venerdì 13 gennaio 2023

50 ANNI CON PICASSO

Commento musicale Eliane Radigue, L’Île Re-Sonante 

Altri miei testi recuperati in tempo per l’anniversario della morte di Picasso. Altri dialoghi fra lui e protagonisti dell’arte fotografati dal caro, compianto amico André Villers per la mostra REFLEXions dans les chambres d'André Villers, curata da Debora Ferrari e dal sottoscritto ad Aosta nel 2008. Letti durante la presentazione del nostro catalogo al Salone del Libro di Torino dello stesso anno.


ARTI QUOTIDIANE


Picasso

La conquista del quotidiano, la più difficile per un artista. Dipingere una casa. La casa. Ma le sue linee devono compensare quelle di un cardiogramma. Tetto, pareti, finestre, contenere tutte le vertigini di quegli impulsi e non darlo troppo a vedere, sennò i vicini, il prossimo, si spaventa. Il fuoco, uscendo dal camino in forma di fumo, continuerà il suo dialogo col cielo. E sulla terra, qui, a Mougins, sarà come condividere sigarette con amici. Parlando del più e del meno che fa battere i nostri cuori.

Hans Hartung

La conquista dell’arte ogni giorno, Pablo. Specie se una patria te la marchia come “degenerata” e devi combatterla in una guerra vera, in una legione straniera, perdendo l’uso delle gambe. La meravigliosa ciclicità del vivere, allora, è questo rullo che stendo su ogni tela per incidere i miei graffi. André lo sa che io cerco di strappare in questo modo al tempo della storia i suoi perché. Non spreca inutili parole, richiede azioni precise la nostra vita, la nostra arte.

Michel Butor

Anch’io che prendo forma nella foto e scrivo non perderò tempo. Metro dei versi: 0,75 litri. La misura concordata con André per il progetto Bouteilles de Survies. Bottiglie di sopravvivenza, perché non si vive di solo pane ma anche di quelle acque intellettuali care agli antichi filosofi, meglio se vino. Bere poesia: la cerimonia giusta oggi per consacrare pensieri, parole, opere a un tempo diverso da quelle due lancette in  competizione.

 

FORME NECESSARIE DEL SOGNO


Picasso

Evocatemi pure la metamorfosi, il sogno, il gioco e vi ringrazierò. Ma fate bene attenzione anche mentre facciamo un autoscatto io e il giovane André. Sognatori, la vostra carezza impalpabile per me è come trovarmi concretamente in Africa: comprendere la vita di ogni maschera e poi tornare in Francia a combattere ogni colonialismo, convinto dall’eredità più onesta del mio continente. Esperti dell’incubo che può diventare sogno, utopia, lotta per una realtà migliore, è dai tempi del cubismo che rimetto in discussione le vecchie prospettive. Da Guernica alla Colomba della pace, da un esilio di cui non vedrò la fine, io ricerco da sempre un punto di vista più alto certo della bellezza del mondo.

Max Ernst

Le mie mani quando accarezzano hanno unghie così lunghe che possono graffiare. Sogni o incubi, lasciano sempre un segno. Sta a noi, Pablo, a tutte le tecniche da inventare, cercare la strada per ricomporre grafie che altrimenti restano dentro come ferite aperte. Se il viaggio andrà a buon fine, la Loira disvelerà ancora una volta un bellissimo corpo di donna. Parola del mio sorriso e di questi capelli bianchi fotografati liberi e scarruffati al vento.

Hans Arp

Io accarezzo sempre le mie opere, perché hanno le forme tonde e sinuose della vita. Le scolpisco, le accarezzo e le lascio subito andare, perché la vita è inafferrabile. Ogni giorno cerco di rinnovare la mitosi di queste cellule e lascio prendere loro la forma dei miti ancestrali che sono dentro di me. Devi sentirle come ho scritto in poesia: “Lamentarsi, cantare, gemere, sospirare”. La cura che riservo a queste esistenze che vanno oltre la mia è la risposta alle forme imposte dagli orrori della storia. Il caso mi ha dato questa necessità.

Joan Mirò

“Noi ci salviamo in giochi più profondi”, Pablo: l’ha scritto Arp. E ci sono anche donne che hanno 100 teste -  Max ne ha fatto un romanzo-collage. Facciamo 1+1 e prima della somma inventiamo una nuova matematica. Usciamo dalla nube degli atomi come nella mia foto in bianco e nero. I colori poi daranno un’altra presenza. Quella dei bambini che fanno un mosaico di tutti i sassi colorati di Pollicino e poi lo disfano subito per dar vita a un altro. Tu resti in Francia e io torno dove la Spagna è meno Spagna nel ’40, a costruire labirinti dove giocare con biglie sempre di nuovi colori. Mi servono 35 anni per vincere la dittatura di Franco. Poi vince anche l’arte.


TRATTI, RESPIRI E ALITI DI VENTO


Picasso

C’è un ultimo ritratto che ho lasciato alla tela un anno prima della morte. Dopo tante opere dedicate all’amore ho visto in faccia proprio lei. E forse non era qualcosa di diverso. Ogni passione ha la sua sindone. Ogni tratto dipinto, per quanto fluido, conosce il gelo quando è compiuto. È una questione di passaggio di stati. Chi vedrà il quadro, se lo ama, riattiverà la chimica dell’arte.

Fellini

André mi ha fotografato per strada, per La strada. E in ogni tratto di strada, quando sono in crisi, trovo te, Pablo, come compagno di viaggio. Eppure ci siamo visti una sola volta a Cannes, forse era il ’61. In sogni a occhi aperti non so quante altre, perché cerco di riprendere ogni scena muovendo i macchinari come un pittore cubista. Ti dedico la mostra contemporanea di artisti antichi nel mio Satyricon. Lascio agli spettatori tutte le illusioni della realtà, dello schermo. Noto che muori ma io tornerò a trovarti, in un’altra Prova d’orchestra. E questa volta non dovremo abbattere muri.

Léo Ferré

Parli del futuro in una foto, Fellini, ma io di muri ne avevo già abbattuti tanti prima che tu cominciassi a fare film. Perché le note possono abbattere ogni muro. E se ci riescono diventano canzoni. D’amore e di anarchia: quelle pareti devi averle già infrante dentro di te. Poi torna il tempo, che gioca a farci costruire, costruire anche inutili difese contro di lui. Respira, Leo, respira quest’aria di Toscana. André ha trattenuto il respiro per fare questa foto. Respira anche per lui. È come una pausa in un’altra canzone. La stessa di quando altri canteranno le tue.

Alexander Calder

Tu non sai quanto ho dovuto respirare, Leo, quando giocavo a football o a lacrosse. Amici che avete nel cuore l’Europa, ricordate uno sportivo americano che finì a Parigi per fare giocattoli e si ritrovò a doversi inventare un circo in miniatura per tirare avanti da una costa dell’Atlantico e l’altra. Arte portatile, come il mio amico Duchamp. Questione di correnti, oceaniche. Sennò perché fare il fuochista in una nave che aveva il mio stesso nome? Al largo del Guatemala ho visto nello stesso tempo il sole sorgere e la luna tramontare. E chi siamo allora per diventare artisti? Plasmiamo, attenti al ritmo, al respiro: se una cosa cade, l’altra sale. Quindi continuiamo a costruire. Statue ben piantate per terra e poi altre che si alzano in volo, mobili come rami leggeri e foglie al primo colore. Sto parlando di questo mentre mi fotografa André. E il respiro non muore se un’immagine è la sua. Tu sai che basterà un soffio o un alito di vento a far danzare ancora una volta la vita che hai scolpito.

Luca Traini


ANDRÉ VILLERS: PICASSO E GLI ALTRI Dialoghi in bianco e nero

Prévert, Boulez, Le Corbusier, Cocteau, Simone De Beauvoir, Xenakis, César, Clouzot, Ionesco


ANDRÉ  VILLERS, IL FOTOGRAFO DI PICASSO

Debora Ferrari, Luca Traini, REFLEXions (Aosta, Brenta, Venezia 2008-2010)

mercoledì 11 gennaio 2023

NON SOLO ALESSANDRO: FRANCESCA MANZONI, POETESSA Nel 280° dalla scomparsa

Commento musicale Maria Teresa Agnesi, Non piangete, amati rai 

Visto che tutti parleranno di Alessandro Manzoni per il 150° dalla morte io ricorderò invece la sua antenata Francesca, vissuta quasi un secolo prima e a lui congiunta, più che nel segno della biologia (lo scrittore è quasi certamente figlio della relazione fra Giulia Beccaria e Giovanni Verri), nel comune amore per la poesia. Perché Francesca, alias Fenicia per gli Arcadi, fu una protagonista della vita culturale milanese - ed europea, in quanto strettamente legata alla corte degli Asburgo - anche se purtroppo per breve tempo. Morì di parto nel 1743 a soli 33 anni, la canonica età di Gesù. E infatti l’intensa ispirazione cristiana dei suoi versi è proprio il segno distintivo che la accomuna al suo discendente. Un sentimento profondo poco di moda tanto agli albori dell’Illuminismo che durante il vuoto conformismo religioso della Restaurazione. Li unisce inoltre la professione di fede nella scrittura per drammi, il teatro in versi.

Tuttavia, se Adelchi o Il conte di Carmagnola li trovate in qualsiasi libreria, per avere subito a disposizione il capolavoro di Francesca, L’Ester, dovete rivolgervi a Google Books e sfogliare virtualmente l’edizione originale del 1733 (avendo fede 290 anni dopo nella rivelazione di una nuova edizione a stampa).


Artemisia Gentileschi, Ester e Assuero (1628-35)

Dramma tratto naturalmente dal Libro di Ester presente nella Bibbia, testo dalla genesi quanto mai complessa, presentato dalla scrittrice in un’introduzione dottissima (trenta fitte pagine), dove fa sue le interpretazioni del testo biblico greco dei Settanta e dello storico Giuseppe Flavio, che ambientano la vicenda alla corte del re dei re persiano Artaserse I Longimano.

C’è da sottolineare che la Manzoni, quasi da femminista ante litteram, ha quasi sempre posto al centro della sua drammaturgia donne come protagoniste. Ne fanno fede altri titoli che aspettano una riedizione contemporanea come La Debbora, La madre de Macabei, L’Abigaile. Tutte eroine bibliche, tutte scritture anche in forma di libretto per oratori o azioni sacre messe in musica da compositori in voga come Francesco Bartolomeo Conti o Luca Antonio Predieri. Stella polare di riferimento e colta mecenate l’imperatrice Elisabetta Cristina, consorte di Carlo VI.


J. G. Auerbach, Ritratto dell'imperatrice Maria Cristina (1730 ca.)

Di questa donna eccezionale, coronata di aura aristocratica, venni a conoscenza per caso, per lavoro, in tutt’altro contesto. Nel biennio 1987-88, ventenne ben lontano dall’essere laureato, ero stato chiamato a insegnare italiano alle Serali - le mitiche, preziose 150 Ore dedicate a encomiabili studenti adulti che di giorno lavoravano e riuscivano pure a trovare la forza di studiare - nelle Scuole Medie di Arcisate dedicate a un famoso artista, arcisatese, del Settecento: Benigno Bossi.


Più noto come il re degli stuccatori del Secolo dei Lumi, come scoprii nella biblioteca dell’università, era stato anche pittore e incisore. Ebbene dobbiamo proprio a questo artista, agli inizi della sua carriera, l’unico ritratto rimasto della poetessa: volto deciso, che ha chiaro quello che sa e vuole, ma fatica a emergere dal buio.


E pochissime notizie allora, poco tempo per me fra studio e lavoro. Il cognome da sposata dopo una parentesi in monastero, Giusti, da Luigi Giusti, letterato e librettista di quell’opera singolare che è il Motezuma (Montezuma) di Vivaldi: all’epoca un raro matrimonio d’amore (alla morte di lei, addoloratissimo, il vedovo si fece sacerdote). Il ruolo del padre, il giurista Cesare Alfonso, che, come il concittadino Pietro Agnesi con le figlie Maria Gaetana e Maria Teresa, aveva tenuto, controcorrente, all’educazione di Francesca tanto che la ragazza padroneggiava con totale sicurezza latino, greco, francese, spagnolo oltre a geometria e, chiaramente, diritto. Il fatto che lei, oltre a rime petrarchesche e in milanese, avesse tradotto i Tristia di Ovidio, sembrava un presagio…

Ma ne parlai alle mie splendide signore alunne della sezione distaccata di Cuasso al Monte, quando m’invitavano a prendere un tè prima dell’inizio delle lezioni del turno delle 17.30? Temo di no, ma sarebbe stato bello, anche perché i drammi di Francesca, al contrario di quelli di Alessandro, erano a lieto fine, come un diploma di terza media delle 150 Ore: il ragionevole ottimismo del nostro secondo dopoguerra, in fondo, era strettamente imparentato a quello dell’Età dei Lumi.


L'Ester di Francesca e la morte di Ermengarda nell'Adelchi di Alessandro a confronto

Dal 1733 al 1822, da L’Ester all’Adelchi: certi passaggi, specie nei cori, sembrano avere proprio lo stesso afflato. Quanto differisce è la speranza a chiare lettere nei versi della prima rispetto al pessimismo dei drammi romantici del secondo (che dovevano di prammatica celare fra righe e tenebre la loro brama di luce). Entrambi si mettono in gioco fra endecasillabi e settenari, ma è nel coro delle Donzelle ebree al seguito di Ester alla fine del secondo atto che sento degli echi vibrare in positivo attraverso un secolo, fino alla morte di Ermengarda (“Sparsa le trecce morbide”) o al confuso popolo italico che dovrebbe destarsi “dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti”: “Talor mentre si teme/ Che più non sia riparo/ Alle ruine, e ai danni/ Sorge la viva speme,/ Quasi un bel raggio chiaro/ Fra l’ombre; e i tristi affanni/ Fuga; indi scioglie i vanni/ A mille alti pensieri,/ E bei desiri ardenti/ Ch’eran sopiti, e spenti,/ Qual zefiro, dai fieri/ Geli oppressi, ravviva/ I fiori in prato, o ‘n riva”.


Nella metrica dell’antenata trova sempre spazio armonico quella Provvidenza protagonista della prosa dello scrittore de I promessi sposi, così ben descritta da Ester nella quinta scena dell’ultimo atto: “Non dorme providenza, ma ogni cosa/ Osserva, e in suo saver si riconsiglia:/Solleva chi è depresso, ed i superbi/ Di confusion ricuopre; ond’io ristretta/ Entro me stessa, a lei tutta in governo/ Mi pongo, e l’alto suo Giudizio adoro”. Sembra di sentire parlare Lucia Mondella prima di passare da regina a operaia (e di questo ringrazio il mio caro Alessandro).

Al di là questi riverberi c’è da sottolineare come anche la Manzoni dia rilievo a personaggi femminili legati a corrispettivi maschili negativi, sottolineando una superiore forza di spirito. È il caso della moglie di Aman (il persecutore degli Ebrei impiccato alla stessa forca da lui fatta costruire) che, dopo aver visto sterminare tutti e dieci i figli, di fronte al terrore della morte del marito grida “Dirassi almeno ch’io morii da forte” e si suicida pugnalandosi al petto.

“E l’alma disdegnosa si fuggì”. Un verso per lei, due rimembranze per la fine dei poemi di Virgilio e Ariosto. E tre Accademie che la videro prima attrice: la colonia milanese dell’Arcadia, quella dei Filodossi  e infine l’Accademia dei Trasformati, da cui avrebbe preso vita il primo Illuminismo milanese. Ironia della sorte, quest’ultima rifondata da Giuseppe Maria Imbonati, il padre di Carlo, compagno di Giulia Beccaria e soggetto del primo importante componimento poetico di Alessandro Manzoni. Dramma della storia, dramma ancora una volta tutto al femminile (per la vita sempre a rischio di tragedia delle donne dell’epoca): Francesca non poté assistere all’inaugurazione del 6 luglio 1743 perché era morta il 28 giugno, dieci giorni di calvario dopo il parto della figlia Angiola.


Ci piace ricordarla felice ancora al lavoro - magari impegnata nella stesura di quella storia delle donne erudite che il tempo e l’epoca le impedirono di completare - quando suscitò la meraviglia anche di un viaggiatore avvezzo a tutto come Charles de Brosses, a Milano nel 1739: “La Biblioteca Ambrosiana è così celebre in Europa... È aperta tutti i giorni, sera e mattina e l’ho sempre trovata, a differenza delle nostre, piena di gente intenta allo studio; ma trovai strano di vedere una donna lavorare in mezzo a un mucchio di libri latini: è la signora Manzoni, che ha il titolo di poetessa dell’imperatrice”.

Noi oggi non lo troviamo strano affatto, ma è merito di tante lotte che non devono mai cessare.

È merito anche di Francesca Manzoni. Che deve essere ricordata insieme ad Alessandro.

Luca Traini

Per un quadro della Milano dell'epoca vedi anche

Montesquieu a Milano: pagine e musica


lunedì 9 gennaio 2023

IO E MONTEVERDI

380 anni dalla sua morte? 

Certi anniversari funerei sono sempre discutibili, specie se riguardano l’arte. Io so solo che il Magnificat di Claudio Monteverdi lo amo con tutte le mie forze da quando scese a consolare una precoce fine di saltatore in lungo e triplo nel 1980. Mia madre, prima, aveva sperato che diventassi un violinista, ma in quattro tristi anni di liceo musicale avevo imparato solo la paura della pece, quella da spalmare l’archetto. In atletica invece ero stato io, adolescente irrequieto e indisciplinato, a distruggere anche sogni miei, dell’allenatore  e quasi la gamba che ho a sinistra.

Tirato via il gesso, zoppicando fino all’edicola, comprai quel fascicolo con disco della collana I grandi musicisti, perché c’era il ritratto di un uomo dell’età che mi interessava, il Barocco. L’amore per la storia mi era rimasto, almeno quello, e di musica volevo ascoltare solo quello che non si sentiva a scuola.

Tu, divinità così umana dall’armonia tanto strana e dolce, che al Verdi nazionale facevi preludere Monte, tu sì che trasformavi il calvario dei punti di sutura del mio quadricipite in un pentagramma dalla melodia sublime. Una donna decideva con tale soavità di curare nel proprio grembo un Dio che si sarebbe fatto uomo e sarebbe stato crocifisso (e io all’epoca ero molto credente).

Dai piagnistei sulle proprie sventure, ora sì, riuscivo a scorgere tra le lacrime qualcosa di incredibilmente più bello, come una carezza della Madonna di Michelangelo al figlio morto.

Quando si dice che il caso desta l’amore. Poi vengono i fiori se scopri che il brano è tratto dai Vespri della Beata Vergine e il compositore è nato a Cremona, di cui conoscevi solo il torrone e quello scrittore incapace di ogni misura, il vescovo Liutprando. E io allora coltivo l’amore più dei fiori, perché riesco a fare mia di lì a qualche anno anche un’edizione de L’Orfeo che quasi ti tirano in faccia, sempre perché c’è Monte prima di Verdi (solo all’università ho imparato ad amare anche Giuseppe).

Cosa c’è di più gratificante, per uno che spera di non essere disperato, di un mito di Orfeo rivisto e corretto? Dalla Toccata - l’Ouverture - al lieto fine che ancora oggi canto insieme ad Apollo che scende dall’empireo: “Saliam cantand’al cielo”. Che meraviglioso tradimento rispetto alle Georgiche di Virgilio!

Ma che importa? La passione mi guida in una nuova specie di orfismo dagli occhi lucidi che va dal teatro della Fabula di Orfeo di Poliziano - evocato nei miei Teatri di guerra - al cinema di Cocteau, dove nel suo Orfeo attraverso anch’io lo specchio per ritrovarmi oltre l’oceano, in Brasile, con l’Orfeo negro di Marcel Camus.

Poliziano e Botticelli: componimento di Orfeo, crepuscolo dell'Umanesimo

Passando per l’Euridice di Jacopo Peri e Giulio Caccini, le origini del melodramma e il suo trionfo con la sintesi già nel titolo - Orfeo ed Euridice - di Gluck, altro autore a me molto caro e poco ricordato come si deve, di cui racconterò presto.

Negli occhi le continue metamorfosi del mito in forma di storia, ora danzante in piena luce (Botticelli) ora al crepuscolo (Tiziano). Preghiera immobile di Giulio Romano a Palazzo Te, prima del crollo insieme ai Giganti, o doppia, in due quadri di Rubens (nel secondo Euridice sgrana quegli occhi alla coppia infernale: lei sa). La solitudine del poeta sulla terra abitata nel quadro di Poussin e poi il trionfo in cielo col Tiepolo nell’atto e nel secolo che segue  (preludio all’ottimismo dei Lumi, a Gluck).

Fino a Orfeo e Euridice di Alberto Savinio, che giocano a posare finalmente felici (forse) agli Uffizi.

Commento musicale (sempre suo): Orfeo vedovo (1950). Vedovo ormai solo di Poesia (parola dell’autore).

Beato lui. Beato di più chi torna a scrivere sulle note del Magnificat di Monteverdi.

Luca Traini

sabato 31 dicembre 2022

BUON ANNO NUOVO CON MUSICA E MUSICISTE DI VIVALDI

 

Nel 2023 saranno tre secoli esatti dal ritratto più realistico del genio veneziano. Uno schizzo, opera di Pier Leone Ghezzi, eccellente caricaturista e anche discreto pittore. Compositore ricomposto nell’attimo, quasi di nascosto, in una rara trasferta a Roma per il suo Ercole sul Termodonte al Teatro Capranica. Successo enorme, fin da quell’Ouverture dove un singolo strumento, il violino prediletto, trascinava per la prima volta l’orchestra ad ali spiegate dal Tevere all’entroterra del mito in Anatolia. Naso importante e dentatura superiore sporgente da epoca pre-apparecchio dentale, il Prete Rosso armato di parrucca e boccoli resta eternato nell’atteggiamento piacevole simbolo dell’epoca. Ghezzi, che si dilettava anche di musica, l’avrà certo incastrato per qualche cena-concerto a casa sua e uno come fa a dire di no, anche se gli piazzano davanti i difetti fisici invece di un bel ritratto ufficiale, quando tutto va bene?

Ma certo, tutto filerà liscio per più di altri tre lustri, nonostante l’asma che gli impedisce una messa intera da prete come dio comanda, i soldi mai abbastanza da permettersi un castrato di grido come Farinelli o Senesino, le critiche di colleghi come Benedetto Marcello e, nemo propheta in patria, i giudizi più favorevoli all’esecuzione del suo benedetto/maledetto violino che ai pentagrammi scritti a ritmo indiavolato dei suoi capolavori, sottovalutati specie dai conterranei, Goldoni in primis. La Serenissima sempre più prigione dorata. Poi la fuga a Vienna nel 1740, la sfortuna dello scoppio della Guerra di Successione al trono austriaco, che fa chiudere i teatri, e la morte l’anno dopo, seguita da un rapido oblio durato quasi due secoli.

Ercole che sconfigge le Amazzoni, ma solo perché le coglie di sorpresa. Oggi mi godo l’opera nella splendida versione di Fabio Biondi e ricordo ancora quando, più di trent’anni fa, ebbi un sussulto ascoltando la sua interpretazione delle Quattro stagioni dopo quella canonica di Salvatore Accardo: che meraviglia, sembrava hard rock, Jimi Hendrix tornato in vita nel Settecento! Dalla fine degli anni ’80 l’amore per la ricostruzione filologica della musica classica non mi ha mai abbandonato. Ma di questo ho già scritto nei miei Dispacci musicali.

Vivaldi non abbandonò le sue Amazzoni dopo la momentanea vittoria dell’eroe greco. Dopo Roma ancora Venezia, a oriente. Vittorie, plurale femminile, anche se orfane, abbandonate all’Ospedale della Pietà in quelle epoche orrende dov’era troppo facile considerare una figlia femmina peggio di un aborto (sempre bene ricordarlo). Se non altro Venezia dava ad alcune di loro qualche opportunità, sempre che sopravvivessero alle asprezze della vita e dell’educazione (altre sfide non da poco). Le migliori, e più fortunate, potevano diventare anche musiciste di valore a spese dello Stato. E che valore!

Parola di un uomo dai gusti difficili ma sincero come Charles De Brosses, autore di signore lettere di viaggio in Italia fra il 1739 e il 1740, dove incontrò musicisti del calibro Veracini e Tartini, che in qualità di esecutori ritenne meno coinvolgenti dell’Anna Maria delle Ospedalette: “Musica eccezionale qui a Venezia è quella degli ospizi… Fanciulle bastarde o orfanelle o che i loro genitori non sono stati in grado di allevare. Sono educate dallo Stato e le istruiscono esclusivamente per farne delle eccellenti musiciste…  Sono segregate come monache. E sono soltanto loro che eseguono concerti; ogni gruppo è composto di una quarantina di ragazze. Vi giuro che non c’è niente di altrettanto divertente come una giovane e graziosa monaca, in abito bianco, con una coroncina di fiori di melograno sopra le orecchie, che dirige l’orchestra e segna il tempo con tutta la grazia e la precisione immaginabili… Quello degli ospizi dove vado più spesso e mi diverto di più è l’Ospizio della Pietà; è questo anche il primo per la perfezione dell’orchestra. Che rigore di esecuzione! Soltanto lì si può sentire quel famoso primo colpo di archetto tanto a torto vantato dall’Opera di Parigi. La Chiaretta sarebbe senza dubbio il primo violino d’Italia se l’Anna Maria delle Ospedalette non le fosse anche superiore. Ho avuto la fortuna di sentire quest’ultima, la quale è tanto bizzarra che suonerà sì e no una volta l’anno”.

Senza contare che De Brosses Vivaldi lo aveva incontrato di persona. Il veneziano stava finalmente preparando come si deve la sua fuga all’estero e cercava di piazzargli i suoi manoscritti: “Vivaldi è diventato mio amico intimo, per vendermi i suoi concerti a carissimo prezzo. In parte vi è riuscito, come son riuscito io nel mio intento, che era quello di ascoltarlo e di procurarmi spesso qualche buona ricreazione musicale: è un vecchio dotato di una prodigiosa furia nel creare. L’ho sentito vantarsi di comporre un concerto più rapidamente di quanto impiegherebbe un copista per trascriverlo. Ho constatato con mia grande meraviglia che non è stimato quanto merita in questo Paese, dove tutto è soltanto moda, dove le sue opere si ascoltano da troppo tempo, e dove la musica dell’anno avanti non si esegue più”.

Le sue ultime parole mi ricordano qualcosa di molto attuale. E infatti l’oblio sarebbe presto sceso anche sulle ragazze della Pietà. Qualche anno dopo, pur godendo delle stesse armonie, Jean-Jacques Rousseau era già più predisposto a vederne i difetti fisici: gli angeli di De Brosses, anche se celati in parte da grate, rivelavano volti colpiti da vaiolo o da altre menomazioni. Come se gli uomini non avessero gli stessi problemi! Erano donne in carne ed ossa e alcune di loro non vollero rassegnarsi a essere solo grandi virtuose segregate, ma si cimentarono anche nella composizione. Altro velo di silenzio da poco diradato. Agata, Michielina e Santa della Pietà almeno le trovate su Wikipedia.

Nessuna nostalgia quindi della repubblica veneta, ma fiducia nella nostra, democratica, perché solo le conquiste democratiche della nostra epoca hanno saputo dare concretamente un valore a tutte le vere culture del passato, e per tutti. È bene ricordarlo, perché la nostra Sinfonia, la migliore di sempre, acquisti ancora più forza con questa musica.


Seguono tre frammenti dal mio dramma incompiuto Vivaldi e nostre signore.


Frammento con Ghezzi


Vivaldi

Anch’io faccio ritratti, sapete? Le mie opere saranno maschere, ma le note… le note sono precisi volti di donna, quelli delle mie musiciste alla Pietà. Le mie Amazzoni, che non temono nessun Ercole. I loro nomi io li scrivo in bella grafia all’inizio di ogni spartito. Lo strumento accanto è come il figlio e per il cognome che non hanno aggiungete pure Armonia o Invenzione: la vera progenie è questa.


Frammento con De Brosses


Vivaldi

Amate gli antichi e avete un buon orecchio, ma a cosa vi serve se della musica antica non resta quasi niente? “Flatus vocis”, il latino lo studiato anch’io. E cosa resta della mia musica se non questa carta? Se scrivo senza pace è perché so che, quando anch’io sarò antico, resterà solo questo. Prendetelo come il messale che non sono mai riuscito a leggere per intero - sapete soffro d’asma. Sulla carta, se mi manca il respiro, sulla carta basta scrivere una pausa. Ma ora basta pause, basta chiavi di violino, mandolini, ponti dei sospiri, basta.


Frammento delle compositrici


Agata

Io manco di quattro dita alla mano sinistra, per questo canto. Ma chi si mette a guardare le mani degli angeli? Contano le ali. E io con la mano destra ho scritto un testo perché continui a cantare la figlia che non ho potuto avere, Gregoria, che ha il nome più degno di un papa.

Santa

E io che sono Santa anche nel nome, non mi sono cimentata a musicare un Salmo di re Davide, quello che i compositori uomini inserivano nei Vespri della Beata Vergine? Ma quel Laudate pueri io l’ho dedicato ai figli che non ho potuto avere.

Michielina

Sorelle, io ho consacrato due figli a Dio, l’organo e il violino, e Lui, il mio dolce sposo, ha permesso che dalle cinque sbarre della mia prigione si liberasse l’inno al suo corpo glorioso. Pange lingua. Canta, lingua, canta almeno il seme della sua parola. E liberiamoci anche noi, sorelle, abbandoniamo a testa alta e nel segno della meraviglia questa vita che ci ha visto recluse.

Luca Traini

domenica 13 novembre 2022

CARAVAGGIO A LUCI SPENTE

Commento musicale Joep Franssens, Echo's

Ho ritrovato Caravaggio senza accendere la luce.

La vocazione, la scrittura, il dramma avvolti ancora nel fumo dei ceri appena spenti.

Nel buio tre versi, di un altro Michelangelo:

“O notte, o dolce tempo, benché nero,

Con pace ogn’opra sempr’al fin assalta;

Ben vede e ben intende chi t’esalta”.

Eppure basterebbe una moneta per accendere i riflettori sui quadri di Michelangelo Merisi, luce fissa come il sole invece delle candele che tremavano quand’era vivo, quando la luce strappata alle tenebre vibrava nei quadri al ritmo degli stoppini accesi, del fumo sinuoso, in balia di ogni respiro.

Invece il buio. La cecità di chi obbligò quelle opere a essere deposte in spazi così infelici. La museruola agli occhi della Controriforma, il rifiuto della prima versione di Matteo e l’angelo. Di Matteo non più arcigno esattore ma non ancora santo, bravo a fare i conti ma impacciato nello scrivere l’addizione più  complessa: un dio che si fa uomo e muore sulla croce degli schiavi. L’angelo che guida della mano, quell’angelo così giovane, è una soluzione. E allo stesso tempo un problema.

Semioscurità. Come la foto che resta del primo quadro, bianco e nero. Incendi. Nel cuore del pubblicano che diventa apostolo. Negli occhi del pittore, perché la forma emerge da un fondo atro. E l’incendio che rifiuta ogni metafora, quello che brucia trama e tela in una torre di cemento a Berlino (A.D. 1945).

Il Matteo che oggi sopravvive meglio all’ombra non ha più angeli al suo fianco, ma una creatura celeste che pende sulla sua intelligenza avvolta in un lenzuolo dal cerchio perfetto. Mente dell’uomo non più assopita, messaggero di Dio che trascende ogni gerarchia di sintassi per computare all’evangelista un miracolo politico: i gradi di parentela di Gesù col re Davide.

Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Cappella del cardinale Mathieu Cointrel, dove un verso di Jean De Sponde sta ai tre quadri di Caravaggio:

“E m’inabissa, mi scuote e m’incanta”.

Matteo che senza l’indice di Cristo a spalancare un vortice di luce viva resterebbe nella penombra di una finestra dai vetri opachi.

Matteo che muore e cade senza che sia bello cadere tre secoli prima di Rilke, goffo come un plebeo che non sa tenere in mano uno straccio di arma, quella palma del martirio che pure un angelo fatica a piazzargli in mano.

Il pittore si ritrae costretto a ritrarsi. Dov’è che l’evangelista o l’angelo avevano scritto: “Non sono venuto a metter pace, ma una spada”?

La pace è solo nostra, conquistata a fatica nei secoli. Luce elettrica e monete per accenderla. Per accedere e accendere l’arte nunc et semper.

Luca Traini 


Il mio dramma Morte di Caravaggio in https://lucatraini.blogspot.com/2014/11/caravaggio.html

Altro testo sulla chiesa di San Luigi dei Francesi in https://lucatraini.blogspot.com/p/amori.html

martedì 5 luglio 2022

ARCHETIPI DANZANTI Opere di Walter Tacchini

 

ARCHETIPI DANZANTI

Opere di Walter Tacchini

a cura di Debora Ferrari e Luca Traini

con Marco Castiglioni, allestimento Sara Conte

Museo Castiglioni Varese dal 9 luglio all’11 settembre

Inaugurazione con apericena Sabato 9 luglio Ore 18

Banca Generali Private Como dal 12 luglio all’11 settembre 2022

Inaugurazione con apericena Martedì 12 luglio Ore 18

PROROGATA FINO AL 6 GENNAIO 2023

Una doppia mostra a Como e Varese rende omaggio ai prodigi e alle fantasticherie di Walter Tacchini, artista di La Spezia dal respiro internazionale. Nelle sue sculture c'è il segno di una grande stagione della cultura europea che si muoveva tra Sartre, le sorelle De Beauvoir, Cocteau e Jacques Prévert. Oggi ottantenne sempre dedito alla creazione con una verve ineguagliabile (sculture, quadri e mobili rigenerati con Liguria Vintage e le opere collezionate da Crastan Caffè nella sua sede Romito Magra), a vent’anni Walter ha scoperto che le mani erano un efficace strumento di creatività e quindi ha cominciato a dipingere, fare statue, scolpire la pietra, intagliare il legno, giocare con qualsiasi materia malleabile. La svolta della sua vita data agli inizi degli anni Sessanta quando la ditta edile del padre era impegnata nella costruzione della nuova casa di Franco Fortini e di sua moglie Ruth a Bovognano, lungo la strada che da Ameglia conduce a Montemarcello. «Verso il 1962-63 Le Corbusier – racconta Tacchini – venne da Fortini, di cui era amico. È in quell’occasione che lo conobbi e che apprezzò il lavoro che facevo con mio padre. Mi fece guardare verso Carrara, verso le cave, e mi disse: “Tu sei uno scultore nato, perché non ti dedichi alla scultura?”. E’ così che Tacchini inizia a elaborare una vena creativa assolutamente originale, dedita al recupero di forme e archetipi ancestrali, ispirati sia alle stele antropomorfe lunigiane di 5.000 anni fa come alle maschere tipiche come nella tradizione del Carnevale storico di Ameglia dell’Omo ar Bozo che lui stesso risveglia e rinvigorisce coi suoi costumi fin dagli anni ’70.

“Considerare la cultura come forza formidabile e valore inesauribile è un segno distintivo che caratterizza l’impegno di Banca Generali Private di Como nella sua offerta in campo artistico. Questa fiducia incrollabile nelle capacità creative di dare un senso positivo alla vita dell’individuo e al suo rapporto con la società in cui opera per un progresso condiviso è in sintonia con la persona e l’arte, in perfetta simbiosi, di Walter Tacchini. Con la mostra a lui dedicata, Archetipi danzanti, presentiamo quindi una personalità dalla verve ineguagliabile, capace di esprimere quotidianamente tutta una serie di creazioni originali che spaziano dalla pittura alla scultura, giocando con qualsiasi materia malleabile”. Scrive Guido Stancanelli, District Manager BGP, con Daniela Parravano, nella presentazione in catalogo.

Dai manifesti per il Teatro di Strada, di cui è artefice insieme ai grandi nomi europei, ai quadri, alle maschere, alle sculture che realizza anche per enti pubblici come di recente a Lerici, alle Uova e ai mobili rigenerati di recente creazione per Liguria Vintage di Marco Natale, usando una ricca serie di materiali che vanno dalla ceramica al legno. Al Museo Castiglioni il percorso si articola in rapporto alla maschere africane della collezione dei fratelli Castiglioni, mentre a Como i quadri materici ci riportano al valore del simbolo e alla sua interpretazione contemporanea, sul tema del tempo e della luce, elegante e poetica per un totale di quasi 100 opere nelle due sedi. Le mostre sono state annunciate in una conferenza incontro alla Fondazione Sangregorio di Sesto Calende, partner culturale dell’iniziativa, il 25 giugno alla presenza dell’artista, di alcuni partner e dei responsabili della Fondazione.

Catalogo edito da TraRari TIPI editore in limited edition.



Lo spazio, tra fisica e sentimento vitale

[...] Per Walter Tacchini possiamo parlare di ‘pensiero tangibile’. Raccoglie ogni istante la storia dentro di sé, la metabolizza, la trasforma, la crea a propria immagine dando all’elemento intellettivo una forma destinata a durare e testimoniare il pensiero che l’ha generata. Tra fisica e metafisica le opere di Tacchini si collocano sia nello spazio illimitato che tutto contiene -con quel discorso di micro e macrocosmo che cogliamo nei lavori- sia nello spazio divino che nutre l’animo umano. C’è predominanza dell’elemento sacro in tutto, sia per l’esecuzione che per la poetica. Si vedano le forme delle sculture, delle maschere, delle stele, ma si raccolgano anche le gamme cromatiche usate per la definizione delle campiture e il risalto dei pani, sia bi/ che tridimensionali. Lo spazio è quindi condizione di esistenza per le sculture, naturalmente, ma diviene un concetto capace di contenerne altri, ritornando sia alla narrazione del tempo, sia alle radici recuperate e rielaborate. Questo nell’ottica della complessità della sua opera globale, ovvero nell’insieme di progetti e sculture, grandi e piccole, realizzate nella sua lunga e fertile carriera. Ma quando parliamo di spazio singolo di ogni opera il rapporto è 1:1 con il pubblico, da una parte una preghiera dall’altra una tauromachia. In che senso? Proprio nel confronto vitale: davanti a una scultura possiamo porci come in meditazione, ma anche in sfida qualunque cosa rappresenti o emani il soggetto creato. Si sentono le mani del demiurgo artista, si sente la sua forza dinamica, potendo raccogliere sia l’aspetto ispirato, sia il processo sofferto della produzione. Tutte le opere di Walter Tacchini contengono radici, tempo, luce, spazio, divino, sentimento. È la capacità di far danzare gli archetipi che ce le rendono tanto ancestrali e contemporanee così come contemporanee ma fortemente antiche. Nel per sempre, meravigliosamente.

Debora Ferrari


Foto della recente mostra all'Hotel Byron di Lerici (da La Gazzetta della Spezia)

Walter Tacchini è uno di quei giovani ottantenni che fanno impallidire chi è giovane solo all’anagrafe. C’è da chiedersi se il merito sia delle uova che continua a forgiare ogni giorno o del fatto che queste opere, che ti lasciano a bocca aperta per quanto sono belle, siano frutto della sua giovinezza senza età. Naturalmente no. La risposta esatta è la seconda. Quindi non voglio dilungarmi a discutere delle uova nella storia dell’arte – è chiaro che dietro c’anche la lunga covata estetica dei millenni – voglio piuttosto sottolineare che non si tratta di ellissoidi o sferoidi risistemati freddamente, ma di creature-creazioni vive e vivaci che sanno giocare con tutte le vibrazioni della luce e infondere nell’animo di chi le contempla quella gioia di vivere che solo la vera arte sa offrire. Il regalo, come nelle vere uova pasquali, è lo spirito di rinascita che sta dentro.

Poi, le maschere. Che non mascherano nulla, anzi, rivelano quanto mascheriamo. Una sfilata affascinante di se stessi che l’ordinarietà tende a ridurre a uno e invece sono la somma di un’individualità più grande. Perché in quelle di Walter, anche se le puoi godere esposte beate e tranquille, ci senti pulsare dietro il teatro, quello di strada (è un’altra via che ha percorso prima e durante l’insegnamento all’Accademia di Carrara). È il passaggio davanti alla porta di casa di tanti diversi io che sono altri e altro, che devi invitare a pranzo per mangiare e bere i frutti di quella terra da cui l’artista trae altro. Sempre per te. Walter non ama la distanza fisica, le religioni misteriche, peggio, l’élite. Lui ti guarda, di persona o nella magia di quanto compone, cerca il dialogo e il confronto come gli artisti di una volta, come quando Picasso passeggiava per Mougins e si fermava a parlare con le persone in giro. Come va? La vita, voglio dire. Se la vita e l’arte sono una cosa sola, e per tutti, va bene.

Luca Traini

Walter Tacchini ritratto da Roberto Battistelli

Classe 1937, nato a Romito Magra, frazione di Arcola (SP), Walter Tacchini è un artista unico nel suo genere. La sua prolifica carriera di scultore e pittore, grazie anche a una formazione sviluppatasi fra Italia e Francia, può vantare una lunga serie di collaborazioni e riconoscimenti a livello internazionale. Legno e ceramica sono i materiali che predilige per esprimere una sintesi assolutamente originale fra astrazione e figurazione. La sua forte personalità, caratterizzata da un’operosità inesauribile e da una continua attenzione tanto alle eredità del passato quanto agli aspetti più innovativi, non ha mai cercato un’arte fine a se stessa, ma un costante rapporto con altre dimensioni estetiche. Lo testimoniano i numerosi contributi al mondo del cinema e del teatro, grazie al design di costumi e maschere dalle metamorfosi sempre in atto. Da sottolineare, inoltre, il suo tenace impegno sociale nel corso degli anni e la promozione della sostenibilità ambientale anche in tempi in cui non era di moda. Un artista capace di far arrivare la complessità del suo lavoro dritta al cuore, grazie a una visione fuori dal comune unita a una limpida chiarezza d’intenti e realizzazioni. Un uomo caratterizzato da una risoluta volontà costruttiva, ereditata dai tempi in cui lavorava nell’impresa edile del padre. E proprio mentre era alle prese con la casa di Franco Fortini a Bavognano sopra Ameglia, verso il 1962-63, un gigante dell’architettura come Le Corbusier, ospite del poeta, si rivolse all’artista ventenne indicando Carrara e le sue cave: “Tu sei uno scultore nato, perché non ti dedichi alla scultura?”. “Come me, Le Corbusier era figlio di un edile e non era laureato” ha tenuto a sottolineare Walter in un’intervista a Repubblica nel 2019. Fatto tesoro di questo prezioso consiglio, nel 1966 Tacchini può già presentare a Sarzana la sua prima personale, che ripete l’anno successivo, quando espone le sue opere anche alla Mostra di Pittura di Castiglioncello ricevendo la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica Italiana. Nel 1968 amplia il suo raggio d’azione in Toscana, vincendo il Primo Premio alla mostra Mare e monti di Marina di Carrara, al Concorso Castello Malaspina di Fosdinovo e alla Galleria L’approdo di Viareggio. L’anno seguente, dopo essere stato presente alla VI Biennale Internazionale di Scultura di Carrara e aver vinto il Primo Premio al Concorso Luci e colori di Massa, approda a Milano dove è presente alla VI Mostra d’Arte Moderna e al Museo di Arte Moderna Pagani. Tra il 1969 e il 1970 partecipa ad esposizioni a Genova, Ancona, Carrara e Milano, oltre a compiere il primo passo verso il mercato internazionale quando viene premiato alla Prima Biennale Europea d’Arte Contemporanea a Dubrovnik. E proprio durante la VI Biennale Internazionale di Scultura di Carrara nel 1969 la sua opera suscita l’interesse del diplomatico Lionel De Roulet, che rincontra nello stesso anno a Bocca di Magra con Franco Fortini – durante uno dei classici “concili” organizzati da Giulio Einaudi - insieme alla moglie, la pittrice Hélène de Beauvoir (sorella della scrittrice Simone). Fra i tre si crea un legame di profonda amicizia, rafforzato dalla frequente presenza della coppia in Liguria, dove possedeva una casa a Trebiano, restaurata dal padre di Walter e comune di residenza dello stesso Tacchini. Una riconoscenza reciproca che si concretizzerà nel lascito dell’abitazione proprio al nostro artista e alla moglie Milena, quella che Hélène chiamava “ma petite famille italienne”. Nel 1970 è sempre De Roulet, a capo della Direction pour les Affaires Culturales del Consiglio d’Europa, a invitare Walter Tacchini a Strasburgo per la realizzazione di una scultura in arenaria dei Vosgi a Goxwiller. Nel 1971 è nuovamente in Francia, questa volta su invito della de Beauvoir, per realizzare una coproduzione di scultura mobile. Nel 1972 partecipa sia alla III Rassegna Internazionale di Primavera Atene-Roma che alla XII Biennale Europea d’Arte Contemporanea al Pireo. Torna nuovamente in Francia nel ‘73, a Montbéliard, invitato da Jean Hurstel al C.A.C. (Centre d’Action Culturelle) per interventi di Social Art (animazione di laboratori di scultura, serigrafia, maschere, scenografie, carnevali, ecc). Nello stesso anno, sempre a Montbéliard, realizza un bassorilievo in ceramica, viene nominato Socio Ordinario alla Permanente di Milano, espone alla VII Biennale Internazionale di Scultura di Carrara e partecipa alla Mostra Collettiva di Scultura presso Galleria Tre Papi di Sarzana. Nel 1974 approda a Parigi per iniziare la collaborazione con Albert Diato, ceramista che aveva a sua volta collaborato con Picasso a Vallauris, quindi partecipa alla X Mostra di Scultura all’aperto del Museo d’Arte Moderna Pagani di Milano e realizza scenografia e maschere della Commedia dell’arte al C.A.C di Montbéliard. Nel 1975 inizia la sua attività di docente all’Accademia di Belle Arti di Carrara, che durerà fino al 2005. Nel decennio che segue arricchisce ulteriormente il proprio percorso artistico fra Italia e Francia. Da sottolineare, nel 1976, l’esposizione di giornali e manifesti realizzati per i film di Armand Gatti a Parigi presso il Centre Pompidou. Nel 1977, con profondi interventi di Social Art insieme agli abitanti di Ameglia, inizia l’opera di rivalutazione dell’antichissimo carnevale autoctono L’omo ar bozo: fondamentale esperienza fra antropologia e arte che porterà avanti nei decenni successivi e di cui darà testimonianza anche nel libro L’omo ar bozo: dalla tradizione all’arte popolare, pubblicato dalle Edizioni Giacchè nel 2002. Sempre per un intervento di Social Art, nel 1980 viene invitato a Bruxelles dal Ministero della Cultura belga. Partecipa quindi al Festival di Avignone realizzando di un grandissimo affresco nel quartiere La Rocade. L’anno successivo cura la scenografia di Behren à tire d’aile per l’Action Culturelle du Bassin Houiller Lorrain (A.C.B.H.L.) a Freyming-Merlebach e riceve il Primo Premio Ameglia per la Grafica. Tra il 1982 e 1983 cura in Francia la scenografia di Grezgeschichten a Petite-Rosselle e la scenografia per l’A.C.B.H.L. Printemps de la Creation a Stiring Wendel. Nel frattempo consolida il suo impegno ambientalista con azioni di Social Art insieme a Lega Ambiente nelle manifestazioni La pace a Roma (1983) e In nome del popolo inquinato (1984). Sempre nel 1984 approda in Germania a Ingolstadt per la Mostra Collettiva Grafik und Malerei. Nel 1986, in Francia, cura la scenografia per Vita Lorraine a Saint-Avold. Nel 1987 torna a Sarzana per curare un intervento di arte sociale: Un carnevale diverso. Nello stesso anno realizza in Francia mostre personali a Saint-Avold e a Freyming-Merlebach. Nel 1990 partecipa al Convegno Internazionale Arte Sociale realizzando diverse scenografie sul tema dell’immigrazione per 37 gruppi teatrali. Gli anni dal ’91 al ‘94 sono dedicati soprattutto a contribuire alla costruzione di un importante laboratorio di ceramica con l’associazione culturale Radovan per il lavoro sulla statua-stele, rinnovando anche in questo caso una preziosa eredità, quella della statuaria della Lunigiana (attiva dal III millennio al VII secolo a.C.). Nel 1995 viene invitato a Strasburgo al V Congresso Europeo sull’Arte Sociale e, sempre a Strasburgo, l’anno successivo partecipa a L’art dans les Banlieues. Tra il 1997 e 1999 espone per ben due volte una propria mostra presso l’evento Cibus di Parma e partecipa nel ‘99 alla Fiera di Carrara. Tra il 1998 e il 2001 contribuisce alla realizzazione di un Laboratorio di Arte Sociale a La Spezia, dedicandosi poi nel 2000 a restauri e decori del piano inferiore della Parrocchia dell’Immacolata Concezione del suo paese natale. Sempre a Romito Magra, tra il 2000 e il 2002, realizza la decorazione interna ed esterna della fabbrica Crastan Caffè. Nel 2003, a Milano presso il Teatro ArtandGallery, cura la performance Omo ar Bozo all’interno della manifestazione I Semi di Joseph Beuys. L’anno che segue realizza per una campagna di sensibilizzazione ambientale di Acam il cartone animato Metano Energia Sicura. Nel 2006 viene inaugurato il Museo Aziendale Crastan Caffè che ospita le opere di Walter Tacchini. L’anno dopo, ad Arcola, presenzia alla mostra Terra di Luna all’interno della manifestazione Teatralità e Mistero e alla Collettiva Hombelico presso la palazzina delle Arti di La Spezia. Nel 2008, a Valencia, partecipa alla manifestazione Cultura e Solidarietà su invito de L’Agence Européenne de la Culture del Consiglio Europeo. Data al 2010 l’inizio di varie collaborazioni con architetti, attraverso concorsi di idee, mentre nel 2011 realizza a Milano una grande personale di maschere di ceramica. Del 2012 è l’esposizione permanente Kronos al Mandorlo di Sarzana. Nel 2013, presso l’Istituto Comprensivo di Vezzano Ligure, realizza con gli alunni un murales in ceramica (380x380). Successivamente compone una vetrata (184x162) all’interno di una villa milanese dell’Ottocento. Sempre nel 2013 restaura un ambiente interno di origine medievale in Sardegna. Nel 2017 organizza e allestisce una mostra itinerante dedicata a Hélène de Beauvoir, con la collaborazione di Marco Ferrari e col patrocinio del Parco di Montemarcello Magra-Vara sotto la guida del presidente Pietro Tedeschi: 21mila presenze. Nello stesso anno, al Premio Lions Club Lerici, premia la regista spezzina Federica Di Giacomo donandole una scultura. Nel 2018 vince il concorso La Spezia Porta di Sion per la riqualificazione del molo Pagliari e, l’anno dopo, cura di nuovo a La Spezia, presso il Museo Etnografico e Diocesano, l’esposizione temporanea Carlevà. Il carnevale nello spezzino tra Ottocento e Novecento. Sempre nel 2019 realizza la scultura Le ali della libertà, vincitrice del concorso nazionale La Spezia Porta di Sion. Inoltre cura una grande personale al Castello di Lerici, Kronos – forme luci e colori di Lerici, visitata da oltre 25.000 persone. In contemporanea, con la partecipazione di 75 ragazzi e 150 adulti, attiva un laboratorio di arte sociale dentro il Castello di Lerici che partecipa alla sfilata del Palio del Golfo di La Spezia. Nel 2019 inizia l’elaborazione e la trasformazione di mobili antichi riciclati. Nel 2020 ne espone diversi in Val Graveglia, nel comune di Pignone. Inoltre, una maschera antropomorfica in ceramica del carnevale di Ameglia Omo ar Bozo viene presentata al Museo delle Maschere Mediterranee di Mamoiada. E sempre in Sardegna attiva un laboratorio di arte sociale a Santa Maria Navarrese, nel comune di Baunei, dal titolo Gabbiano Guerriero Contro l’Inquinamento Globale. Nello stesso anno organizza e allestisce la mostra dedicata a Hélène de Beauvoir a Casté curata da Debora Ferrari. Nel 2021, sempre a Casté, prepara alcuni bassorilievi dal titolo Le pietre raccontano. Negli ultimi due anni, infine, si è sviluppata la collaborazione con Liguria Vintage e il suo ideatore, Marco Natale. Le opere della serie Il legno racconta sono esposte all’interno della fabbrica e dello showroom Liguria Vintage a Riccò del Golfo. La sua mostra più recente, composta da una preziosa raccolta di maschere e uova di ceramica, è di quest’anno, da marzo a giugno , all’Hotel Byron di Lerici. Il 18 giugno 2022 è stata inaugurata la sua grande scultura Ninfa sul Sentiero 501 di Casté.