tutta per il genio protostorico, "pagano". Il miracolo cristiano delle sante, che insieme al sacerdote Marcello pare bloccassero la frana di questo masso ponendo fine a un'alluvione, resta sullo sfondo, in un corpo separato della chiesa, ma testimonia una continuità formale nell'abissale - ma storica - differenza di contenuti. E quasi certamente la pietra è un'eredità neolitica ricontestualizzata che nulla ha a che fare con la leggenda, una sorta di esorcismo contro eventuali ricadute nel paganesimo in momenti difficili. Un doppio significato affiora anche in questo affresco, sospeso come una nube colorata per salvarsi da quella specie di diluvio. E' uscito il sole e nelle edicole all'ingresso le due sante sembrano sul punto di tenersi per mano, come due luminose presenze ancestrali.

Testo e foto di Luca Traini 




SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS (AOSTA)
Area e aura archeologica fra mito e storia

Il sito, scoperto nel 1969, su cui oggi è in costruzione il Parco Archeologico

Scrive Silio Italico:
“Ercole affrontò le vette inviolate:
 Fu il primo. Gli dei vedono stupiti
Come fende nubi, fracassa alture,
Doma possente rupi mai battute“.
Vagava da oriente a occidente cercando fra i ghiacciai la via per i Giardini del Tramonto, dove le Esperidi avrebbero custodito gelosamente i propri frutti (forse delle arance).
O forse faceva il tragitto opposto, portando verso il piano una mandria di buoi, un po’ come oggi si fa in Valle d'Aosta durante la “désarpa” (i suoi però doveva averli rubati a un esseraccio con 3 teste 3 busti 6 braccia dalle parti delle Canarie o giù di lì).
Mah, fatto sta che:
“Verrai anche fino alle schiere dei Liguri
Che ignorano la paura, lo so bene,
E tu li combatterai, ma per quanto
Bellicoso e impetuoso, patirai”.
Questo, secondo il grande Eschilo, aveva profetizzato lo stesso Prometeo al nostro eroe, che lo aveva appena liberato.
E sempre in cerca di agrumi, Ercole si sarebbe poi diretto alla volta di Genova o Marsiglia, lasciando in Valle uno di cui si fidava, Statiello o Statelio o Statielo, il cui figlio, Cordelio o Cordelo, avrebbe fondato Cordelia o Cordella o Cordela, città madre di Aosta - e un popolo di figli, i Salassi, probabile fusione di Liguri e Celti, prima armati di bronzo, poi di ferro.
E se risali 5.000 anni indietro la lingua di asfalto di Via Saint-Martin-de-Corléans fino alle pendici di Regione Chabloz, dietro la chiesa del santo, dentro lo scavo archeologico, nei resti di pietra, in 12 pozzi, nell’impronta lasciata da 22 pali di legno, nella cenere di crani bovini bruciati troverai la conferma storica di una migrazione ancestrale dall’Anatolia, dal Caucaso.
La stessa via degli Argonauti di Ercole a ritroso. La stessa semina di denti degli eroi, degli agricoltori, dei draghi che stanno a guardia dei fiumi, come le lastre di pietra, da Gilgamesh sumero ai monumentali guerrieri qui onorati in più di 40 stele antropomorfe, scolpiti con vesti e borsette raffinate proprio sotto Via Parigi.



Frammento dopo frammento, tessera dopo tessera, come per il mosaico della Cattedrale: lì sono rappresentati e li devi risalire: il Tigri, l’Eufrate, seguire l’antica “Tabula Peutingeriana”, spingerti oltre la Galazia, la terra dei Galli in Turchia, fino alle coste del Mar Nero: “”Thalassa“! “Salassa“! Il mare! Il mare!”.
E’ proprio lì, sull’ultimo brandello di Anatolia della “Tabula”, su quella copia medievale di cartina stradale romana, che sta scritta la distanza per un’altra città, anche se il nome è quasi lo stesso: Cordìle.


Scritto con la “i“ al posto della “i greca”, la “y“, che in greco si legge quasi “u”: mùgghio notturno, abisso del Caos primigenio - e poi voce, parola, pronuncia. Pronunce che cambiano, come i nomi. I nomi segreti che si davano alle antiche città, ad Aosta come a Roma - e guai a rivelarli! Il nome aveva - e ha - un senso profondo, una sua potenza evocativa, una magia: esserne privati significa assenza di identità, di presenza qui e ora, restare un numero in attesa di essere zero, come ad Auschwitz.
Ma noi non ci faremo prendere dal panico, non precipiteremo, costruiremo intorno alla voragine tutto un recinto di “i”  facendo finta di niente.  Facendo ordine, insomma.

Dicevo: c’è scritto “lontana… 16 miglia” da Trapezunte, cioè Trebisonda, oggi Trabzon, e rischi davvero la trebisonda se cerchi Cordìle su un’altra cartina, perché pare svanita nel nulla, forse distrutta a colpi di “mazza“, divorata da una specie di “lucertola d’acqua” diventata gigante, sepolta sotto un tumulo a forma di “gobba“, “bendata” agli occhi degli uomini da qualche dio - tutta roba che in greco si scrive uguale - magari durante una danza orgiastica, il “cordàce” della Lidia, Anatolia che si affacciava sull’Egeo, proprio sopra la Caria, dov’era Mileto, patria della filosofia, della geografia, di quei coloni che fondarono prima Sinope e poi Trapezunte.
Qui alla mia epoca stava attraccata la flotta romana sul Mar Nero, i nuovi Argonauti.



Qui faceva il suo ingresso nel nostro impero quella “Via della Seta” che univa con filo esile e tenace Sinae Metropolis, Sera Metropolis (Luoyang, Xi’an), la terra dei Seri alla nostra epidermide di senatori.
Si dilapidavano fortune pur di imbozzolarsi in abiti di seta (anche perché il governo tassava al 12,5% tutto quel bendiddio appena metteva piede alla frontiera). Come non fosse bastato il numero quasi infinito di intermediari! Quante volte abbiamo cercato un contatto diretto coi Cinesi! E loro lo stesso. E per un pelo non ci siamo incontrati.
Nel 97 d.C. il generale Ban Chao aveva raggiunto il Caspio e spedito un suo ufficiale, Gan Ying, alla nostra ricerca. Ma i Parti - come poi i Persiani - avevano impedito l’incontro e lo credo bene: andava contro i loro interessi!
Quando fummo noi a raggiungere quello strano mare che è un lago, erano ormai passati quasi 20  anni e il petrolio in fiamme di Baku, se mai vi fosse riuscito, avrebbe illuminato la sponda opposta deserta: i Cinesi se n’erano andati e l’assetto geopolitico dell’Asia centrale era di nuovo in subbuglio (ce ne saremmo accorti qualche decennio dopo). E il prezzo della seta, al contrario del Caspio, sempre più salato.
E così, come due amanti innamorati di un sogno, abbiamo vicendevolmente continuato a idealizzare le nostre lontananze. Per loro “Ta-Ch’in”, cioè l’Occidente, era una specie di Bengodi. Per noi viaggiare verso Oriente rappresentava una specie di processione verso l’armonia, verso popoli sempre più saggi, fino ai Bramini dell’India e ai Seri taciturni, i più sereni di tutti.
E’ sempre meglio confinare la virtù ai limiti del mondo. O in un altro. Da questo, il profumo della santità. Da quello, l’aroma delle spezie: assafetida, spigonardo, zenzero e pepe, pepe, pepe lungo, pepe nero, soprattutto pepe. Lo ripeteva fino alla nausea il gastronomo più esperto dell’impero, Apicio: “Cospargi di pepe e servi”. Tutto: dallo struzzo lesso al cocomero bollito con le cervella, ai sedani imbevuti nel latte e cotti al forno.
Tutto. Anche la “cordùla“, pesce imparentato non solo con le sarde, disliscato e imbottito di grani di pepe, cumino, menta, noci e miele: cucito e cotto al vapore. Se arrostita, invece, abbinare a salsa con levistico, semi di sedano, menta, dattero cariota, miele, ruta, aceto, vino, olio. E pepe.
Come pepe sulle castagne cucinate a mo’ di lenticchie, con erbe aromatiche, miele, aceto e olio verde.
Voi in Valle non lo mettete sulla minestra di castagne. Però lo aggiungete alla zuppa “mitonata” o a quella di Valpelline o al “civét” di camoscio, al vitello “fricandeau“.
Che viaggio fa il pepe dall’India!
Lo stesso che fece il dio Dioniso, Bacco. E infatti col pepe ci aromatizzavamo anche il vino. Chissà che non venisse dalle vostre parti quel “vino delle Alpi” per cui andava matto Cesare. Non ce n’è uno che si chiama “Sangue dei Salassi”, “Sang des Salasses”? Ce lo vedo bene Dioniso con le baccanti trai filari di uva “petit rouge”! Che pasteggia a castagne ed “Enfer” sdraiato sul suo letto d’osso, oggi al Museo Archeologico Regionale.






PALLADIO La storia lausiaca


“Marciamo verso distese deserte,
Verso gli spazi incendiati del mondo,
Là dove il Sole Titano è smodato
E rara e scarsa l’acqua delle fonti...
Duro, aspro il cammino verso la legge.”
Lucano, Farsaglia IX, 382-5
(trad. Luca Traini)


Io e Palladio di Galazia abbiamo ben poco in comune, ma la sua Storia Lausiaca mi appassiona da più di trent’anni. Questa specie di autobiografia tutta condita di profili di anacoreti e cenobiti nel deserto non era parte del background della mia nonna materna, rapita da agiografie più recenti, e lo stesso Elpidio narrato nel capitolo 48, con tutti i suoi problemi di identificazione, era venerato a Sant’Elpidio a Mare e non a Porto Sant’Elpidio, dove abitavo con lei e il patrono era san Crispino (calzolaio in un paese di calzolai come mio nonno), quello citato da Shakespeare nell’Enrico V.


Il mio interesse per la Storia Lausiaca risale a più tardi, quando ero ormai a Varese, al liceo. Amore a prima vista per la copertina della sua edizione Valla Mondadori, Anno Domini 1983: meravigliosa alla vista, al tatto e all’olfatto.

"Io che sto vivendo il trentaquattresimo anno di comunione con i fratelli e di vita monastica, il ventesimo di episcopato e il cinquantaseiesimo della mia intera esistenza, poiché tu desideri conoscere le vicende dei padri, uomini e donne - quelli che
ho visto e di cui ho udito parlare e quelli con cui mi sono intrattenuto in Egitto, in Libia, nella Tebaide e a Siene (là
dove vivono i monaci Tabennesioti), e ancora in Mesopotamia, in Palestina, in Siria, e nelle regioni d'Occidente, a Roma e
in Campania e nei luoghi circostanti -, per te ho deciso di esporre tutto fin dal principio, sotto forma di narrazione, in questo libro".
Palladio, Storia Lausiaca, Dedica dell'opera a Lauso

Con quel dettaglio così vivace della Tebaide dell’Angelico che tutto ricorda fuorché un deserto. Il rosso dei vestiti di due leggiadre fanciulle, l’aspetto bonario dei monaci che sembrano usciti dal Decameron di Boccaccio, le celle più simili alla casa di Paperino. L’insieme della tavola è chiaramente la Toscana dei santi e dei mercanti che prelude all’Umanesimo.


Il vero Egitto e il suo deserto si sarebbero rivelati in  tutta la loro asprezza all’inizio dell’università, fra corsi di filologia bizantina e di latino medievale.


File:Christine Mohrmann (1953).jpg
Il mio idolo: Christine Mohrmann, grande studiosa della Scuola di Nimega,
autrice dell'Introduzione alla Storia Lausiaca e curatrice
della collana Vite dei santi (dal III al VI secolo).

La mia passione per l’età tardoantica prevedeva un’altra iconografia, anzi, vere e proprie icone con personaggi dagli occhi grandi come lemuri, in grado di vedere la divinità fra le tenebre.

Il Cristo Salvatore e san Mena, icona egizia del VII secolo


Un fiume carsico che dilaga in superficie

Il IV secolo, dopo le convulsioni del III, è il secolo della tumultuosa, progressiva e definitiva rottura  con quanto siamo soliti definire “età classica” dell’impero romano. La nuova morale cristiana, dai successi sotto Costantino al trionfo con Teodosio, è un fiume carsico che dilaga in superficie ricoprendo ansie antiche e nuove necessità. La crisi a livello sociale resta profonda. Lo splendore apparente della stessa età classica dell’impero (I e II secolo) era sempre stato appannaggio di una minoranza e, una volta finita l’epoca delle grandi conquiste, le briciole a disposizione delle grandi masse impoverite da più di un secolo di lotte interne erano ancora meno.


File:Solidus multiple-Constantine-thessalonica RIC vII 163v.jpg
Solidus aureo di Costantino I
(Classical Numismatic Group, Inc. www.cngcoins.com)

Né le riforme del “pagano” Diocleziano (certo persecutore, ma animato da pii propositi come il calmiere dei prezzi) né tanto meno quelle del “cristiano” Costantino, che col suo solidus aureo diede un altro duro colpo anche alle classi medie cittadine, riuscirono a risolvere il problema, anzi, lo aggravarono, sclerotizzando l’apparato produttivo (l’immagine tipo è quella del “servo della gleba”).



Se lo spostamento del baricentro amministrativo a Oriente (prima a Nicea e poi a Costantinopoli) permise la sopravvivenza dello stato e, ciò che più contava, del suo esercito, il prezzo da pagare fu tuttavia una tassazione ancora più dura e capillare a carico delle grandi masse lavoratrici. Alternative: la rivolta (e ce ne furono tante), la cupa disperazione, la fuga e la speranza in un altro mondo. Il cristianesimo – e il monachesimo in particolare – fornivano uno sbocco a queste ultime due.



Crisi materiale: contraltari intellettuali e spirituali


File:Soffitto affrescato del palazzo di Crispo a Treviri.jpg
Soffitto affrescato del Palazzo di Crispo, figlio di Costantino I, a Treviri

"A causa della materia, quindi, il cosmo è oscuro e tenebroso,
ma è bello e amabile per l'intrecciarsi delle forme che lo adornano,
per le quali è chiamato cosmo".
Porfirio, L'antro delle ninfe, 6

"Una volta chiesi all'asceta Doroteo nella Tebaide:
'Che fai, padre? Perché tu così vecchio, in questa calura,
vai uccidendo il tuo debole corpo?', ed egli rispose:
' Mi uccide, e io uccido lui'".
Palladio, Storia Lausiaca 2, 2

Non era una novità. La mente si era già allontanata da corpo non più sano dell’impero. La grande fuga delle masse dal mondo della religiosità capitolina verso nuove forme di credo era un dato di fatto e la cima dell’iceberg, la sua immagine rarefatta a livello di élite colta era ben rappresentata dalla filosofia neoplatonica, con il suo assoluto ripudio della realtà materiale. Il cristianesimo, fatta eccezione per chi si era attardato nella fiducia di una qualche parusìa della divinità, non era stato così drastico, ma l’influenza di questo pensiero era sta fin troppo presente in uno dei suoi grandi teologi, Origene, che, con la sua autocastrazione, l’aveva messo in pratica coniugandolo all’”eunuchi per il regno dei cieli” del vangelo di Matteo.

File:Origen emasculating himself (MS. Douce 195).jpg
Origene in una miniatura del Roman de la Rose (Francia XV sec.)
"Ebbene, io ho trovato questa annotazione in un antichissimo libro di scrittura stichica, in cui di pugno di Origene
sta scritto: 'Ho trovato questo libro presso la vergine Giuliana di Cesarea, quando ero nascosto presso di lei'.
E lei diceva di averlo ricevuto dalle mani di Simmaco (l'Ebionita), l'interprete degli ebrei".
Palladio, Storia Lausiaca 64,1

Materia uguale miseria, non più alleviata dai classici evergeti, ma redenta dalla Chiesa per mezzo di donazioni distribuite in beneficenza oppure diventando poveri tout court, voto di povertà ("Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri... poi vieni e seguimi", Matteo 19,21), “I poveri li avrete sempre con voi” (Marco 14,7) in qualità di anacoreti o cenobiti: in solitudine, sull’esempio di Antonio; in gruppo, seguendo la vocazione a un nuovo santo gregge di PacomioModello di questa opposizione non violenta all’ordine costituito è certo Giovanni Battista (legato o meno che fosse agli Esseni, alla comunità di Qumram o ai Terapeuti descritti da Filone di Alessandria) anche se, sottotraccia e specie nelle frange più estreme, non mancano riferimenti agli esempi classici di cinici e pitagorici (con relativi culti misterici) così come a precedenti in ambito mediorientale - gli schiavi del sacro o ieroduli - o più specificatamente egizio, è il nostro caso, con i “katochoi” del tempio di Serapide a Menfi. Senza dimenticare l'influsso, anche se molto filtrato, del misticismo indiano, quei gimnosofisti con cui era entrato in contatto Alessandro Magno (e di cui poi avrebbe narrato anche Filostrato nella sua Vita di Apollonio di Tiana, una delle mie prime passioni letterarie). In cambio i Greci avevano donato ai monaci buddisti un volto ellenistico per Siddhārtha Gautama. Si trattava di quell'Arte del Gandhāra che avrei imparato ad amare nella collezione del Museo Archeologico di Milano.

File:Milano - Museo archeologico - Arte di Gandara - Foto Giovanni Dall'Orto - 11-Aug.2003.jpg
Vedi anche in New Augmented Philosophy, Interaction 2 (Foto di G.dallorto)

Comunque sia la gara di privazioni e mortificazioni del corpo scatenata dal monachesimo cristiano stupiva fino a un certo punto le masse contadine: erano in buona parte sofferenze a cui erano state costrette ad abituarsi. La sintonia fra questi strati sociali, che spesso confluivano l'uno nell'altro, e, soprattutto, l'adesione a questo modello di vita da parte di non pochi esponenti dell'élite (fra cui numerose donne) erano viste con sospetto non solo dalle autorità imperiali ma anche dalle gerarchie cattoliche. Ne dà un'ottima testimonianza l'Agostino di Ippona di Rossellini (Anno Domini 1972: una critica neanche tanto larvata a certi aspetti di rifiuto neoanacoretico della contestazione giovanile di quegli anni).




Un nuovo cursus honorum
Per la prima volta dai tempi dell'Atene democratica e della Roma arcaica tornava in primo piano - e sottolineato con più forza - il valore del lavoro manuale, quell'ora e labora che verrà teorizzato più tardi dai benedettini. Il monaco Pambo, discepolo di Antonio, ricordava con orgoglio: "Da quando sono venuto nel deserto non mi ricordo di aver mangiato 'un pezzo di pane dato in dono' (Paolo, Lettera II ai Tessalonicesi) fuori dell'opera delle mie mani" (10, 6). Macario di Alessandria per  farsi accogliere nella severissima Regola dei monaci di Tabennisi, nella Tebaide, "si travestì assumendo la veste secolare di un operaio" (18, 12). Siamo davvero in un altro mondo rispetto a otium negotium ciceroniani. Un cursus honorum da contadini e operai dovrà attendere Marx e Lenin per tornare in auge. Nel frattempo lo troviamo in diversi curricula di molti professionisti della nuova meditazione religiosa: domestico (Mosè l'Etiope), carpentiere (Giovanni di Licopoli), contadino (Paolo il Semplice), pastore (Macario il Giovane), fabbricante di balsami (Amun della Nitria), schiavo (Sisinnio).


File:MTBcrop.jpg
Mosè l'Etiope, affresco del monastero di San Giorgio a Mariovo (metà XIV sec.).

Il monachesimo, inoltre, fu occasione di riscatto sociale per chi non parlava la lingua dell'élite, il greco (Antonio Abate in primis e Pacomio vi riesce solo "per miracolo"), per chi non sapeva leggere e scrivere (ma, per esempio, coltivava alla grande l'ars mnemonica come Pafnuzio soprannominato per questo Cefala) e per quelle popolazioni che erano state tenute ai margini dal potere greco-romano: libici (Stefano), etiopi (Mosè), palestinesi (Valente). E naturalmente egizi doc con Antonio Abate e Pacomio sempre in prima fila, seguiti da Macario l'Egiziano (ritiratosi nel deserto più interno chiamato Scete), dalla vergine Piamun (che riesce a sedare una di quelle feroci lotte fra villaggi per la spartizione dell'acqua di cui nei libri di storia non si parla quasi mai), Pior, Abramio e la bellissima vergine Taor, che, per quanto vestita di stracci da trent'anni, "aveva il volto di un naturale così perfetto che anche l'uomo più rigido rischiava di sentirsi affascinato dalla sua bellezza" (59, 2).


File:Assisi zosimus.jpg
Giotto, L'eremita Zosimo e Maddalena (in realtà Maria Egiziaca), Assisi
Riflesso spirituale della materialissima affermazione di nuove classi dirigenti dalla periferia al centro al seguito di imperatori della penisola balcanica (da Massimino il Trace a Diocleziano e Costantino la lista è lunga), questa nuova gerarchia fondata sul lavoro sarebbe rimasta confinata fra le quattro mura dei monasteri e solo in tempi e zone particolari (e sotto il regime di guide spirituali inflessibili come gli autocrati della politica). In parallelo a successi e panegirici delle dinastie militari emergenti si stagliano anche al sole abbacinante del deserto i trionfi dei monaci contro la "classe dominante dei demoni" (22, 9). La giovane Alessandra si fa chiudere in una tomba per dieci anni per non indurre in tentazione il giovane che si era innamorato di lei (5, 1). Paolo di Ferme si dispera perché riesce solo a recitare trecento preghiere al giorno e una vergine di un villaggio vicino, rodata da trent'anni d'ascesi e mangiando solo il sabato e la domenica, arriva a dirne settecento (20, 1-2). Macario di Alessandria accumula record eliminando cibi cotti per sette anni, riducendo la razione di pane a bricciole, l'acqua a poche gocce, restando in piedi per quaranta giorni mangiando solo poche foglie di cavolo e punendosi, per aver ucciso una zanzara, restando immobile in una palude in mezzo al deserto infestata da "zanzare che sono simili a vespe e feriscono anche la pelle dei cinghiali. Così il suo corpo diventò tutto una ferita e mise fuori tanti gonfiori che alcuni pensarono si fosse ammalato di elefantiasi. Quando ritornò, dopo sei mesi, nella sua cella, solo dalla voce si riconobbe che era Macario" (18, 4).
E' necessario sottolineare che eremiti e monaci di Palladio, pur nei loro modi estremi, rifuggono dagli eccessi di altri asceti, come i "boskoi" descritti da Evagrio di Epifania nella sua Storia ecclesiastica, che, molto simili all'archetipo dell'"Uomo selvatico", pascolavano a quattro zampe nella Siria dell'epoca. Gli eroi della Lausiaca, come d'altronde gli "stiliti", privilegiano posture degne della statuaria classica, in una gara neanche troppo simbolica con le pose di magistrati e imperatori.


File:Leonardo, san girolamo.jpg
Fra i grandi asceti di norma si è soliti mettere anche Girolamo (qui nel capolavoro di Leonardo), che però non era affatto amato da Palladio: "Un presbitero, Girolamo, abitava in quei luoghi, un uomo che spiccava per la sua valentia nelle lettere latine e per naturale talento: ma nutriva in sé una tale gelosia che ne veniva oscurata la bravura letteraria. Posidonio di Tebe, dopo aver trascorso con lui vari giorni, mi disse all'orecchio: 'La nobile Paola, che si prende cura di lui, morirà prima e così si libererà, credo, della sua gelosia.
A causa di quest'uomo non sarà possibile che un santo abiti in questi luoghi". 
Palladio, Storia Lausiaca  36, 6

Pur di entrare in questo Guiness delle mortificazioni anche le nobildonne romane fanno la loro parte. La "meravigliosa e santa" Melania, grande amore di Palladio, sopporta stoicamente la feroce calura del deserto affermando che "in sessant'anni di vita, né il mio piede né il mio viso né alcuna delle  mie membra ha mai toccato acqua, tranne l'estremità delle mani (per prendere l'ostia durante l'eucaristia); sebbene sia stata colpita da diverse malattie e assillata dall'insistenza dei medici" (55, 2). Donna coltissima, aggiunge a questo record anche quello di lettura di Sacre Scritture e antichi commentatori: "E non li lesse semplicemente come capitava, ma percorse con faticoso impegno ogni libro sei o sette volte" (55, 3).


File:Cave of Saint Macarius the Great.jpg
Grotta di San Macario nel deserto della Nitria, oggi Wādī al-Natrūn, Egitto (foto di Faris knight)



Fuga dalla civitas


Ci si allontanava sempre di più dalla città, dal fulcro della civitas romana - un ritiro cosciente (parliamo di decine di migliaia fra uomini e donne nel solo Egitto) riflesso della progressiva erosione dell'economia cittadina che datava dalla crisi del III secolo (se non dalla terribile epidemia di peste della fine del II). Ne danno testimonianza non solo il rifiuto di cariche nel campo del potere laico, ma anche quello dell’investitura ecclesiastica in ambito metropolitano. Un discepolo del sopracitato Pambo, Ammonio, “straordinario conoscitore dei libri sacri”, viene invitato con insistenza a diventare vescovo e per tutta risposta si recide a colpi di forbice l’orecchio sinistro fino alla base: “Ecco, da questo momento sarete convinti che per me è impossibile diventare vescovo, giacché la legge (Levitico 21, 17) proibisce di elevare al sacerdozio chi è mutilato di un orecchio… Se voi cercherete di obbligarmi con la forza, mi taglierò la lingua”(11, 2-3). Il potere civile è ormai diabolico in senso stretto anche se a rivestirlo è l’esponente di una delle dinastie senatorie fra le prime a diventare cristiane: gli Anici (vedi Il Dittico di Aosta).


"Nella Basilica di Costantino, in San Pietro, accanto a mio padre, riposava anche sua moglie, Anicia Faltonia. E se lui era stato il tronco vigoroso, mia madre fu la linfa spirituale della famiglia. Cristiana da generazioni. Da quando, raccontava, il nostro augusto Carino, gravemente malato, si era salvato grazie all’intervento dei santi medici Cosma e Damiano. Mica per niente avevamo costruito un palazzo sull’Isola Tiberina, dove sorgeva il tempio di Esculapio. Se poi il caro autocrate si fosse convertito del tutto o avesse tenuto il ritratto di Cristo in una cappella privata, magari insieme a quelli del mitico Orfeo e del santo pagano Apollonio di Tiana, non lo diceva. Sentenziava solo che la nostra salvezza era partita da lì".
(Luca Traini, Il Dittico di Aosta, TraRari TIPI, 2006)

Il governatore Faltonio Probo Alipio, infatti, fa visita al monaco Giovanni di Licopoli, che confida a Palladio: “Quell’uomo è asservito al diavolo a causa della sua attività mondana e, avendo trovato un momento di respiro, come uno schiavo che fugge dal padrone, è venuto per essere aiutato”. Questa ossessione del monachesimo più integralista contro la “città dell’uomo” corruttrice lascerà pesanti strascichi, ancora vivi, trionfando in un fanatismo parallelo, quello dei Khmer Rossi, dalla ferocia ben irrorata dalla semina di bombardamenti “acroamatici” di Nixon e dall’anarchia militare di Lon Nol.

Sbiadirono i colori squillanti dell'antico ordine sociale espressi in opere architettoniche, pitture e sculture avviate verso quello spoglio candore che avrebbe caratterizzato le rovine di un'epoca (rovine su cui piangere – e c’è ancora chi le piange - alla stregua di un Geremia o, contraltare, Rutilio Namaziano). In un certo senso fra gli eremiti ci fu un primo embrione di amore per la natura incontaminata, sentimento ignoto agli antichi (escluso l’imperatore Adriano e pochissimi altri). Ma nel deserto trionfò su tutto la luce abbacinante del sole, che avrebbe fatto il paio con l'oro dei mosaici per il tramite del solidus aureo di Costantino.


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Mosaico delle tre Grazie (III-IV sec.), Museo Nazionale di Egnazia, Savelletri di Fasano (foto di val reid)


Nigra sum sed formosa

Ombra dominante in tutto questo splendore, il terrore della sessualità vista come condanna del peccato originale (teologia), piacere che impedisce all’anima di contemplare il "Bene" (filosofia), riproduzione fisica di un ordine sociale oggetto di rifiuto (politica). L’ossessione per la castità (tutt'altra cosa dall'odierno culto della famiglia) e la lotta feroce, soprattutto maschile (basti pensare a tutti i privilegi erotici del cives), contro il più naturale (e culturale) degli istinti raggiunge il culmine proprio nella tarda antichità. Esemplare l'incontro dello stesso Palladio col vecchio Pacone: "Ora avvenne che io tormentato da un desiderio di donna fossi senza pace e nei pensieri e nelle visioni notturne. Giunsi addirittura vicino alla decisione di lasciare il deserto... Non volli confidare il segreto neppure al mio maestro Evagrio" - che pure se ne intendeva dato che si era fatto quasi congelare restando nudo in pieno inverno in fonda a un pozzo pur di resistere al "demone della lussuria" - "ma segretamente penetrai nel grande deserto e per quindici giorni stetti a colloquio con i padri che erano invecchiati nella solitudine della Scete. Fra questi incontrai anche Pacone..



Ed egli mi disse: 'Ecco, tu vedi in me un uomo vecchio... Ebbene, pur avendo quest'età anche ora provo tentazioni... Per dodici anni il demonio non mi ha concesso né una notte né un giorno di tregua dai suoi assalti... Decisi di fare una morte irragionevole piuttosto che cadere nella vergogna a causa della passione carnale. Uscii e dopo aver vagato per il deserto trovai la spelonca di una iena; in questa tana mi collocai nudo, durante il giorno, perché le bestie feroci mi divorassero. Quando sopraggiunse la sera... le bestie, il maschio e la femmina, uscirono e mi odorarono dalla testa ai piedi leccandomi; e quando mi aspettavo di venire divorato, si allontanarono da me... Il demonio, dopo essersi frenato per pochi giorni, mi assalì più violento di prima... Assume la forma di una fanciulla etiope" - Nigra sum sed formosa, ispirazione anche biblica - "che avevo visto una volta nella mia giovinezza, d'estate, in atto di raccogliere la stoppia, si siede sulle mie ginocchia e finisce per eccitarmi a tal punto da farmi credere di essere congiunto con lei. Allora, nella mia furia, le diedi uno schiaffo ed essa divenne invisibile. Ebbene, per due anni non potei sopportare il cattivo odore della mia mano. E così persi il coraggio e disperato uscii a vagare nel grande deserto; trovato un serpentello, lo prendo e lo avvicino ai miei genitali... E per quanto premessi la testa del rettile contro l'origine della tentazione, non fui morso. Udii allora una voce venire dentro il mio pensiero:'Vattene, Pacone, lotta; ho fatto in modo che tu fossi dominato dal Nemico, perché non t'insuperbissi pensando di essere forte'... Così mi convinsi e me ne ritornai indietro e, ripreso il mio posto con fiducia, rimasi in pace per il resto dei miei giorni'" (23, 1-6). 


Agoni diversi

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Quanto restava di Olimpia durante i primi scavi (1875/1876)

Il peccato di hybris fu scontato invece dalle olimpiadi antiche, sconfitte dai record questi nuovi atleti dello spirito. Il grande spettacolo del corpo, durato più di un millennio, termina in sordina con l'edizione del 393 d.C., l'ultima ad essere registrata. Doppia ironia della sorte - e della storia - l'ultimo vincitore è un "barbaro", Varasdate, pugile e poi principe di un regno, l'Armenia, che era stato il primo a dichiarare il cristianesimo religione di stato nel 301.
Su Olimpia scendono il silenzio e la polvere. Nelle prime foto della sua riscoperta i resti sembrano emergere da un deserto.


File:Herrera e Padre Pio.jpg

Leggo sempre con un brivido le pagine di Palladio, una specie di personale rito apotropaico per esorcizzare ogni specie di rigurgito integralista. Andando volutamente oltre la mia formazione di storico potrei dire: bisogna conoscere la Storia lausiaca proprio per evitarla. E, volendo stemperare il finale, mi riguardo una vecchia foto della mia amata Inter dove, in una specie di riappacificazione fra sport e monachesimo, Herrera e Suarez incontrano Padre Pio. La castità valeva giusto per i ritiri delle squadre di calcio, quando era d'uso, e certe devozioni fanatiche è meglio che non durino oltre i 90 minuti di gioco regolamentari.




AVIENO, IMILCONE E LA "VIA DELLO STAGNO

[...] Rufo Festo Avieno in un suo poemetto, “Coste marine”, narra di un ammiraglio cartaginese, Imilcone, che più di 25 secoli fa cercò di superare, via mare, proprio gli intermediari di questo commercio, puntando la prua della sua flotta a nord del padre Oceano: nessuno l’aveva mai fatto prima.



“Si apre il Golfo Estrimnide con le sue isole
Sperdute ma ricche di stagno e piombo…
L’oceano, pieno di mostri marini…
Fino alla vasta isola detta Sacra,
Terra della nazione degli Iberni.
In senso opposto, al ritorno, avrai accanto
L’isola degli Albioni… Dura in tutto
Quattro mesi questa navigazione…
Nessun alito di vento, accidioso
Il mare: dai bassi fondali salgono
Mucchi d’alghe, trattengono le navi
Come siepi. I mostri del mare nuotano
Fra imbarcazioni così lente, inerti“. (Trad. Luca Traini)



Sostituisci “Estrimnide” con “Bretagna”, “Isola Sacra” con “Irlanda” e “Albione” con “Inghilterra” e non perderai la bussola. Il tentativo di Imilcone ebbe successo ma non seguito. Ci riprovarono i greci e tuttavia solo noi romani riuscimmo, col ferro, a conquistare quelle terre plumbee per più di tre secoli, anche se ai miei tempi ormai quel dominio ristagnava. [...]








CURA E NATURA

Due femminili: Trotula e Ildegarda di Bingen


Respingere le nozioni di eterno femminino
Simone de Beauvoir


L’immagine tradizionale delle streghe è uno specchio deformante dove sono state ritratte ingiustamente tante donne la cui unica colpa era di essere esperte in medicina, medicina popolare: signore delle umili erbe.


Quindi niente scope volanti, niente sabba o magia nera, ma una vera e propria persecuzione da parte del potere maschile.
E anche delle medicina ufficiale, più brava a sezionare cadaveri che a curare i vivi.


Una persecuzione pianificata soprattutto con strumenti e burocrazie di epoca moderna, in parallelo al consolidarsi delle monarchie assolute. Il tanto bistrattato medioevo non aveva visto nulla di simile. Anzi, una grande guaritrice, Trotula,



era stata attiva presso l’università più prestigiosa, quella di Salerno.

Trotula rivisitata in un quadro di Pina Traini

E un’altra, Ildegarda di Bingen, sarebbe diventata anche santa e, a scanso di equivoci, aveva scritto all’imperatore Federico Barbarossa: “Io posso abbattere la malizia degli uomini che mi offendono”.



Cur moriatur homo, cui salvia crescit in horto?

("Perché muore l’uomo nel cui orto cresce la salvia?”)

SCUOLA MEDICA DI SALERNO (XII sec.)

Commento musicale Ildegarda di Bingen, Hortus deliciarum


Sfere celesti e alambicchi: i chiaroscuri di Paracelso

Se il regno vegetale era pertinenza delle donne, quello minerale invece riguardava una specie particolare di uomini: gli alchimisti.
Di origini arabe, greche, egizie e cinesi, la parola “alchimia” o “arte di trasmutare i metalli” testimonia un interesse e una ricerca diffusi da millenni a livello planetario.
Anche in questo caso (e nei migliori esempi) dobbiamo andare oltre il luogo comune del vecchio stregone chiuso fra quattro mura.


Non la banale brama di trasformare i metalli in oro, ma piuttosto il tentativo di collegare quest’ultimo al sole e, più in generale, di trovare corrispondenze fra quanto veniva estratto dalle miniere e le profondità del cosmo. Coinvolto in prima persona nell’incessante processo di metamorfosi della natura, l’essere umano scopriva il proprio corpo (microcosmo) in simbiosi con gli elementi della terra e con i corpi celesti (macrocosmo). Mantenere armonico questo rapporto fra scale diverse diventava sinonimo di salute.


Dalle rivoluzioni delle orbite dei pianeti alla rivoluzione filosofica del Rinascimento il passo sarebbe stato breve.

In questo orizzonte in cui le sfere celesti si trasfigurano in alambicchi si staglia la figura di Paracelso.


Svizzero di nascita, cosmopolita per vocazione come tutti i protagonisti della prima metà del ‘500, laureato in medicina a Ferrara e docente a Basilea dove, sull’onda della riforma luterana, dà pubblicamente alle fiamme i testi canonici della sua disciplina.
Aveva scritto: “Non essere schiavo di un altro se puoi essere padrone di te stesso”.
Alle alte sfere accademiche preferisce i poveri. La pratica la fa con i minatori, vestendo come loro e ponendo alla base della sua nuova scienza, la “iatrochimìa” o “chimica medica”, tre sostanze minerali: sale, zolfo e mercurio, rispettivamente collegati a corpo, anima e spirito.


Recita una sua massima: “Scopo dell’alchimia non è fare oro o argento, ma dare arcani e dirigerli contro le malattie”.
I suoi rimedi, precursori anche dell’odierna omeopatia, li definisce “spagyrici” (dal greco “estraggo e raccolgo”), prendendo spunto dalla metallurgia e dall’agricoltura. Di ogni materia cerca la quintessenza, oggi diremmo il “principio attivo”. Ma questo non avviene mai isolando il singolo elemento dal suo contesto: tutto il mondo paracelsiano è un unico grande organismo i cui segni o “segnature” , forme e colori, rimandando l’uno all’altro e sono in corrispondenza con le parti del corpo e la psiche umana.
Certo, non è tutto oro quello che cola dalla sua dottrina (il moderno metodo scientifico era appena agli albori), ma l'intuizione che la radice nascosta dell’uomo risieda nel suo legame con la natura è una lezione importante, che riecheggia quanto scritto quattro secoli prima proprio da Ildegarda di Bingen: “Uomo, guarda l’uomo: egli contiene in sé il cielo e le altre creature”.


Quattro secoli dopo uno dei padri della psicoanalisi (anche lui non esente da chiaroscuri), Carl Gustav Jung,  avrebbe reso omaggio a Paracelso vedendo in lui “un pioniere non solo nel campo della medicina chimica, ma anche in quello della psicologia empirica e della terapia psicologica”.





FILOPEMENE IN INDONESIA
Il punto di vista degli altri

Ricordi Filopemene?
Se l’avevi scordato fino a maggio di quest’anno (2013), su Wikipedia Italia non c’era.
Ma sulla pagina indonesiana sì.

Philopoemen (dalam Bahasa Yunani, Φιλοποίμην, diterjemahkan menjadi Philopoimen), (253 SM, Megalopolis  183 SM, Messene) adalah sporangi jenderal dan negarawan Yunani yang terampil, ia menjabat jabatan strategos Akhaia selama delapan kali.
Dari waktu dia diangkat sebagai strategos pada 209 SM, Philopoemen membantu mengubah Liga Akhaia menjadi kekuatan militer penting di Yunani. Ia juga dipanggil "yang terakhir dari Yunani" oleh seorang anonim Roma.

L’ultimo eroe della Grecia libera, quello ormai datato per Polibio: “Tanto cosa vuoi combattere più”.

Pierre-Jean David d'Angers, Filopemene ferito

Ma c’è in inglese, quindi parla ancora a tutti.
E in olandese? L’hai visto?

Era una copia di Plutarco mezza marcia, nella stiva di una nave alla fonda di Batavia.
Forse l’aveva presa Guglielmo il Taciturno agli spagnoli.
Forse la ritrovò Sukarno prima di Bandung.





SCIENZA E STORIA LUNGO IL MARCIAPIEDE



E’ un viaggio in più spazi-tempi quello lungo il breve tratto fra l’autolavaggio e il bar dove consumare l’attesa fra caffè, libri e Gazzetta dello Sport (200 metri esatti).
Nell’ordine: un muro alto di cemento armato a sostegno di un viale alberato, un parcheggio di tre posti e un cancello davanti a una proprietà in abbandono.
Sarà lo spostamento d’aria delle auto senza nome che sfrecciano sul viale. Saranno quelle macchie di muschio che vincono ogni intervento umano: ricordano certe mappe in bianco e nero del cielo profondo. La magia che intravedo nelle cose apparentemente più semplici, appena respiro, è una magia razionale. C’è l’asteroide 4110928 Maidbronn su quel muro, fra Marte e Giove – o la frazione del comune bavarese di Rimpar da cui prende il nome, vista da un satellite.
Così come un angolo non ripulito del parcheggio sembra contenere ancora i resti vegetali della sepoltura di un Neanderthal (alla faccia dei pregiudizi verso questo nostro simile sfortunato). Passato. Come l’ennesimo automobilista.
Infine, Nazca è ancora a Varese, in un sacco di sabbia buttato prima del cancello e l’abbandono. Lascio anch’io la mia impronta, in una foto digitale, prima che l’auto si asciughi. Sulla via del ritorno.
Tutto normale. Tutto eccezionale.

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