CANTERBURY TALE
Eadmero, Anselmo d’Aosta e i figli di Guglielmo il Conquistatore
Il dramma sacro della politica
(Parte I)
Commento musicale Godric of Finchale, Sainte Nicholaes, Godes Druth
"Anselmo, del quale nessun uomo è mai stato più tenace nella giustizia, nessuno così scrupolosamente erudito,
nessuno così profondamente spirituale, lui padre della patria, lui esempio per il mondo"
Guglielmo di Malmesbury, Storia dei re d'inghilterra
"Eadmero ha esposto con tale chiarezza ogni cosa da farla in certo qual modo rivivere davanti ai nostri occhi"
Guglielmo di Malmesbury, Storia dei vescovi d'Inghilterra
Dopo
Re Artù e prima di Robin Hood il mondo tutto concreto, ma non meno
affascinante, di storia e politica inglese a cavallo fra XI e XII secolo. Narrato
con rigore, passione - e senza miracoli - da Eadmero, discepolo fedele del
teologo aostano quanto della musa Clio (peccato che alla lunga provocò la rottura col maestro, poco amante di storici e agiografi). Peccato da noi perdonatissimo,
specie in questi brutti tempi di Brexit, perché fonte insostituibile per un periodo
poco noto della mia amata storia della Gran Bretagna. Poco conosciuto specie in
Italia (Valle d’Aosta esclusa): a scuola tutto si ferma con battaglia di
Hastings e Arazzo di Bayeux e si riparte con le Crociate e un Riccardo
Cuor di Leone che si fatica a sottrarre alla solita aura leggendaria.
La
sua Historia novorum in Anglia è
storia di tutta una serie di novità.
Una
nuova dinastia normanna, scandinava ma nulla a che fare con la dominazione
danese di Canuto il Grande, perché ormai francese, con latino e lingua d'oïl a corte.
Una
nuova dominazione benedetta da papi riformatori come Alessandro II, che da
tempo cercavano di ricondurre il clero anglosassone sotto l’egida di Roma sul
modello di Gregorio Magno.
E un
nuovo contrasto fra potere temporale e spirituale che culminerà nel 1170 con
l’assassinio del più illustre dei successori di Anselmo all’arcivescovado di
Canterbury: Thomas Becket (anche questo idealizzato nel capolavoro teatrale di
T. S. Eliot, ma c’era da combattere il nazismo).
Procediamo
con ordine. Eadmero è di famiglia nobile del Kent e viene avviato fin da
piccolo alla vita di monaco nella sua Canterbury dove, da subito, diventa
affamato di racconti dei confratelli più anziani. Lo storico in nuce è già qui:
“Sin dalla prima infanzia era mia abitudine osservare con scrupolosa attenzione
e imprimere nella mia memoria qualsiasi novità si presentasse, soprattutto
nell’ambito della Chiesa… Mi ricordai delle parole che un tempo avevo sentito,
quand’ero ancora fanciullo, dalla bocca degli anziani della nostra Chiesa,
ossia Edvino, uomo mirabile, Blacmanno,
Farmanno e alcuni altri. Questi uomini degni di memoria erano soliti raccontare
del tempo della loro gioventù” (Storia
dei tempi nuovi in Inghilterra, II, 973, Jaca Book, 2009).
In
tutta la sua opera, che inizia col classico elogio premoderno del passato – quanto
sono solito chiamare “il sol dell’avvenuto” – affiora, in simbiosi con la
solita nostalgia per i “bei tempi andati”, quelli del clero inglese
pre-invasione (“il gloriosissimo re Edoardo… Dunstano, vescovo di Canterbury,
tutto plasmato di virtù”), una diffidenza ben poco celata verso i non
autoctoni. Quindi cosa finisce per legare con devozione filiale questo
anglosassone doc a uno “straniero” come Anselmo?
C’è
da sottolineare che la dominazione normanna aveva portato con sé nuovi
arcivescovi da oltre Manica (e l’ultimo
dei locali, Stigando, non aveva certo brillato in santità): prima Lanfranco da
Pavia e poi lo stesso Anselmo. Come ha ben sottolineato Charles Burns (in Storia religiosa dell’Inghilterra, La
Casa di Matriona e Fondazione Ambrosiana Paolo VI, 1991): “In nessuna delle
epoche precedenti le vicende della Ecclesia
Anglicana si intrecciarono così strettamente a quelle della chiesa latina
occidentale come nel periodo che va dall’invasione normanna fino alla morte di
Giovanni Senzaterra nel 1216… con la cessione del suoi regno in feudo alla
Chiesa”. Con l’avvertenza di Coloman Étienne Viola (in Anselmo d’Aosta educatore europeo, Jaca Book, 2003), che evidenzia
bene i limiti di questo riavvicinamento della Chiesa inglese a quella romana
sotto la dominazione normanna: “Guglielmo il Conquistatore regnava già secondo
gli usus atque leges, quelle leggi
non scritte, semplici consuetudini che gli davano un potere quasi assoluto
anche nel campo dei beni ecclesiastici… Non lasciava deliberare o vietare
alcunché al primate del regno, cioè all’arcivescovo di Canterbury, se non era
conforme al volere reale e se non era ordinato in primo luogo dal re stesso”.
Le
radici dell’affetto di Eadmero e del dramma politico-religioso di Anselmo
trapelano da queste righe, accomunate dal deciso sostegno della primazia di
Canterbury su tutte le altre sedi episcopali in terra inglese. Un bel problema,
perché le fonti storiche a fondamento di questa affermazione, in primis la Storia Ecclesiastica del mio caro Beda
(VIII sec.), erano tutt’altro che chiare, anzi. Papa Gregorio Magno, a cavallo
fra VI e VII secolo, aveva previsto per il suo inviato Agostino un
arcivescovado a Londra, ma questi aveva potuto esercitarlo solo nella capitale
del re di cui era ospite, Etelberto del Kent, cioè Canterbury. Aveva inoltre
comandato che stabilisse un episcopato anche a York, altra città importante
nella memoria che avevano dell’impero romano, ma che non sarebbe rimasto in
subordine alla morte dello stesso Agostino. Progetti di difficile attuazione
anche per il forte controllo esercitato anche allora dal potere regio (sembra
il peccato originario del cattolicesimo inglese). Come ha sottolineato il grande
Peter Brown in quel capolavoro che è La
nascita dell’Europa cristiana (Laterza, 1995): “La comunità monastica di
Canterbury fu ridotta ad assomigliare a una residenza recintata di privilegiati
stranieri – persone apprezzabili ma potenzialmente disgreganti che era meglio
tenere sotto sorveglianza vicino alla corte reale – e non le fu consentito di
ricreare quell’estesa rete di episcopati ‘romani’ com’era nei voti di
Gregorio”.
Era stato nei fatti, in seguito a tutta una serie di convergenze di natura politica, che, nella seconda metà del VII secolo, Teodoro, greco dell’Asia Minore bizantina inviato sull’isola da papa Vitaliano, era diventato “il primo arcivescovo cui tutta la chiesa degli Angli acconsentì di obbedire” (Beda il Venerabile, Storia ecclesiastica degli Angli, IV,2, Città Nuova Editrice, 1987). Grazie anche all’operato di un altro coltissimo prelato, il berbero Adriano, che a Canterbury aveva creato una vera e propria scuola dove “sia l’uno che l’altro, istruiti a fondo nelle lettere sia sacre che profane, raccolta una schiera di discepoli, diffondevano ogni giorno fiumi di dottrina salutare per irrigare i loro cuori. Infatti insieme allo studio delle Sacre Scritture fornivano nozioni di arte metrica, di astronomia, di computo ecclesiastico (per calcolare la data della Pasqua). Ne è prova che alcuni dei loro discepoli conoscono la lingua greca e latina come la loro lingua madre” (Beda il Venerabile, come sopra). Il vescovo poeta Aldelmo di Malmesbury (639-709), il primo grande classico della letteratura anglosassone - di cui abbiamo già parlato in La scuola misteriosa e la grammatica inquietante di Virgilio Marone Grammatico – è uno dei migliori prodotti di questo insegnamento. Grazie a Teodoro e Adriano col Sinodo di Whitby (664) l’influenza della Chiesa di Roma si sostituisce a quella irlandese. Ma il dominio di Canterbury resta pur sempre de facto e Lanfranco da Pavia dovrà fare non poche acrobazie (chiamiamole così) per giustificarlo al Concilio di Windsor del 1072. La questione resterà ancora aperta durante l’episcopato anselmiano e il teologo dell’esistenza a priori di Dio dovrà faticare fino agli ultimi giorni per affermare questa pratica tutta a posteriori.
Eadmero ha stima di Lanfranco per le qualità
intellettuali e organizzative, ma non c’è feeling (penso anche per il suo ruolo
attivo nella repressione della rivolta antinormanna del 1075). Con Anselmo,
invece, è tutto diverso. Il carattere dell’aostano è decisamente più affabile.
L’umiltà, nonostante il genio teologico, proverbiale. La sensibilità verso la
tradizione ecclesiastica inglese, affinata da tre viaggi nell’isola prima di
quello fatidico del 1092, più duttile (Eadmero avrà pensato a un nuovo Gregorio
Magno con la sua connessione leggendaria fra “Angli” e “angeli”).
E, soprattutto, non abbasserà mai la testa
docilmente ai re anglonormanni con cui avrà a che fare, Guglielmo II ed Enrico
I (questo scontro, specie col primo, dà vita alle pagine più appassionanti
dell’Historia).
Arriviamo quindi al primo dramma, quello dal finale già
scritto. Anselmo collaborava da tempo anche se a distanza con l’arcivescovo Lanfranco, era perfettamente a conoscenza della politica ecclesiastica dei duchi normanni, con cui aveva
già avuto modo di puntare i piedi e mettere in gioco il suo prestigio, e sapeva
di essere il candidato principe alla successione sulla cattedra di Canterbury. Quando
questa, nel 1089, resta vacante – e lo rimane per più di quattro anni! – si
guarda bene dal traversare la Manica. Viaggia
verso la sessantina – è dunque già molto anziano per l’epoca – e il suo
desiderio, avendo già dimostrato le sue capacità amministrative come priore del monastero di Le Bec, è quello, diremmo oggi, di una tranquilla pensione tutta dedicata ai
suoi adorati studi speculativi. Dopo l’enorme successo di Monologion e Proslogion,
solo per fare qualche titolo, ha già in mente altre opere.
È un'altra lettura quella preferita dai re anglo normanni, il Domesday Book, letteralmente “Libro del Giorno del Giudizio”, con i dati del censimento catastale del 1085-86, e quindi anche un altro il giorno del giudizio prediletto, quello in cui riscuotere tasse decisamente aumentate che fanno di questi sovrani fra i più ricchi nell’Europa dell’epoca.
È il nuovo contesto storico inaugurato da Gugliemo II nel 1087 a far precipitare la situazione. Un nuovo quadro che in realtà ha molto di vecchio. Costretto a far fronte a cospirazioni interne (lo zio vescovo Oddone) ed esterne (il fratello Roberto duca di Normandia) e quindi a far cassa con una rapacità degna del padre (ma senza il suo prestigio), il giovane re si appropria di tutta una serie di terre ed entrate della Chiesa di Canterbury dopo la morte di Lanfranco e, su suggerimento del consigliere Rainulfo Flambart (ironia della storia, un vescovo), lascia di proposito il seggio vacante. Il rischio di nuove sollevazioni e lo stato endemico di guerra con Scozia e Galles fanno sì che gli espropri, d’altro canto legittimi per il potere laico, non vengano meno, creando un malcontento diffuso nel clero meridionale dell’isola. C’è da chiedersi quanto Guglielmo pensasse di poter ritardare la nomina del nuovo arcivescovo. Eadmero, che naturalmente lo detesta, gli mette in bocca parole pesanti degne di un Enrico VIII o di un dramma shakespeariano: “Ma, per il Sacro Volto di Lucca – così infatti aveva l’abitudine di giurare (interessante questa prima singolare liaison anglo toscana) – nessuno sarà arcivescovo eccetto me”. Dietro le quinte la realtà era più complessa. L’uomo poteva permettersi di essere in privato poco religioso se non addirittura scettico: ho idea che quando Anselmo parla di “infedeli” nel Cur Deus homo, oltre a rivolgersi agli Ebrei invitati in Inghilterra e protetti dai re normanni, si riferisca proprio a lui quando afferma “Se si chiama ingiusto l’uomo che non rende all’uomo quanto deve, molto di più è ingiusto l’uomo che non rende a Dio quanto deve”. Il sovrano cattolico no, anche se una bella fetta dell’episcopato era tutt’altro che scontenta di una chiesa inglese acefala, non poteva rimandare all’infinito il ripristino di una consacrazione che durava da mezzo millennio.
A smuovere le acque ci pensa, guarda caso, uno dei
magnati dell’isola, il normanno Ugo d’Avranches, conte di Chester, vecchio
compagno d’armi del Conquistatore e cane da guardia del riottoso Galles. Tre
inviti all’amico Anselmo per sovrintendere a un nuovo monastero, reiterati in
ragione di una grave malattia da cui, all’arrivo dell’aostano (Anno Domini
1092), sorte vuole che si sia ormai ripreso. Eadmero – e non ci si poteva
attendere diversamente – dà una spiegazione tutta religiosa a viaggio,
guarigione e speranza rinnovata del clero inglese. Noi, che non dubitiamo del
fiuto di una vecchia volpe come il conte così come della rassegnata consapevolezza
politica dell’abate di Le Bec, possiamo aggiungere che si trattava con grande
probabilità di una mossa per cercare di riportare all’ordine il gioco azzardato
del re sullo scacchiere inglese.
Re che gioca in difesa finché può come lo stesso Anselmo,
tirato per la tonaca da ecclesiastici e notabili a indossare una mitra di cui
ben conosce il peso.
Re che, altro scherzo della sorte, cade gravemente
ammalato e in preda ai sensi di colpa. In primo luogo perché quasi certamente
omosessuale - Eadmero è esplicito su questo anche se il teatro di Christopher
Marlowe preferirà Edoardo II Plantageneto – e il peccato di sodomia era
considerato fra i più gravi oltre a essere discretamente diffuso (Anselmo
varerà diversi – e duri - provvedimenti a questo proposito, ma almeno le condanne
efferate del Codice di Giustiano non facevano parte del corpus giuridico
dell’isola e l’epoca più feroce di roghi e atrocità simili sarebbe arrivata molto più
tardi).
Ma la storia vuole diversamente. In nove mesi –
guarda caso - si assiste a un’escalation che porta alla consacrazione del nuovo
arcivescovo di Canterbury. Che ottiene certo la restituzione dei beni
espropriati, ma solo quella. Perché tutto
avviene secondo le usanze normanne di cui sopra e non certo secondo i nuovi
crismi stabiliti da Gregorio VII in poi, che vietavano l’investitura dei
vescovi da parte dei potentati laici (imperatore in primis ma anche semplici
re). La maggior parte degli storici propende per un mancato aggiornamento da
parte dell’ex priore di Le Bec, sostenendo che solo più tardi, in esilio a
Roma, sarebbe venuto a conoscenza dell’insieme dei cambiamenti messi in atto
dalla Santa Sede. Certo che la cosa non stupisce solo me (questa lacuna nella
banca dati del monastero normanno, in continuo aggiornamento grazie a una
diffusa rete di contatti nella cristianità dell’epoca, lascia perplessi). Se
anche uno storico della statura di Southern (che è stato e resta uno dei
massimi esperti della figura anselmiana) esprime seri dubbi in proposito -
“Nessuno può biasimare la sua ignoranza all’inizio, benché sia strana in uno
ch’è stato abate per quindici anni. Ma ciò che è più strano è il fatto che egli
non abbia fatto nulla, né immediatamente né nei successivi cinque anni, per
colmare questa lacuna nella conoscenza della recente o (per tale materia)
antica legge canonica” (Anselmo d’Aosta. Ritratto
su sfondo, Jaka Book, 1998) - c’è da chiedersi se il sant’uomo non abbia
mantenuto un dotta e devota ignoranza ai fini di un’indispensabile quanto inconfessabile
mediazione politica. Eadmero, che in questo caso avrebbe rispettato i vincoli
di segretezza, lascia correre e anche il successivo grande biografo, Giovanni
di Salisbury, preferirà far perno sull’ultimo periodo dell’arcivescovado di
Anselmo piuttosto che su questi inizi per farne il puro precursore apostolico
del suo ben più deciso eroe, l’altro santo Thomas Becket.
Il re ha ottenuto quello che voleva: l’omaggio feudale.
Già, perché il primate della Chiesa, essendo anche il primo fra i baroni del
reame, restava pur sempre un feudatario
del sovrano, con tutti gli obblighi previsti dal sistema. Il destino della
prima parte dell’episcopato anselmiano è in un certo senso già segnato. E,
scontro dopo scontro, si giunge alla prima sacra rappresentazione. Fine
febbraio 1095: concilio nazionale di Rockingham, il primo dopo quasi un secolo.
Quattro atti per quattro giornate che si concludono con una tregua armata. Lunghi
monologhi in scena di Anselmo alternati a brevi interventi fuoricampo di
Gugliemo con presenza per entrambi di un coro di vescovi e uno di nobili laici
(più un breve intervento della folla e di un soldato). Molto rumore per nulla,
verrebbe da dire, ma è uno dei punti più alti della Storia di Eadmero, degno di Shakespeare (e di Eisenstein).
In ballo ci sono il pallio, che il prelato dovrebbe
ricevere direttamente dal papa a Roma (viaggio non da poco per l’epoca) e il
riconoscimento stesso del nuovo pontefice, Urbano II (quello che nel novembre
dello stesso anno avrebbe indetto la prima Crociata). Due prerogative che
Guglielmo ritiene di sua pertinenza mentre Anselmo, che ha già riconosciuto
Urbano II quand’era abate a Le Bec nel 1088, considera fondamentale l’assunzione
del paramento liturgico come emblema del suo rapporto diretto col vescovo di
Roma.
I brani scelti e drammatizzati che seguono sono tratti dalla parte
finale del Libro Primo della Historia
novorum.
“Tutti si
riuniscono così una domenica, a partire dall’ora prima (le 6.00), nella chiesa
situata all’interno del castello (particolare piuttosto esemplificativo),
mentre il re e i suoi tramano febbrilmente i loro piani contro Anselmo”.
Anselmo (rivolto
ai vescovi): “È piaciuto al re e a voi di scegliermi per questa carica. Ho
fatto mille obiezioni, desiderando sottrarmi a questa prelatura, ma voi non
l’avete concesso. Ho proclamato, tra le altre cose, di avere riconosciuto come
papa questo Urbano, ora oggetto della presente lite, e di non volere neppure
per un momento scostarmi dalla sottomissione che gli devo finché viva. E non si
è trovato nessuno in quell’occasione a contraddirmi… Avrei preferito quel
giorno – se mi fosse stato concesso di scegliere – essere gettato in un rogo
ardente piuttosto che essere elevato alla dignità di arcivescovo. E tuttavia,
nel vedere l’insistenza del vostro desiderio, mi sono fidato di voi… Perciò
supplico ed esorto tutti, ma specialmente voi, miei fratelli nell’episcopato,
affinché mi diate con un’ancor più attenta considerazione un consiglio sul
quale possa appoggiarmi, così che io non infranga in nulla l’obbedienza al papa
e non offenda la fedeltà al re mio signore”.
Coro dei vescovi (risposta inevitabile: erano di nomina reale) “Se aspetti da noi un consiglio secondo Dio che possa opporsi in qualche modo alla volontà del re, i tuoi sforzi saranno vani, perché a tal riguardo non ci vedrai mai sostenerti.” (“e abbassarono il capo come per ascoltare i suoi rimproveri”).
Anselmo
(“levati gli occhi al cielo, con
viso raggiante e voce solenne”) “’Date a Cesare quello che è di Cesare e a
Dio quello che è di Dio’. Queste sono le parole, questi i consigli di Dio… Per
cui tutti insieme vedrete che presterò la mia obbedienza nelle cose che
riguardano Dio al vicario del beato Pietro e nelle cose che per diritto
competono alla dignità terrena del mio signore, il re, per quanto ne sarò
capace, presterò il mio consiglio e il mio aiuto fedele”.
Coro
dei vescovi (“profondamente
turbati, alzandosi in tutta fretta e con grande tumulto, esprimendo la loro
agitazione con voci confuse, tanto da far pensare che lo proclamassero
unitamente degno di morte, con tono minaccioso”) “Sappi che non andremo mai
in tua vece a riferire le tue parole al nostro signore”.
“Poiché non
rimaneva con Anselmo nessuno a cui potesse in tutta sicurezza dare l’incarico
di riferire le sue parole al re, si recò egli stesso da lui e gli fece sapere a
viva voce quanto aveva detto e subito si congedò. Al che il re, fortemente irritato,
cominciò con tutte le forze a cercare, insieme con i vescovi e i baroni ciò che
avrebbe potuto obiettare a queste parole, ma non trovò nulla. Dopo essersi
dunque rimproverati vicendevolmente fra loro, si divisero in piccoli gruppi, e
qui in due, là in tre, altrove in quattro tenevano insieme consiglio,
ricercando con la massima diligenza se in qualche modo potevano produrre
qualche risposta alle parole di Anselmo, che potesse placare la collera del re
senza andare contro le sentenze di Dio che Anselmo aveva addotto… Mentre i
conciliaboli dei suoi avversari si prolungavano, questi, appoggiato al muro, si
riposava in un dolce sonno. Dopo un lungo indugio i vescovi e i baroni
ritornarono dalla dimora del re”.
Coro dei vescovi “Ma rifletti, te ne preghiamo, e rinuncia all’obbedienza verso questo
Urbano che, se è offeso il re, non può giovarti in nulla, mentre, se il re è
rappacificato con te, non può in nulla nuocerti; scuoti il giogo della
schiavitù e libero, come si addice all’arcivescovo di Canterbury, in tutte le
azioni rispetta la volontà del re tuo signore e il suo comando”.
Anselmo
“Sento ciò che dite; ma per parlare solo di un punto, mi rifiuto
assolutamente di rinnegare la mia obbedienza al papa”.
“Nel
frattempo tutta la folla cominciò a mormorare contro l’ingiustizia fatta a un
così grande uomo, lamentandosi a mezza voce. Infatti nessuno osava parlare
apertamente a suo favore, per timore del tiranno”. (Eadmero scrive proprio così,
“tyranni”, e di questa notazione avrà
certamente fatto tesoro Giovanni di Salisbury per il suo “Policraticus. E c’è
qualcuno, in questa folla che mormora, che ha il coraggio di uscire e parlare
con voce chiara, un soldato, è anche questa volta l’analogia evangelica è
forte).
Soldato
("avvicinatosi ad Anselmo e inginocchiatosi di fronte
a lui") “Signor padre, i tuoi figli ti chiedono supplici, mediante la mia voce, di
non turbarti in cuore per ciò che hai udito, ma di ricordarti del beato Giobbe
che ha vinto il diavolo sul letamaio e vendicato Adamo che il diavolo aveva
vinto nel paradiso”.
“Il re venne
a sapere tutto questo e fu sconvolto dall’ira. Guglielmo, vescovo di Durham,
portavoce del sovrano in questa faccenda, era del parere che si dovesse costringerlo
con la violenza e, se non avesse acconsentito, che gli venissero tolti il bastone
pastorale e l’anello e fosse espulso dal regno. Parole che non piacquero ai
baroni”.
Guglielmo
II “Che cosa vi piacerà, se ciò non vi piace? Finché vivo non sopporterò in
alcun modo di avere un rivale nel mio regno. E se sapevate che appoggiava la sua
causa su una tale forza, perché mi avete lasciato cominciare questo processo
contro di lui? Andate, consultatevi, perché, per il Volto di Dio, se non lo
condannerete secondo la mia volontà, sarò io a condannare voi!... E voi, miei
vescovi, che dite?”.
Coro
dei vescovi “Siamo profondamente dispiaciuti di non poter
soddisfare il tuo volere, signore. Anselmo è primate, non solo di questo regno,
ma anche della Scozia, dell’Irlanda e delle isole adiacenti, e noi siamo suoi
suffraganei. È chiaro dunque che non possiamo né giudicarlo né condannarlo in
alcun modo, anche qualora, e non è questo il caso, si possa accusarlo di
qualche colpa”.
Guglielmo
II “Che resta dunque? Se non potete giudicarlo, almeno potete rifiutargli
la fedeltà di ogni obbedienza e l’amicizia della vostra fraterna compagnia?”.
Coro
dei vescovi “Sì, questo possiamo farlo se tu ce lo ordini”.
Guglielmo II “Affrettatevi dunque e fate prontamente quanto dite, affinché, quando si vedrà disprezzato e abbandonato da tutti, si vergogni e pianga di aver seguito Urbano disprezzando me, suo signore”.
"I vescovi, uniti a sé gli abati, riferirono al padre, manifestandogli il loro rifiuto di obbedirgli per soddisfare la volontà del re".
Anselmo "Sento ciò che dite... Se rifiutate ogni sottomissione, fedeltà e amicizia che mi dovete come primate e vostro padre spirituale, non agite come dovreste. Dio mi guardi, tuttavia, di rendervi la pariglia... Quanto al re, che mi priva di ogni protezione e dice non volermi considerare come arcivescovo o padre spirituale, gli prometto che, per quanto mi riguarda, come un padre continuerò a prendermi diligente cura della sua anima".
Guglielmo II (rivolto ai baroni) "Ciò che dice suscita in me un profondo disgusto. Proprio perché voi siete baroni del mio regno, rifiutategli senza indugio, come hanno fatto i vescovi, ogni fedeltà e amicizia, di modo che sia chiaro quale vantaggio trarrà da quella fedeltà che conserva alla sede apostolica, facendo offesa alla mia volontà".
Coro dei baroni "Non siamo suoi uomini né possiamo rinnegare una fedeltà che non gli abbiamo mai prestato. È il nostro arcivescovo, deve governare la cristianità in questo paese e, per tale ragione, noi che siamo cristiani non possiamo rifiutarci di riconoscere la sua autorità finché viviamo quaggiù, tanto più che non v'è traccia in lui di alcuna colpa che potrebbe portarci a trattarlo in modo diverso".
"Il re, trattenuta la collera, sopportò questa risposta, guardandosi dal contraddire apertamente il loro giudizio per non offenderli troppo. Nel vedere ciò, i vescovi mostrarono un grande imbarazzo, comprendendo che gli occhi di tutti erano puntati su di loro e che tutti non senza ragione disapprovavano la loro apostasia. Se tu fossi stato presente, avresti sentito or l'uno or l'altro, con uno sbotto di indignazione, indicare questo o quel vescovo con vari soprannomi come: Giuda traditore, Pilato, Erode e altri simili".
È necessario a questo punto un inciso. Sarà più merito dei baroni che dei vescovi (con la sola eccezione di Gondulfo di Rochester, guarda caso con lo stesso nome, ma versione in positivo, del ben poco tenero padre dell'aostano) se nel concilio di Rockingham verrà trovato un compromesso. La cosa non stupisce dati i numerosi compromessi a cui era sempre costretto un re feudale con i suoi vassalli più armati. L'immagine dura a morire di un medioevo tutto alleanza cristianissima fra trono e altare e sistema feudale ben impostato - vassalli, valvassori e valvassini con tanto di mito della "cavalleria" - non è altro che una vulgata da ancien régime rimasticato in salsa romantica nell'Ottocento. La realtà storica è un'altra. È un gioco di contraltari fra poteri che rivendicano tutti, direttamente o indirettamente, un'origine sacra. Guglielmo ricatta i vescovi mettendoli letteralmente all'angolo nel suo castello, previo il pagamento di cospicue somme per tornare nelle sue grazie. E Anselmo, tutt'altro che ingenuo, ben conscio di essere il primo dei baroni e della tendenza dei suoi colleghi laici a trovare pretesti di ribellione, gioca la carta dell'esilio volontario.
"All'udire ciò, il re rimase profondamente turbato. Infatti, pur desiderando più di ogni altra cosa la partenza di Anselmo, non voleva tuttavia che partisse rivestito della dignità arciepiscopale, temendo che il nuovo scandalo che poteva derivarne fosse peggiore del primo. Ora vedeva che gli era impossibile privare Anselmo del pontificato. Così, in preda all'agitazione senza curarsi del consiglio dei vescovi, del quale si lamentava perché l'aveva gettato in queste angosce, il re tenne consiglio coi suoi baroni chiedendo loro ciò che si dovesse fare. Essi gli proposero di far ritornare Anselmo".
Coro dei baroni (rivolto ad Anselmo) "Mossi dall'antica amicizia nei tuoi confronti, ci rattristiamo di questa discordia fra il re nostro signore e te. Perciò, desiderando ricondurvi alla vostra precedente concordia, abbiamo pensato che sarà utile in questo momento concedere da entrambe le parti una tregua".
Anselmo "Non rifiuto la pace né la concordia. A dire il vero, mi sembra già di capire ciò che implica questa pace che voi mi offrite".
"Una tregua venne dunque concessa fino all'ottava di Pentecoste e fu dichiarata e sancita con giuramento reale".
Una tregua dai fragili equilibri, dove il papato gioca la sua carta spedendo oltremanica Gualtiero, vescovo di Abano, col sospirato pallio arcivescovile (maggio 1095). Guglielmo risponde cercando di far leva sulla presenza di un antipapa, Clemente III, per farsi consegnare direttamente il paramento liturgico e tentando di barattare il riconoscimento di Urbano II con una cospicua somma di denaro. Progetti che vanno in fumo: l’influenza di Clemente è ormai confinata a Ravenna e zone limitrofe e il re ha troppi nemici interni ed esterni per prolungare le trattative. Si finisce con l’ennesima mediazione: il paramento viene lasciato sull’altare della cattedrale di Canterbury e Anselmo se lo indossa da solo stile Napoleone il giugno dello stesso anno.
È l’ultima vittoria del teologo e non durerà a
lungo. Gli interessi geopolitici di Guglielmo sono rivolti alla Normandia.
Fallito il tentativo di strapparla al fratello Roberto Cosciacorta, quando
questi parte alla volta della prima Crociata (1096), ne assume il temporaneo controllo
previo pagamento della spedizione e vuole quindi mani libere per nuove tasse,
anche a spese della Chiesa. Ennesima ironia della Storia è proprio il costo
della riconquista del Santo Sepolcro che pone le basi della prima perdita
dell’arcivescovado da parte di Anselmo, costretto a sostenere l’ipoteca del suo
signore feudale con oro e argento del tesoro di Canterbury (e ad alienarsi non
pochi ecclesiastici). Vent’anni dopo Eadmero scriverà di “denigratori che
ancora oggi accusano Anselmo di avere spogliato la Chiesa”. Già indebolito nel
sostegno del clero, l’anno successivo viene accusato da Guglielmo di aver
fornito, sempre in qualità di primo barone del regno, un contingente troppo esiguo di
truppe contribuendo quindi all’insuccesso della sua spedizione contro il
Galles. È la classica goccia che fa traboccare il vaso. Il re può finalmente
mettere alle strette il suo arcivescovo e porre condizioni inaccettabili che in
pratica lo costringono all’esilio. Esilio che farà suo, come scelta volontaria
nel segno di quell’”esilio in terra” del suo essere cristiano. “Deus vult” per
la Crociata e per la sua sconfitta. Come un eroe antico ha cercato invano di
combattere il Fato. Ma in tutti e due i
casi è stata dimostrata una forza che, per quanto sopraffatta dal mito o dalla
consuetudine, verrà riscattata dalla Storia.
“Anno ab
Incarnatione Filii Dei millesimo nonagesimo septimo” – così scrive
Eadmero usando il computo annuale che usiamo, non ancora di moda – in pieno
ottobre arcivescovo e scrivano si ritrovano a Dover, “trattenuti in quel luogo
per quindici giorni, poiché il vento ci impediva la traversata… Tutto il
bagaglio fu messo a soqquadro e perquisito nella speranza di trovarvi denaro”.
L’esilio durerà tre anni. Guglielmo trasferirà le
proprietà della primazia nel suo patrimonio, ma non riuscirà nell’intento
principale: togliere la carica al primate. Anselmo approfitterà del suo periodo
di anomia per incontrare i suoi sostenitori nel continente (e conoscere il nipote omonimo, figlio della sorella Richeza, monaco a San Michele della Chiusa), aggiornarsi (se non lo aveva fatto
segretamente prima) nelle ultime novità del diritto canonico romano e sostenere
con la sua dottrina le lotte del papa. Fino al giorno in cui, fatalità o
politica, durante una battuta di caccia una freccia sbucata da chissà dove fa
del re cacciatore preda. Il 2 agosto 1100 Guglielmo II muore e, per quanto il
duca di Normandia Roberto si affretti a tornare dalla Terra Santa, il trono va
più prosaicamente al fratello minore Enrico, sostenuto, non a caso, dalla
nobiltà inglese. Grazie a un altro compromesso fra monarchia e Santa Sede, liberatasi anche dell'antipapa Clemente (morto nel settembre dello stesso anno), Anselmo può tornare in Inghilterra.
Guglielmo II con la fatidica freccia (miniatura dagli Stowe Manuscripts)
Sello scontro che lo contrapporrà a Enrico I, dramma
che si compone di un secondo esilio e di un deus ex machina finale escogitato
dal nuovo papa Pasquale II, parleremo in una seconda parte.
Nel frattempo, dopo sette anni di fedele servizio, si andava consumando lo strappo fra Eadmero e il suo idolo. Il segretario si era segretamente trasformato in biografo. Risultato: quella Vita di Sant’Anselmo (pubblicata in traduzione sempre da Jaka Book nel 1987), ricca di raffinate psicologie pagate a caro prezzo dall’autore. Peccato confessato al successore dell’aostano, l’arcivescovo Rodolfo (di cui lo storico sarebbe diventato consigliere), che avrebbe ordinato di descriverlo in dettaglio come penitenza: “Quando avevo posto mano per la prima volta a quest’opera e in buona parte avevo trasferito alla pergamena ciò che avevo annotato sulla cera, un giorno il padre Anselmo mi chiamò in disparte, chiedendomi cosa stessi abbozzando o ricopiando. Avendo preferito velargli la cosa di silenzio anziché scoprirla, mi ordinò o di desistere dall’intento avviato e di dedicarmi ad altro o di mostrargli quello che stavo scrivendo. Gli obbedii volentieri, dal momento che già per altre opere che avevo composto mi ero affidato al suo aiuto… La mia aspettativa e la mia speranza non rimasero deluse. In questo libretto ha, infatti, corretto più punti, ne ha arrangiato alcuni, modificati altri, approvati altri ancora. Ne provai non poco piacere e ne trassi forse più orgoglio del dovuto... Ma pochi giorni dopo aver corretto l'opera, l'arcivescovo mi convocò a sé e mi ordinò di distruggere completamente i fascicoli... La presi molto male. Non osando tuttavia disobbedire del tutto a quell'ordine e non volendo che andasse perduto quello che avevo messo insieme con tanta fatica, lo presi in parola e distrussi quei quaderni, ma solo dopo aver ricopiato ciò che in essi era stato scritto su altri quaderni. Ciò che ho fatto forse non è esente dal peccato di disobbedienza”.
Factum est. Eadmero resterà segretario ma non sarà più “il figlio carissimo, bastone della mia vecchiaia” del primate. Ne risentirà anche la seconda parte dell'Historia novorum, meno coinvolgente e più povera di documentazione. Il dolore per questa perdita di intimità non abbandonerà più né lo storico né l'uomo. Che, in cerca di redenzione, tenterà di ritrovare parole di conforto nel teologo ricevendone risposte non esenti da un certo risentimento: "Né posso certo dimenticare in che modo mi abbia una volta risposto quando gli chiesi di rendermi partecipe della sua ricompensa nei cieli, così come mi aveva avuto compagno di fatica su questa terra. Disse che certo l'avrebbe fatto con gioia e volentieri, se solo avessi provveduto a non essergli di troppo peso".
Oggi il peccato che laicamente, molto laicamente, perdoniamo è quello di Anselmo. Alle cui opere dense e brevi accosto con piacere lo splendido mattone del suo discepolo. Nel piccolo paradiso privato della mia biblioteca.
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