AMORI


AMORI LONTANI? Guglielmo d'Aquitania e Beatrice di Dia
LE CHEVALIER DE SAINTE-GEORGE: IL "MOZART NERO" Amore per Libertà, Uguaglianza, Fraternità
LOVE ADA LOVELACE
DIETRO IL VENTO DI BUZZATI CON GIOELE DIX Articolo di Debora Ferrari
RICOSTRUIRE IL TEATRO La demolizione dell'anfiteatro in Via Porlezza a Milano
LILI BOULANGER, JEHAN ALAIN, FERNAND KHNOPFF, RENÉ CHAR Musica Sospesa
MARZIANO CAPELLA, LA PRIMAVERA DI BOTTICELLI E IL TERZO OCCHIO DELLA VENERE DI ANDY WARHOL
FRA GALGARIO Con preghiera di oggettività e malcelati tormenti
#IORESTOACASA COL GUERCINO
WATTEAU, GILLES L'occhio lucido, la maschera
ALESSANDRO MAGNASCO Tempeste prima dei Lumi
LO SCULTORE RITROVATO: STEFANO MOSSETTAZ (XV sec.)
DA CARAVAGGIO A CHATEAUBRIAND San Luigi dei Francesi
GIOVANNI SCOTO ERIUGENA E IL MAESTRO DI ECHTERNACH Connessioni di arte e poesia fra il Dante e il Michelangelo dell'Alto Medioevo
TRE ADAGI PER HOLBEIN IL GIOVANE
ANGELI COL FUCILE Quando l’amore divino diventa zelo incendiario (Perù, XVII-XVIII secolo)
GOTICO PER LA REGINA DI CUORI, NEOCLASSICO IL RE DI QUADRI Il genio architettonico di Karl Friedrich Schinkel fra Romanticismo e politica
LA FUGA DELLA GIOCONDA
TOTO', PASOLINI CHE COSA SONO LE NUVOLE?
PERTINI E GRAMSCI Dall'intervista di Enzo Biagi
PASOLINI, "SAN PAOLO" Il film mai realizzato che avrei diretto
INIZIAZIONE AL CINEMA Tornando su YouTube al Molière della Mnouckine e di Bulgakov
"SE NON TI AMASSI PIU' DEI MIEI OCCHI" Studemund: il filologo innamorato
TAVOLE FILOSOFICHE Barocco a Napoli fra cibo, arte e pensiero
JEAN-PHILIPPE RAMEAU Finezze della geometria dello spirito
GUILLAUME DE MACHAUT Amour me fai desirer
BEAUTY Amore per la Bellezza
COMBATTIMENTO D'AMORE IN SOGNO Hypnerotomachia Poliphili
BERGAMO: LA MUSA INNAMORATA DI PALAZZO RONCALLI
AUBREY BEARDSLEY L'incisore rapito
ENGUERRAND QUARTON Il pittore e il poeta
LIVRE DU COEUR D'AMOUR ÉPRIS Renato, il re senza regno e François Villon
MICHELE MARULLO E "ASSASSIN'S CREED" Un videogioco per la grande poesia dell'Umanesimo
BRACCIO DI FERRO E IL SURREALISMO
1978: ATLAS UFO ROBOT ALLA RAI Arte e geopolitica fra Giappone e Italia dal XVI secolo all’era dei Manga



AMORI LONTANI?

Guglielmo d'Aquitania e Beatrice di Dia

Nei sogni di ragazzo c’era l’incontro dei miei trovatori preferiti: Guglielmo, duca d’Aquitania, e Beatrice, contessa di Dia.  E un grande amore superava come niente cento anni di distanza. Meglio, come il “nulla” della canzone di Guglielmo, che inventava così, con questa noncuranza, mille anni di poesia in volgare. In quella Provenza dove tutto ti stordisce, dal calore del sole alla terra che sa di lavanda.

Gugliemo

“Una poesia farò di puro nulla:

non su di me né sopra gli altri,

neppur d’amore e di gioventù,

e di null’altro,

che anzi fu scritta mentre dormivo

sopra un cavallo.”

Il cavaliere dorme e sogna la sua bella. O la sogna ancora dopo essere stato con lei. Che a sua volta lo ricorda nel sogno a occhi aperti che ci unisce agli altri, la poesia.

Beatrice

“Bell’amico, gentile e valoroso,

Quando vi terrò in poter mio?

Giacere con voi almeno una sera

Per farvi dono d’un bacio d’amore!

Voi,invece che il marito,

A patto d’avermi giurato 

Di far tutto ciò ch’è in mio volere."

Ecco, nella poesia dell’amore avevano perso i loro titoli. Due esseri umani: tanto cercavo. Breve, fragile incanto.

Poi lo studio, com’è giusto, mi ha fatto riconoscere l’entità del privilegio e della convenzione. La mano che accarezzava, la stessa del macellaio: una spada per la crociata, una mannaia per il banchetto. La donna regina della luna alla luce del sole: semplice pedina di una politica matrimoniale.

E poi quello strano, misterioso rapporto – e era fu solo politica – con l’eresia dei Catari o Albigesi, così tormentata dalla castità nei più zelanti da eliminare il corpo con la morte volontaria per inedia (endura). Corpi sterminati comunque a inizio ‘200 – e con lo stesso zelo - per volontà della Chiesa di Roma e strategia della corte francese di Luigi IX, fatto santo anche per questo. Fine della musica.

Tutta questa ferocia, per quanto raffinata, mi ha reso esperto a non rimpiangere il passato. Ma l’emozione resta sempre viva ed è una lezione d’amore per il nostro presente, migliore e sempre da migliorare.

Per questo il duca armato di tutto punto per la prima crociata desidero sia cortesemente invitato da un musicista a spogliarsi delle armi e a danzare sul filo sospeso della storia fino alla sua amata. Paradiso terrestre o celeste, lo sceglieranno loro.

Io intanto frugo fra ricordi e carte vecchie di decenni e nel frammento rimasto di un mio dramma sui trovatori, forse l’unico, accenno così a loro probabile, impossibile dialogo:

 Guglielmo

Cos’è che sogni, contessa, a cent’anni di distanza: il sogno dell’amore o la sua lontananza?

 Beatrice

Sogno la vita che dà vita al sogno e vivo il sogno dell’amore: è quanto basta.

Luca Traini



CHEVALIER DE SAINTE-GEORGE

Amore per Libertà, Uguaglianza, Fraternità


Il successo di un film come 12 anni schiavo mi ha ispirato il ricordo di un grande amore musicale: Joseph Bologne Chevalier de Saint-George. Nato schiavo dalla senegalese Nanon e, probabilmente, da George (o Guillaume-Pierre) de Bologne, proprietario della piantagione di Baillif, avviato agli studi dal padre prima nella natia Guadalupa e quindi a Parigi, quest’uomo eccezionale avrebbe raggiunto l’eccellenza tanto nel violino che nella scherma (elegante e concreto modo per farsi rispettare, in tutti i campi). Di lui avrebbe scritto il futuro presidente degli Stati Uniti John Adams: “Quell’Americano è l’uomo più istruito in Europa in equitazione, corsa, tiro, scherma, danza e musica”.

Brevetto d'ami del Chevalier de Saint-George
("L'homme le plus prodigieux qu'on ait vu dans les armes", parola del maestro d'armi Antoine Texier La Boëssière)

Il “Mozart nero” (ma il nostro Joseph precede il compositore austriaco di almeno 11 anni e ha certamente influenzato la sua produzione per violino) sarebbe stato inoltre proposto come direttore dell’Opéra Royal nel 1776, incontrando però l’invidia, il razzismo e la decisiva opposizione dei suoi colleghi.


Appassionato non solo nel ritmo sempre coinvolgente delle sue musiche, ma anche nella difesa della libertà, avrebbe guidato la “Légion franche des Américains” durante la Rivoluzione Francese sostenendo anche la lotta dell’eroico Toussaint Louverture ad Haiti.

Il trailer del film di Claude Ribbe
Il documentario di Raymond St-Jean su https://www.youtube.com/watch?v=vILAgsHUlt8

"La musica ripiega su se stessa, scemando
Come fumo da galee blu,
Per dissolversi vicino alle montagne.
La musica si dispiega con
Le morbide vocali delle insenature,
Il battesimo dei vascelli,
I documenti di viaggio"

Derek Walcott, poeta caraibico, Premio Nobel 1992



LOVE ADA LOVELACE


L’inventrice del software (1815-1852), della scheda forata per il computer hashtagdi Charles Babbage hashtagda lei teorizzata sulla scia di quella per il telaio di Jacquard e che ha aperto la strada ad altre donne grandi scienziate informatiche come Grace Hopper, Hedy Lamarr e Katherine Johnson. Figlia del poeta George Byron e della matematica Anne Isabella Milbanke, racchiudendo già nella sua persona la sintesi di arte e scienza, Ada Lovelace ha ispirato Neoludica Game Art Gallery ed è stata sua “madrina” fin dalla prima mostrahashtag ad Aosta nel 2009. Il suo ritratto dipinto su legno da Samuele Arcangioli - hashtag"tecnologia" deriva dalla radice "tek","intelaiatura di legno" - è stato esposto con grande successo alla 54°Biennale di Veneziahashtag nella seconda grande esposizione hnella seconda grande hashtagdi Neoludica. E proprio per lei, sempre nel 2009, ho inventato una poesia in metricahashtag acrostica binaria:

has acrostica “binaria”: “Taglio, incollo, salvo e risolvo in cantO Hardware fatti di trine e di merlettI: È un software di sospiri che fa i contI, Ada, uno, e quel che resta è sempre zerO”.

English Version in https://lucatraini.blogspot.com/2012/11/love-ada-lovelace.html Video in https://www.youtube.com

L'endecasillabo binario (di cui questi sono i primi 4 versi) prevede al termine di ogni verso le vocali O e I, che ricordano i numeri 0 e 1 della matematica binaria.



DIETRO IL VENTO DI BUZZATI CON GIOELE DIX

Gioele Dix© Laila Pozzo

Amare Buzzati, la sua scrittura, il suo immaginario, significa sempre tuffarsi nel paradosso della vita e in quel paradosso trovare le (mancate) risposte di ciò che ci inquieta e anche ci conforta, nella conoscenza del vivere umano. Abbiamo tutti il nostro Colombre e tutti abbiamo scritto pagine di riso o di pianto con un lapis corto e smozzato.

Gioele Dix -che abbiamo aspettato fuori dal Teatro Sociale di Luino per complimentarci con lui e la co-attrice Valentina Cardinali, quattro parole intense scambiate con piacere reciproco e una stima che dura da trent’anni- ha saputo comporre uno spettacolo fedele a Buzzati e fedele a se stesso, al tempo odierno più che mail, alle nostre crisi irrisolte e anche alla bellezza degli incontri e del fermare il tempo con la letteratura. Un variegato mosaico di personaggi e vicende, strabilianti e comuni al tempo stesso, per ricordare Buzzati, nel cinquantesimo anno dalla sua morte.

Dino Buzzati in una foto degli anni '60

La corsa dietro il vento è un inedito viaggio teatrale grazie al quale Gioele Dix, ispirandosi a personaggi e atmosfere buzzatiane, parla (anche) di sé, dei suoi gusti, delle sue inquietudini, delle sue comiche insofferenze, con l’ironia a cui ha abituato il suo pubblico. Un progetto drammaturgico recitato e sentito con intensità e divertimento, che intreccia letteratura ed esperienza di vita e che il pubblico del Sociale di Luino -dopo l’introduzione dell’Assessora alla Cultura Serena Botta il 27 aprile scorso- ha dato prova di apprezzare con vari applausi a scena aperta, più volte.

Ambientato in una sorta di laboratorio letterario, ibrido fra una tipografia e un magazzino della memoria (con le belle scenografie e allestimenti di Angelo Lodi, costumi perfetti di Marina Malavasi e Gentucca Bini, musiche di Savino Cesario) lo spettacolo attinge dal ricchissimo forziere di racconti del grande scrittore bellunese (Sessanta racconti, Il colombre, In quel preciso momento) e compone un mosaico di personaggi e vicende umane nel quale spettatrici e spettatori possono ritrovare tracce di sé. Tra forza dell’amore, potere della memoria, inquietudine e mistero, Dix trasfigura Buzzati restituendocelo nella totale vitalità.

In due ore di spettacolo ininterrotto, se non frammentato dai numerosi applausi del teatro al completo, con cambi di personalità come di abito, momenti ilari e momenti di forte commozione con un pubblico senza fiato e coinvolto totalmente, Gioele ha fatto redivivere Dino Buzzati nella sua voce perennemente contemporanea, perché parametro dell’incognita del vivere dove spesso e non per forza si deve trovare la parola fine, si può anche lasciare aperto l’accadere. In attesa di un possibile lieto fine.

Debora Ferrari

deboraferrariartcommunication


Teatro Sociale di Luino

§ La corsa dietro il vento ha debuttato in anteprima assoluta al Sociale di Canzo lo scorso 22 febbraio (grazie a Circuito CLAPS) e in prima nazionale al Teatro Franco Parenti di Milano il 15 marzo scorso, a Luino sempre con CLAPS il 27 aprile. Info: segreteria@claps.lombardia.it – tel. 030 8084751.


RICOSTRUIRE IL TEATRO

La demolizione dell'anfiteatro in Via Porlezza












Vengo a sapere che il mio piccolo teatro di Milano, l’anfiteatro in Via Porlezza su cui avevo fatto un post quattro anni fa, è stato demolito per “opera di riqualificazione”. Mi chiedo quale visto che era perfetto: di piccoli anfiteatri dove far esibire chi vuole e condividere arte viva dovrebbe essercene uno in ogni quartiere. Se era in stato di degrado bastava restaurarlo. Purtroppo sono abituato alla mia Varese dove in passato il suo prestigioso Teatro prima Ducale e poi Sociale (inaugurato nel 1779) fu demolito sic et simpliciter nel 1953, preludio al boom del cemento, e un altro gioiello molto più recente, l’”anfiteatro sepolto” di Via Casula, progettato dall’architetto Marcello Morandini a inizio anni ’80, giace davvero sepolto e in completo abbandono. Ma dalla Milano che ho visto rinascere durante l’esperienza della giunta Pisapia - e con la stima che nutro per il sindaco Sala e il suo staff - proprio non me l’aspettavo. Addolorato due volte quindi, io che ho visto nascere questo microcosmo magico nel 1985 al primo anno di università e vi ho trovato l’ispirazione per i miei drammi su Caravaggio, Watteau e Lugosi, recitati agli amici o a chi passando voleva fermarsi su questi gradini. Scena e scalini, nella loro semplicità greca che ha dato vita a capolavori (la pompa e il fasto sono appendici ellenistiche e romane,  maschere doppie per epoche che sopravvivono a colpi di revival).

Per quanto riguarda il presente, devo purtroppo constatare con amarezza che persiste un doppio vizio culturale nel rapporto dell’Italia col suo prezioso, numeroso e ingombrante passato: dove prima si eliminavano tout court certe eredità sentite – non sempre a torto - come "vecchie" oggi spesso si esalta l’antico solo perché tale e non ci si pone troppi scrupoli a eliminare quanto si considera, ancora una volta, “vecchio”. Come se l’arte contemporanea, se non racchiusa in un museo o museo essa stessa, non abbia lo stesso diritto a esistere come eredità culturale (e chi parla è un esperto, in primo luogo, di storia antica e medievale). Questo è uno di quegli errori che ormai vengono fatti quasi inconsciamente, una coazione a ripetere.

Ben venga quindi l’iniziativa dei giovani del collettivo itinerante di poesia Tempi diVersi, che si sono mobilitati contro l’abbattimento dell’anfiteatro, dal 2013 uno dei luoghi dei loro recital itineranti. In questo video potete vedere i loro puntuali e appassionati interventi insieme a una vera e propria lezione sulla socialità dell’arte del giovanissimo ottantenne Danilo Pasquini, l’architetto del monumento.

Condivido le loro testuali parole: “Vogliamo che il progetto venga messo in discussione e che vengano prese in considerazioni le nostre voci, quella dell'architetto che costruì questo spazio e quelle di nuovi architetti ed urbanisti che su questo luogo hanno ideato progetti di restauro e rigenerazione all'avanguardia, con grande attenzione al contesto interessato a questo piccolo crocevia di strade. Vogliamo un nuovo anfiteatro che permetta alla cittadinanza di organizzare eventi culturali dal basso, all'aperto; vogliamo più spazi disegnati per unirci e condividere esperienze al di fuori del consumo, esigiamo che la città ci offra piazze come spazi di confronto ed espressione”.

Questa la petizione che hanno lanciato e che invito a sottoscrivere:

https://www.change.org/p/pierfrancesco-maran-vogliamo-l-anfiteatro-di-via-porlezza

Un grazie particolare allo storico dell’arte Victor Rafael Veronesi che, su Twitter, mi ha fatto venire a conoscenza dell’accaduto.

Luca Traini

Nota L'immagine della ruspa ai due lati della mia fotocomposizione è stata tratta da https://www.glistatigenerali.com/milano_territorio-ambiente/il-comune-di-milano-cancella-con-un-colpo-di-ruspa-lanfiteatro-di-via-porlezza/


domenica 25 giugno 2017

IL MIO PICCOLO TEATRO DI MILANO


Sta in via Porlezza all’incrocio con via Giulini, ma dovrebbe essere più di quest’ultima il mio piccolo teatro milanese, perché fu proprio lo storico Giorgio Giulini a dedicare un suo Ragionamento all’antico  anfiteatro romano della città meneghina. E io amo questo piccolo anfiteatro moderno e senza belve che sembra essere stato costruito proprio in suo onore.
La struttura è quella di un teatro antico in versione bonsai,  con tre lastroni che stanno alle tre classiche aperture sulla scena. Piccolo spazio, grande aggregazione.
Posti previsti: meno di cento, ma avvinti. In un incrocio - luogo perfetto per ogni rappresentazione - dove gli spettatori, quasi catapultati sul semicerchio dell’orchestra, pronti a immergersi nel mistero della finzione drammatica, avrebbero sentito dietro le spalle il brivido di un mistero ancora più concreto: una casa tagliata letteralmente in due, in orizzontale, con la porta murata ma a cielo aperto, come il teatro.


Ci passavo andata e ritorno quando andavo all’università e spesso restavo in raccoglimento davanti a quei gradoni, immaginando di allestirvi i drammi che stavo scrivendo. Mi piaceva che fosse una pausa di respiro chiusa fra edifici così alti, più difesa che prigioniera e, in ogni caso, ottima per decollare e sfidare le altezze. C’era e c’è tuttora accanto una piccola chiesa ortodossa dalle forme essenziali, a testimoniare comunque un’alternativa intima alle grandi finestre che la circondano, quelle dove rispecchiavo il mio pubblico e tutta una serie di allestimenti che avrebbero unito il contemporaneo all’ancestrale (da '900 Vampiri a Resurrezione e morte di Jean-Antoine Watteau). Il sogno continuava accompagnato dal lamento del treno dalla Stazione Cadorna alle Nord di Varese.


Il mio Caravaggio (1988) barcollava dalla casa tagliata fino ai lastroni di cemento della scena, all’epoca nudi, che rappresentavano il mare invalicabile e la perdita di salvezza dell’uomo, lo sciabordio ossessivo della risacca unito al rumore di fondo delle auto che passano. Tre pescatori, lo stesso numero dei lastroni, sempre da quella casa decapitata, lo scorgevano sul punto di svenire. Ma uno solo ne avrebbe avuto pietà - il Cristo uomo sulla croce, non il Padre, non lo Spirito Santo della Controriforma - lo avrebbe accompagnato alla morte.


La mia riflessione è fuori scena ma in argomento, in cima al Sacro Monte di Varese.
Il mio piccolo teatro, come Milano, è all’orizzonte, in fondo, a sinistra.




LILI BOULANGER, JEHAN ALAIN, FERNAND KHNOPFF, RENÉ CHAR

Musica Sospesa

Nous n’appartenons à personne sinon au point d’or 
de cette lampe inconnue de nous, inaccessible à nous qui 
tient éveillés le courage et le silence.
 
Non apparteniamo a nessuno, se non al lampo
di quella lampada ignota, inaccessibile,
che tiene svegli il nostro coraggio e il silenzio.

René CharFeuillets d’Hypnos (trad. Vittorio Sereni)


Ci sono state sere in cui mi hanno detto di non essere triste, loro che già in vita passarono lievi senza piegare uno stelo d’erba. Se mi chiedi il nome di due angeli rispondo: Lili e Jean. Lei le ali spezzate quando aveva solo 24 anni e la Grande Guerra era lì per finire. Lui in combattimento, all’inizio della Seconda, 29.
Due lampi della lampada ignota di Char. Lili Boulanger: Di un mattino diprimavera o Di una sera triste. E il silenzio che si fa musica nel Giardino sospeso di Alain. Ascolta bene quando la luce apre gli occhi o diventa uno sguardo sottile.
Pochi hanno amato lo spirito della vita come Lili Boulanger e lo stesso numero il sogno dell’anima di Jehan Alain. Respirano attraverso gli spazi vuoti di cinque lunghe – ora impalpabili – ferite.





MARZIANO CAPELLA, LA PRIMAVERA DI BOTTICELLI
E IL TERZO OCCHIO DELLA VENERE DI ANDY WARHOL














Sembra più antico un quadro di Botticelli o la sua rivisitazione su Commodore Amiga? Anche se storico di formazione, propendo per la seconda. Le prime prove dei nuovi strumenti espressivi ricalcano di norma le più vecchie dei media che li hanno preceduti. E neppure un decennio è passato dalla riscoperta dei floppy disk di Andy Warhol, che, poco prima di morire, ai primi singulti della game art, aveva ritratto Debbie Harry dei Blondie e la sua bionda antenata toscana, col giusto terzo occhio della rivisitazione.
Nella stessa seconda metà degli anni ’80 il filosofo Giovanni Reale iniziava  a interrogarsi sulla vera natura della “primavera” botticelliana. Approdando, a inizio nuovo millennio, a quella splendida pubblicazione di ideaLibri in cui sostiene che il quadro in realtà rappresenta Le nozze di Filologia e Mercurio.
La scoperta mi ha trovato pienamente concorde. L’opera monumentale in prosa e poesia del grammatico afrolatino Marziano Capella (IV-V sec.) è uno dei libri a me più cari (anche perché posso leggerlo liberamente e non come terribile mattone nelle scuole di medioevo e primo Umanesimo). Dopotutto quanti testi scolastici partono da una storia d’amore? E Filologia, per sposare Mercurio, deve trasfigurarsi in divinità, vomitando soavemente tutti i libri del sapere offerti dalle Muse, com’è nell’originale, o fiori, secondo il genio dell’artista fiorentino.
Questa è una delle Connessioni Remote di Neoludica presentate alla 54° Biennale di Venezia.




FRA GALGARIO

Con preghiera di oggettività e malcelati tormenti

Commento musicale P. A. Locatelli, Capricci per violino solo


Fra Galgario

Il mondo è quello che è… L’arte deve renderlo bello come la religione, che lo redime. Una pennellata per ogni peccato. Una confessione. Ma non possiamo assolvere tutti. Nel nostro secolo l’arte, questo è vero, cerca di trascinarli fuori dall’ombra, ma anche noi che confessiamo sulla tela abbiamo i nostri peccati. Non è vero, Cerighetto?

(Cerighetto tace)

Non dici niente? Non li hai ancora fatti i tuoi peccati? No, per come ti ho ritratto tu sei, tu sarai sempre immune da ogni peccato.

Amo gli occhi grandi dei giovani, così famelici di vita… I miei ho dovuto, voluto chiuderli presto a questa fame così… che sembra insaziabile. Perché le rose non sono solo quei petali che durano tanto poco. Le spine, ti sto parlando di spine che invece tardano a morire. Perché si deve soffrire parlando di fiori? Questo è uno dei misteri più grandi.

Tu non sei come questi signori sfioriti che devo ritrarre infarciti di petali rubati. Come queste dame rinsecchite che anche quando sono floride mi fanno paura. Pensa che una giovane scostumata finì per mostrarmi il seno in segno di sfida perché l’avevo troppo rivestita! “Dio me l’ha dato e guai a chi non lo mostra”! La Vergine ce ne scampi che non abbiamo più i denti da latte: vero, ragazzo?

(Cerighetto tace)

Se continui a tenere la bocca chiusa come puoi far bella mostra dei tuoi denti? Questi, sulla tela, durano per sempre. Nella realtà, quella che sfugge a ogni cornice, possiamo soltanto sorridere a labbra costrette per quanto siamo sdentati. E poi devo dipingere chi difende a morsi la propria parrucca in lotta perpetua contro i pidocchi. Un grande cappello, un tricorno, e una mano che si nasconde sotto la camicia, per grattarsi con discrezione, perché il potere di un aristocratico, di un artista che dipinge le carnagioni senza pennello ma sporcandosi con l’anulare come faccio io – è un matrimonio combinato col mondo, che dovrebbe essere mondato, ma è quello che è.

(Cerighetto forse sorride, ma continua a tacere).


#IORESTOACASA COL GUERCINO





#AndràTuttoBene, come quando da piccolo creavo storie con i quadri di Guercino. Da quel passaggio silenzioso nella notte di quella carrozza dove neppure le ruote, neppure gli zoccoli ferrati dei cavalli fanno rumore. Sono scesi dalla barca i signori che trasporta? Parlano? Bisbigliano? Oppure indicano la piccola folla sullo sfondo, le due donne che sembrano fantasmi? C’è una fortezza. E’ chiaro di luna. Le nubi stesse pare emanino luce. Il viaggio andrà a buon fine.
La Notte si sveglierà e cullerà i suoi bambini. Dirà forse anche una parola di conforto alle due persone che ci stanno fissando dalla tela. Il pipistrello tornerà nella sua grotta, la civetta in cima all’albero. E come per magia l’arco rotto si ricomporrà.
E’ l’Aurora, è un altro carro, e questa volta vola in cielo, un aeroplano antico che rilascia fiori che atterrano lenti lenti, come un tempo sulla mia spiaggia gli inviti per il circo.
E verrà la Mietitura. Sarà il racconto del raccolto, come quello dei miei nonni. Nel quadro una sobria abbondanza, un mito antico e duro a morire, una finzione barocca. Così nel tempo ho seminato giudizio nella prima emozione. Senza perdere lo stupore.
Perché era comunque un lieto fine.
È quel che conta.



WATTEAU, GILLES

L'occhio lucido, la maschera



Watteau
Gilles
Come sei triste Gilles
Gli ultimi giorni a Parigi
Prima di fuggire
Li abbiamo passati insieme
In un buio scantinato

L’uomo a cavallo dell’asino
Niente paura creatore
Facciamo noi la guardia al suo Gilles

Watteau
Gilles mi sei venuto alla luce
Che quasi ero cieco

L’uomo vestito di rosso
Strana bestia l’asino
Occhi nobili di pietà
Intelligenti

La donna
Povera piccola bestia
Non scalciarmi
Non scalciarmi

Watteau
Guarda l’uomo col cappello a cresta che ho dipinto dietro di te
Pieno di stupore
Ma tu Gilles
Sei così lontano

L’uomo a cavallo dell’asino
Non ride
Non piange
Forse attende una carezza dagli alberi
Ma vedete
Vedete le fronde sono ancora lontane

Watteau
Non ride e non piange
Forse una foglia un fiore
Che non ho dipinto

L’uomo a cavallo dell’asino
Guardate il mio asinello
Anche gli animali piangono sapete?
Ma l’occhio resta lucido
Come quello di un pittore

Watteau
La maschera resta sospesa e non piange
Le mani disegnano mani con la sanguigna
I disegni restano segni senza colore

Chiudi
Chiudi quegli occhi ragazza
Il quadro è finito
Vedi altri estratti dell'opera in


ALESSANDRO MAGNASCO

Tempeste prima dei Lumi


Il mio Maestri del Colore di Magnasco lo ricordo da sempre copertina sgualcita, pagine usurate semistaccate, come sarebbe piaciuto a lui. La Madonna che scatena gli scheletri contro i ladri profanatori (“Attento a fa’ li peccati” commentava nonna): che bello partecipare scarabocchiando altre carcasse anche qui dopo quelle nel Trionfo della morte di Bruegel!
Magnasco però non era libero in salotto come il Bruegel di mia madre: stava in un cassone nella camera dei nonni. Contemplavo lì dentro i suoi frati bislunghi e attorcigliati in biblioteca o nel refettorio enorme e freddo. Meglio quando erano ammassati intorno al focolare, coi piedi quasi sulla brace: bello sfogliarlo a Natale.
Poi, crescendo, senza smettere di amarlo, sentii sempre meno quel fuoco. Leggendo La scienza nuova di Vico mi pareva di sentirvi risuonare i primi bubbolii duecento anni dopo il diluvio universale, quei lampi improvvisi e poi quel buio, senza cambio di scena con l’Illuminismo. La mia stessa musica era cambiata: l’Inverno di Vivaldi non più suonato da Accardo, ma quello più filologico e duro dell’Europa Galante di Fabio Biondi.
Così oggi, più che i convitati al Trattenimento in un giardino d’Albaro, guardo e mi perdo nel paesaggio oltre il muro.



LO SCULTORE RITROVATO

Stefano Mossettaz (XV sec.)


Avevo già  amato altre statue del sonno.

La Notte di Michelangelo, la sua poesia, a me particolarmente cara.


"Caro m'è 'l sonno, e più l'esser di sasso,
mentre che 'l danno e la vergogna dura;
non veder, non sentir m'è gran ventura;
però non mi destar, deh, parla basso."

Ilaria di Jacopo della Quercia,  dove la fatica di Eva scolpita sulla facciata di San Petronio si era sciolta in un sogno di infinita dolcezza.


"son di marmo
rassegnato le palpebre, il petto
dove giunge le mani in una calma
lontananza."

Pier Paolo Pasolini, Appennino


Poi, nel Tesoro della Cattedrale di Aosta, vidi i gisants di Stefano Mossettaz, “magister ymaginum”, ricomposti con amore dopo un lungo oblio.

Commento musicale Josquin Desprez, Missa L'homme armé

1430-1431 Per l'opera dello scultore: Bruno Orlandoni, Stefano Mossettaz

Il conte Tommaso II di Savoia,  innestato sul letto di morte come radice di una dinastia ascesa al titolo di duca (1416). C’è da credere sia stato  voluto proprio da Amedeo VIII –  passato alla storia anche come antipapa Felice V – probabilmente di passaggio ad Aosta nel 1430 per la concessione degli Statuta Sabaudiae. Ispirato, chissà, da quelle profetesse savoiarde cui accenna Enea Silvio Piccolomini (alias Pio II, papa con tutti i crismi) nei suoi Commentari: “Alcune streghe, che sono numerose in Savoia e predicono con magie e arti diaboliche il futuro, si presentarono ad Amedeo e gli predissero che sarebbe stato elevato al sommo pontificato”.
Il sogno del conte, del duca: un papa.
Ma l'artista scolpì un vescovo più bello. 

1420-1422 Per approfondimenti: Daniela Platania, Oger Moriset

Oger Moriset, pastore di due diocesi (Aosta, Saint-Jean-de-Maurienne) e due sepolcri, opera di Mossettaz. Ultimo vescovo-conte della “Roma delle Alpi”, con tutto il potere che ne conseguiva dopo la svolta conciliarista di Costanza (1414-1418).
Il mecenate, il signore, l’uomo ossessionato dalla morte sembrano riposare in pace nei precisi ricami del marmo della prima tomba. Vuota. Soltanto l’arte oggi, la pietra su cui fondò la sua chiesa.

Vedi anche Elena Brezzi Rossetti, Antologia di restauri

Una smorfia prende vita dalle labbra scheggiate di Francesco di Challant. Prigioniero del marmo, come il poeta Charles d’Orléans nel suo carcere, dopo l’ultima battaglia, cerca di ricordare stringendo le palpebre per l’ultima volta i suoi versi:

“Ballades, chanson et complaintes
Sont pour moi passées dans l’oubli”.

Invece è solo apparenza. Devo immaginare un corpo non ridotto a frammenti, ma vestito a festa con colori squillanti, come un principe Maya.
Dovrei, ma il tempo lascia la Storia nuda e al fasto preferisco ciò che resta nell’arte, il restauro pieno d’amore dei miei contemporanei.



DA CARAVAGGIO A CHATEAUBRIAND

San Luigi dei Francesi


Ce beau flambeau qui lance une flamme fumeuse
Sur le vert de la cire éteindra ses ardeurs
L’huile de ce Tableau ternira ses couleurs

Jean de Sponde

Commento musicale Jean Titelouze, Pange lingua



Ho ritrovato Caravaggio senza accendere la luce.
La vocazione, la scrittura, il dramma avvolti ancora nel fumo dei ceri appena spenti.


San Luigi dei Francesi: chiaroscuri.


 Dentro c’è lo sposalizio del sole con le architetture di Plautilla Bricci.


Ce n’è un po’ anche per la tomba del Lorenese, traslato dal cielo di Trinità dei Monti.



Questa volta cercavo Pauline de Beaumont dalle Memorie d’oltretomba di Chateaubriand, che l'amava, che commissionò allo scultore Marin la sua lapide. E' dopo il tramonto del Sebastiano di Massei il candore di questa morte nuda. Il salotto della donna di lettere è un letto disfatto, la mano destra offre il corpo alle maschere dei familiari uccisi durante la Rivoluzione. Concreto e ormai fantasma, il volto sembra sul punto di essere assorbito dal muro. Rappresenta la fine, per consunzione, di un’epoca. E un amore sempre vivo nelle pagine dello scrittore: "D'un tratto respinse le coperte, mi tese la mano e serrò la mia con una contrazione; i suoi occhi si annebbiarono. Con la mano che le restava libera, faceva dei segni a qualcuno che vedeva ai piedi del suo letto; poi, riportando la mano sul petto mormorava: 'Eccola!'. Costernato, le domandai se mi riconoscesse: il barlume di un sorriso apparve in mezzo al suo smarrimento; ella mi fece un piccolo cenno di sì: la sua parola non era più di questo mondo".


“Fra lei e voi non c’è che una tenda trasparente, ma così pesante che non potete sollevarla” (Chateaubriand, Memorie d’oltretomba, p.134, trad. Vitaliano Brancati).


Testo e foto di Luca Traini




GIOVANNI SCOTO ERIUGENA E IL MAESTRO DI ECHTERNACH

Connessioni di arte e poesia fra il Dante e il Michelangelo dell'Alto Medioevo

Commento musicale Resurrexi pregregoriano, Ensemble Organum, Marcel Pérès




I versi del filosofo Giovanni Scoto Eriugena e i quattro avori attribuiti al Maestro di Echternach. Il Dante (quello del Paradiso) e il Michelangelo dell’alto medioevo. Uniti da una formidabile potenza espressiva, divisi da qualche secolo - lo scrittore franco-irlandese è del IX, lo scultore tedesco fra X e XI - e dall’ispirazione. Aristocratica e tutta tesa verso orizzonti metafisici quella del primo, il pensatore più importante della sua epoca, sodale e cantore dell’imperatore Carlo il Calvo.  Popolare e fortemente carnale, una vera eccezione per il suo periodo, il secondo, col suo Mosè che quasi strappa le Tavole della Legge al Creatore, il suo Tommaso che dà le spalle senza curarsi dello spettatore e affonda la mano nel costato umanissimo di Gesù e quel Paolo con piedi e mani grossi, la faccia da contadino.
Amo questo contrasto di spirito e carne composti con mirabile, diverso dosaggio. Si parte dalla personificazione della Terra che sostiene la croce per superare il Sole che piange e la Luna che copre il volto per ascendere a quel pentametro del secondo Carme dell’Eriugena che sembra definire la fluttuazione quantistica di Dio:
“Est quod, quod non est, te colit omne super”
“Ti venera sopra ogni cosa ciò che è e ciò che non è”.
E’ la croce come simbolo di unione perfetta fra umano e divino. Cara a Dio nella sua manifestazione come nella distanza abissale, venerata da ciò che è in potenza, che viene creato e che si ricomporrà nella sua unità originaria alla fine dei tempi, come petali di un fiore che tornano a chiudersi.
“Morte bona vitae mors mala victa perit”
“Attraverso la morte buona della Vita la morte cattiva, ormai vinta, morì”.
Dal terzo Carme, dedicato proprio alla Pasqua, dove l’estrema, profondissima, sintesi dei versi latini sembrano germogli gonfi sul punto di sbocciare e la traduzione italiana una meravigliosa fioritura.
Merito di Filippo Colnago, che ha curato egregiamente anche introduzione e note.
E’ in questa vertigine che ci ha fatto assaggiare quella “deificazione dell’uomo” tanto cara al filosofo che incontriamo il Cristo in maestà del Maestro di Echternach. Il grande Agricoltore che ci poserà nuovamente sulla terra con piedi, mani e cuore più forti. Il Maestro senza nome, che è e non è, per cercare ancora una volta di scolpire questa nostra presenza che sfugge.



TRE ADAGI PER HOLBEIN IL GIOVANE


File:Hans Holbein, the Younger - Sir Thomas More - Google Art Project.jpg

Le mani volevano comunicare la cura del presente, cercavano di stringere le carte, ma quegli occhi inquieti, il brivido sottile delle labbra, quelle minuscole ciocche di capelli che sfuggivano al cappello testimoniavano  un’ansia di rinnovamento che nessuna veste preziosa, nessun collare… Il gioco di chiaroscuri sul velluto rosso è quel fuoco.


File:Holbein-erasmus.jpg

Io ritraggo come Erasmo fa filologia, andando al cuore delle parole raccolte nel gesto, che pronunceranno quegli occhi.


La parte destra del volto è il pittore. La sinistra, l’uomo.
L’occhio destro è socchiuso e indaga attento i suoi simili.
Il sinistro è spalancato, come malato, e cerca - o ha già visto -  Dio.

File:Hans Holbein the Younger, self-portrait.jpg

Io sono qui e ora. E di me resta questo.




ANGELI COL FUCILE

Quando l’amore  divino diventa zelo incendiario


“Arte” ha la stessa radice di “arma”, di “artiglio”, e mai è stato così evidente come nella pittura fiorita nel Vicereame del Perù fra XVII e XVIII secolo.


Maestro di Calamarca (forse  José López de los Ríos)Arcangelo Laeiel, Bolivia, fine XVII sec.


In principio sono i “sette santi angeli che portano lassù le preghiere dei santi e sono ammessi davanti alla gloria del Santo” (Tobia 12,15), le “sette fiaccole accese” dell’Apocalisse “simbolo dei sette spiriti di Dio, che ardevano davanti al trono”. Nel medioevo, sulla scia delle Gerarchie dello Pseudo-Dionigi, sette arcangeli oggetto di culto da Bisanzio a Palermo, dove trovano loro massima espressione artistica nel cielo dorato della Cappella Palatina. In età moderna è poi il Siglo de Oro spagnolo a trapiantarli nel Barocco Andino innestando  altre otto creature celesti.


Maestro di Calamarca, Arcangelo Uriel


¡Oh sueño deleitoso!
Imágen apacible
Del eterno reposo:

Por tí un pecho sensible
Halla consuelo en medio
De cualquier mal terrible.

En tí el dolor y el tédio
Que me asaltan de dia
Tienen fin y remedio.



Quindici messaggeri alati attesi da Cuzco alle miniere di Potosì, contraltare inquietante nella loro soave impassibilità delle sante immortalate da Zurbaràn, che nel fasto insuperabile degli abiti per la celebrazione del nuovo Dio celavano la loro doppia natura di falconi incaici, personificazione degli antenati sconfitti dalla storia, resuscitati dall’arte.


Maestro di Calamarca, Arcangelo Asiel


Che arcobaleno orribile è quest'arco
Nero
Che si alza?
Orrenda freccia il nemico
Del Cuzco sta scoccando.
Una grandinata sinistra, in ogni luogo,
Si va estendendo.
E il trapasso, con le risonanze cosmiche del regicidio:
Lo stridore dei suoi denti ha già morso
La lana gelida della tristezza.
I suoi occhi di sole si son fatti
Di piombo.



Quindici arcangeli archibugieri con i piedi ben piantati in terra, uno per ognuna delle quindici fasi di carica, secondo il vangelo militare più aggiornato dell’epoca: "Esercizio per le armi" di Jacob de Gheyn. Presagio delle future rivolte di Túpac Amaru II e Túpac Katari. Premonizione di riscossa.


Commento musicale





GOTICO PER LA REGINA DI CUORI
NEOCLASSICO IL RE DI QUADRI

Il genio architettonico di Karl Friedrich Schinkel fra Romanticismo e politica



Sia fiaba, o realtà storica, che l’amore
è stato il primo a tentare le arti figurative,
è certo che non si è mai stancato di guidare la mano

G. E. Lessing, Laocoonte

Commento musicale Ludwig van Beethoven, Le creature di Prometeo, Ouverture


Innovazione e tradizione continuamente reinterpretati con lucido pathos visionario da un architetto-pittore prussiano che ho imparato ad amare quando scrivevo le Connessioni Remote per NEOLUDICA, la mostra curata da Debora Ferrari e dal sottoscritto per la Biennale di Venezia: https://lucatraini.blogspot.com/p/una-nuova-filosofia.html Meraviglia 5 (ITA) e https://lucatraini.blogspot.com/2012/10/view-conference-torino-2012.html Wonder 5 (ENG).
In principio c’era quella storia tutta politica del progetto di mausoleo per la regina Luisa che l’artista, pervaso dall’impeto romantico, avrebbe voluto nelle forme di un neogotico ritenuto sensuale come la sovrana. “Femminilità”, “sentimento”, “spontaneità”, “passione” già sintetizzate nel ritratto della pittrice Élisabeth-Louise Vigée Le Brun, ma che non escludevano affatto il talento politico: “Il re ha perso il suo miglior ministro” avrebbe detto Napoleone quando la donna morì nel 1810 ad appena 34 anni.
1810, ancora in piena temperie neoclassica: il vedovo Federico Guglielmo III decide per un monumento manifesto politico tutto candore e rigore squadrato stile Grecia rivista e corretta in forma teutonica (1815) che, sulle orme delle rovine sbiancate dei templi antichi, avrà - ahimè - successo dalla filologia dell’Ottocento fino al film Olimpia di Leni Riefenstahl (1938): “A e Ω”.
Schinkel chiaramente non ha nessuna colpa per le strumentalizzazioni imperialiste (nel mausoleo finiranno anche il vedovo e il figlio Guglielmo, primo imperatore di Germania, con la consorte Augusta) e naziste. È un giovane artista di talento che, nel periodo aureo del rinnovamento culturale tedesco, ha fatto il suo bravo Grand Tour in Italia attento non solo alle canoniche rovine dell’antichità ma anche a quelle medievali, ispirandosi nel suo ritorno in patria alla contemplazione visionaria di natura e storia della pittura di Caspar David Friedrich.
Nella temperie delle grandi riforme seguite alla sconfitta subita dalle armate napoleoniche, la sua grande operazione di reinterpretazione all’insegna dell’originalità ha inizio proprio con l’arte figurativa:  paesaggi che si rifanno al “sublime” kantiano, scenografie monumentali come quella per il Flauto magico di Mozart, ripresa da Miloš Forman (e Neville Marriner) in Amadeus, o innovativi diorami quale il Panorama di Palermo a 360°.
L’architetto deve attendere proprio il 1810 quando stato e sovrano così cari a Hegel si riprendono dalla catastrofe militare e lo designano supervisore alla costruzione di edifici reali, civili e religiosi che rivoluzioneranno una Berlino che ancora ammantava il suo cuore soldatesco nelle forme aeree, troppo francesi, del Rococò.
Un lavoro incessante che lo porterà nel 1830 alla carica di “architetto capo” e a una duratura fama internazionale. Ma ciò che a me interessava nel 2008, quando scrissi le prime Connessioni (https://lucatraini.blogspot.com/2012/03/loading.html), era soprattutto l’interesse ecclettico dell’artista per nuovi materiali e nuove forme, frutto anche dei suoi viaggi in Francia e Inghilterra. Come l’uso non celato del metallo nel Baldacchino del Memoriale dedicato al re di Svezia Gustavo Adolfo a Lützen (che nella mia abituale Artecomposizione ho inserito in alto a destra, riprodotto dal pittore svedese Johan Christoffer Boklund): ne parlava meravigliata già la Gazzetta piemontese nel 1837. O come quel formidabile prototipo di moderna architettura funzionale rappresentato dall’Accademia di Architettura di Berlino (in basso a sinistra, sotto ritratto e quadro romantico del nostro Karl Friedrich), completata nel 1832, tanto ispirata dalla pratica costruttiva di fabbriche e docks inglesi quanto dai progetti disegnati e mai realizzati di architetti visionari francesi del ‘700 come Ledoux. Semidistrutta nell’ultimo conflitto mondiale e rasa al suolo dalla DDR per costruirvi la sede brutalista (anche se per niente brutta) del ministero degli esteri, nei prossimi anni, buttata giù piuttosto frettolosamente anche quest’ultima, dovrebbe rinascere più o meno ispirata all’originale. La fenomenologia dello spirito di Schinkel vedremo in quali forme tornerà.
A compimento e commento di questa meravigliosa poliedricità non possono che essere citate le parole che il suo amico Wilhelm von Humboldt – diplomatico, filosofo e linguista – mette a cesello dell’Idea di un’indagine sui limiti dell'azione dello stato: “Il grande principio, cui direttamente convergono tutti gli argomenti sviluppati in queste pagine, è l'assoluta e essenziale importanza dello sviluppo umano nella sua più ricca diversità”.





LA FUGA DELLA GIOCONDA




Perché fu lei a fuggire, servendosi di un amante in carne e ossa: Vincenzo Peruggia. Felice di essere portata a Dumenza, fra le luci delicate del Luini e le pietanze regali dello Scappi, vide i prati e le acque del lago percorse da un brivido, le montagne alzarsi dalle Prealpi fino a svanire.
Girò le spalle e tornò a farsi chiudere nell’incartamento sotto il materasso. Il letto d’amore dove giacque altri due anni, prima di tornare a essere esposta.



TOTÒ, PASOLINI: CHE COSA SONO LE NUVOLE?



Qualche giorno fa era l’anniversario della nascita di Totò e voglio ricordarlo col suo ultimo film (già dal perfetto dal titolo).
Non dimentico i precedenti, la lista sarebbe lunga, ma è quello che mi ha commosso di più. Il più bello di quelli girati con Pasolini (altro amore, più tardo).
Una sublime rappresentazione dell'Otello di Shakespeare messa in scena da un gruppo di signore marionette (Totò/Iago, Ninetto Davoli/Otello, Laura Betti/Desdemona, Ciccio Ingrassia, Franco Franchi, Adriana Asti) che riflettono sul loro essere maschere manovrate da un burattinaio-poeta (Francesco Leonetti): che cos’è la “verità"?

OTELLO
Sì,si sente qualcosa che c'è!

IAGO
Quella è la verità. Ma, ssh! Non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c'è più.

Totò anche grande attore tragico.
Epilogo doppiamente drammatico: il pubblico insorge linciandoli.
Il camionista che li ha portati in scena-Domenico Modugno, che canta una delle canzoni più struggenti-ora è il monnezzaro che li porta in discarica.
È lì, rifiuti tra i rifiuti, dopo il terrore, che Totò rivela e condivide con Ninetto, persa ogni maschera, la bellezza delle nuvole.
Ci lascia così Antonio de Curtis, che morirà poco dopo le riprese e non vedrà mai il film: “Ah, straziante, meravigliosa bellezza del creato”.




PERTINI E GRAMSCI

Dall'intervista di Enzo Biagi




PASOLINI, SAN PAOLO

Il film mai realizzato che avrei diretto



Paolo, dopo aver scritto la lettera-testamento a Timoteo, esce per  andare a spasso.
E' la prima volta che fa qualcosa di inutile e disinteressato. Arriva al  Central Park.
Osserva la vita quotidiana. Cose, fatti, personaggi, gli avvenimenti quotidiani
- fuori dalla storia e da ogni religione.

Pier Paolo Pasolini, San Paolo (1968-74)


C’è un roveto ardente dove la sacra follia del santo e il linguaggio inattuale dello scrittore bruciano insieme. Anche se a distanza, lo scorgo ancora nei dettagli.
Paolo di Tarso lacerato come il regista: da un lato l’apostolo febbricitante che delira sublime, dall’altro il demiurgo dell’organizzazione ecclesiastica in forze e spietato. Attualizzando la storia dalla Parigi sotto occupazione nazista (Gerusalemme) alla morte sul ballatoio di un piccolo albergo come quello di Martin Luther King, ma a New York (Roma). La scena della conversione in macchina mentre si reca – e dove poteva finire un collaborazionista? – nella Spagna di Franco. L’abiura, la lotta con la Resistenza e poi di nuovo la scissione: ora profeta sofferente, emarginato fra gli emarginati, ora nuovo uomo di potere che instaura il compromesso con l’antico. Sinopia di un affresco grandioso sui rivolgimenti di religioni e rivoluzioni, ma anche di quanto chiamiamo “istituzione” in generale. Sul punto di essere realizzato dopo la Trilogia della vita (1974), abbandonato, poi le Tenebrae di Salò e quella morte.
Il San Paolo è  stato sempre vicino alla mia scrittura. Quante volte mi sono inabissato in quegli appunti! La differenza è che io ho smesso subito di idealizzare il passato. E ho abbandonato il cinema troppo presto per il lavoro nella scuola, alla fine del secolo scorso. Eppure un’idea ce l’avevo fatta. La crisi della Prima Repubblica, il dramma dei nuovi immigrati, il crollo del socialismo reale come i tormenti che iniziavano a infrangere le certezze di Giovanni Paolo II… Ce n’era di materiale per riattualizzare questa scenografia ormai anestetizzata nelle pagine di un libro. Mancarono i finanziamenti, scontato, ma anche il numero giusto di collaboratori e attori culturalmente preparati. E anche dove c’era almeno una formazione intellettuale adeguata – fuori dalla mia provincia di Varese – regnava da un pezzo il disincanto (condizione mentale o di cuore che non capirò mai). Insomma tutto il panorama artistico interno e, soprattutto, esterno al set che non era affatto disponibile. Così la cosa – o pasolinianamente  “Il sogno di una cosa” – morì subito. Forse bisognava “organizzar” di più e “trasumanar” di meno… Ma io, anche se per lavoro devo restare più vicino al primo verbo, continuo ad amare di più il secondo.




INIZIAZIONE AL CINEMA

Tornando su YouTube al Molière della Mnouchkine



Quando tutto ha inizio ho 15 anni e sono con Molière. Sta morendo. Cerchiamo di portarlo -dove? - è uno scalone senza fine. La musica non è più quella delle feste del Re Sole, ma Henry Purcell, Cold Song.
Poi è insieme il 1981 e il 2018 e siamo altrove ma sempre dentro uno schermo: piango accanto a un triste Pierrot tedesco di nome Klaus Nomi. Anche lui canta Cold Song. E non vivrà a lungo. Ma non era nato a Immenstadt?
Passare da un film a una canzone su YouTube è facile come non temere la morte a 15 anni. Hai combattuto la giusta guerra contro i Tartufi, hai illuminato la corte più splendida d’Europa: puoi morire a 51 anni come lui se ne hai 52. Puoi salvarti a 46 dalla revoca dell’Editto di Nantes come dalle Purghe di Stalin e leggere ancora una volta e ancora e ancora la Vita del Signor de Molière di Bulgakov.
Poi arrivano quella carrozza, la musica di Purcell e uno che grida -sei tu?- “Lui muore!”.
Ma il cinema che sono diventato farà scorrere ancora una volta le immagini a ritroso. Tornerò all’inizio del film e del filo di Arianna Mnouchkine, delle Uova Fatali di Gregoretti, e la storia non puzzerà come la Storia, come quando la vita respira la statura che sale in altezza di un adolescente.



SE NON TI AMASSI PIÚ DEI MIEI OCCHI

Studemund: il filologo innamorato



Fra gli “amanti della parola” nome e cognome di una persona mi sono rimasti nel cuore. Quelli di Wilhelm Studemund (1843-1849). Perché...
C’era una volta un palinsesto di opere plautine che un altro filologo, Mai, Angelo (amico di Leopardi), aveva tentato di decifrare usando una chimica che l’aveva reso invece ancora più illeggibile.
Dimenticavo: un palinsesto è una pergamena, una pelle di pecora vecchia di secoli cancellata e riscritta in tempi, come l’alto medioevo, in cui i fogli scarseggiavano.
Ebbene da quella pelle i versi di Plauto erano stati raschiati per tatuare le pagine del Libro dei Re (uno di quei testi biblici che è meglio non leggere se si deve pregare).
Il nostro Studemund, perché tornasse alla luce quanto era stato scorticato, mise in gioco la vita e la vista più di un secolo fa.
Nella fredda Berlino.
Ma tanta fu la sua passione che, citando un altro poeta latino, Catullo, scrisse:
NI TE PLUS OCULIS MEIS AMAREM
“Se non ti amassi più dei miei occhi”
...
Commosso da tanto amore, chi scrive dedica anche allo studioso (ma sarebbe più giusto definirlo amante) le sue parole.

Nota Wilhelm Studemund pubblicò a Berlino nel 1889 il testo originale del palinsesto in questione, ritrovato dal paleografo (e futuro cardinale) Angelo Mai 74 anni prima nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. A questo insigne studioso il giovane Giacomo Leopardi aveva dedicato la Canzone “Ad Angelo Mai, quand’ebbe ritrovato i libri di Cicerone della Repubblica”, stampata nel 1820.


hashta

TAVOLE FILOSOFICHE

Barocco a Napoli fra cibo, arte e pensiero


Mangiare è un diritto fondamentale, stabilito con quello ancora più fondante alla salute dall’Articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e, implicitamente, dal 32 della nostra Costituzione, conquiste pagate a caro prezzo. Altrimenti come si fa a pensare a testa libera? Nel triste passato - un duro presente ancora per molti, troppi nel resto del globo - non era così: trovare bocconi era una dura conquista quotidiana. E a stomaco pieno come si ampliava il pensiero! Chi mangiava conquistava il privilegio di riflettere e di riprodurre nell’arte i frutti del suo desiderio, la loro origine e magari anche i creatori o il Creatore esenti da questa necessità. La Napoli barocca, patria di fame e prelibatezze, con i quadri di Giovan Battista Recco e Luca Giordano esemplifica bene questa brama di consumare, riflettere e rappresentare la filosofia, le filosofie che scaturiscono a pancia piena, piedi caldi e mente fredda.

Giovan Battista Recco, “Natura morta con pesci”
(metà XVII sec.)


Io sono il melone messo da parte. Io sono il popone inciso da un razionalista cartesiano.
Vedi questo vuoto dai lati perfetti nella mia natura? Vedi questa mia interiorità lasciata fuori, scolpita con precisione? Tu credi che avrò tempo di far crescere una cicatrice sulla mia buccia? Tu pensi che il mio boccone verrà mangiato?
No, io sono una riproduzione della luce buona per i libri di geometria.
Io sono la riprova che l’arte non marcisce, ma non si mangia.

Luca Traini, dal catalogo della mostra curata da Debora Ferrari L’Europa dei caravaggeschi, Crédit Suisse, Varese (2005)


I FILOSOFI DEVONO MANGIARE
(Giuseppe Recco e Luca Giordano, XVII sec.)


Devono, per forza. E Democrito ride, perché la sfera che ha disegnato è un cocomero perfetto tagliato a metà, un atomo tondo e liscio e dolce. Così ride nel suo ovale circonfuso di fiori: l’uomo affettato, dissezionato è come un frutto spalancato che mostra e dimostra i suoi semi.
Eraclito, no, forse piange o è sul punto di farlo bagnando un libro che sembra pane, formaggio. Forse piange irrigando i suoi fiori, perché tutto scorre. Fino al bancone della frutta e ad altri fiori. A quel cocomero in secondo piano così oscuro, che dev’essere infilzato perché vengano alla luce la polpa e il liquido rosso acceso.
“Chi ha da pensare deve anche mangiare” avrà detto Giuseppe Recco a Luca Giordano dopo aver dipinto i fiori per i suoi filosofi. Così ha imbandito, in effige come i santi, un servizio di frutta da viceré per i poveri di Napoli, vestiti come i veri sapienti, di stracci.
Democrito ride, perché ha mangiato.
Eraclito forse piange: chissà quando ricapiterà?
       
Luca Traini


JEAN-PHILIPPE RAMEAU (1683-1764)

Finezze della geometria dello spirito


Louis Carrogis Carmontelle, Monsieur Rameau, 1760

250 anni dalla morte dell’uomo, 25 dal sorgere del mio amore per la sua musica immortale. Nella libreria dell’università il disco dei suoi Indes galantes, prima dell’esame sull’architettura visionaria francese del ‘700.


L’esame andò nel migliore dei modi ma i progetti dei miei cari Boullée, Ledoux e Lequeu, in realtà, erano l’alter ego crepuscolare del luminoso pomeriggio di Rameau, degno del fauno più elegante e raffinato. Erano l’incendio della rivoluzione rispetto al fuoco del tè o del caffè degli illuministi (ma non ho mai pensato di dover amare le stesse cose).

SOPRA Il Café Procope SOTTO Jean Jacques Lequeu (1757-1826), Souterrain de la Maison Gothique

 rebours", come avrebbe detto Huysmans (ma il sottoscritto è tutt'altro che decadente), i suoi capolavori per clavicembalo mi hanno sempre evocato i quadri di Watteau. E non a caso, visto che la prima produzione è coeva a quella del pittore. In entrambi è il fascino e il dramma sottile di un’epoca di passaggio come quella della Reggenza.


Jean-Antoine Watteau, Amore pacifico, 1718

Le opere e i balletti fanno tuttora vibrare le corde delle tele di François Boucher: sono l’abito perfetto per il ballo e la rappresentazione dell’anima delle dame nude ritratte dall’artista.


François Boucher (1703-1770), Venus jouant avec deux colombes

Voltaire, grande ammiratore di Rameau e anche suo librettista, lo definiva “Orfeo-Euclide”. Infatti la precisa "géométrie des esprits" dell’autore del Traité de l'harmonie reduite à ses principes naturales è inscindibile dall’appassionato incisore di tutta una coralità di affetti che troviamo solo nei grandi.


Una progressione esponenziale di Bellezza esemplare anche in epoca di geometrie post-euclidee.


J.P._Pierre Rameau (maître à danser 1674-1748): interaction esprit géométrique_esprit de




GUILLAUME DE MACHAUT

"Amours me fait desirer"

“Longuement me sui tenus
De faire lais,
Car d'amours estoie nus;
Mais dès or mais
Feray chans et virelais”




Un amore sbocciato in piena adolescenza, frutto della passione per le miniature medievali, specie quelle della Bible de Sens nella bibbia presa in offerta da mia madre


e dalla lettura di Uno specchio lontano della Tuchman.


Ma questo la professoressa di francese della mia IV ginnasio (1980) non poteva ancora saperlo:
“Non è che ci siamo proprio in grammatica. Vediamo la parte culturale: parlami della tua ricerca… Ah, vedo che hai portato la musica”…
La musica per il primo poeta, che pur essendo soprattutto un grande musicista, l’abbandonò per scrivere poesie da leggere e basta.
Un tradimento. Ma anche il mio amore per Guillaume nacque tanto sincero quanto mercenario.
Ero entrato in un negozio di dischi che non esiste più e, abbagliato dalla copertina, avevo fatto mie le sue Chansons curate da Thomas Binkley, meravigliosamente in offerta come la bibbia di cui sopra (qualcosa come 3.000 lire, 1,5 euro di oggi).


Eccomi in quel mondo senza mezze misure, splendido e orribile. Nel suo splendore quest’uomo, che immaginavo alto, biondo e triste. E le donne che ne possedevano l’anima, come miraggi di un assetato. Miraggio della Fontana della Giovinezza che allora, come oggi, credevo eterna.

Maestro della Bibbia di Jean de Sy, Guillaume de Machaut incontra Natura con le figlie Senso, Retorica e Musica (1377)

Qualche dubbio mi venne con la Messe de Notre Dame, in musicassetta, riproduzione di registrazione remota che si apriva come una ferita nel Kyrie per immergersi progressivamente in un sublime fondale d’oro, come l’Annunciazione di Simone Martini.


“Luca, torna sulla terra! Dove sei con la testa?”
E’ la prof.
“E’ Guillaume de Machaut”…
9 in cultura, 5 in grammatica. 14:2= 7.
E scrive sul registro questa suddivisione ottimista, come un rapporto musicale astratto pitagorico-platonico: Ars Antiqua.


Mi consolo con la filosofia che poteva andar peggio e, se anche ho sfruttato l’Ars Nova di Machaut per salvarmi in francese, ho pur sempre al mio fianco il suo teorico, Johannes de Muris, e la Metafisica di Aristotele: “E’ chiaro che l’esperienza relativa alle cose sensibili crea l’arte”.
Faccio ritorno al banco e poi a casa.
E mi consolo come il compositore spossato: Le Lay de la Fonteinne.


Luca Traini


BEAUTY

Amore per la Bellezza

San Valentino è il giorno giusto perché resti fra i miei Amori un capolavoro che ha solo qualche mese di vita.
Beauty di Rino Stefano Tagliafierro. Questo è interagire con l'Arte. Da incidere sul disco d’oro del prossimo Voyager, perché possa congiungersi all’anello polare della Galassia NGC 4650A



.
L’autore è del 1980, esattamente l’anno in cui Schnittke compose la Passacaglia per grande orchestra e io fui iniziato al cinema vero con L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog.

Di Tagliafierro, o della sua poliedricità (cosa rara in Italia), consiglio anche la visione di altri due gioielli:







Due versi di Jaufré Rudel a conclusione:

Je mais d’amor nom gauzirai                              Già dell’amore non sarò più lieto
Si nom gau d'est amor de loing                           Se non godrò di questo amor lontano                  




COMBATTIMENTO D'AMORE IN SOGNO



Scritto forse da un principe. O da un frate. O semplicemente da un umanista innamorato di Platone che non rinunciò al piacere in vista di un Amore più grande.
Certamente un genio l’artista delle xilografie - Andrea Mantegna? – e l’editore, Aldo Manuzio.
Mistero ed enigmi di fine secolo (Venezia, Anno Domini 1499) per l’incunabolo più raffinato, primogenito già perfetto, come un’Iliade o una Divina Commedia, della rivoluzione tecnologica della stampa.
Polifilo cerca, trova e perde Polia in sogno: parabola cristallina e complessa del Rinascimento.


Quattro lingue per tre vie.


Quando dall'alto ci è dato speranza,
O tu c'hai efigia d'animal resibile,
Perviensi all'uom, lasciando il corruttibile.



Fontana perpetua e mobile, sormontata da arboscello di melograno d'oro
con foglie di smeraldo, frutti di rubino e fiori di corallo: simboli di rinascita.


O donne che ascoltate,
Deh végnave pietà del mio dolore!
Queste pene spietate,
Ben me le crede chi ha provato amore,
Pregàti Dio signore
Che finisca li pianti
E torni in canti
La mia malinconia.
Metamorfosi di sette ninfe in allori alla presenza del dio Giove 


Dàtime a piena mano e rose e zigli,
Spargeti intorno a me viole e fiori;
Ciascun che meco pianse e miei dolori,
Di mia leticia meco il frutto pigli.

Matteo Maria Boiardo



Commento musicale




BERGAMO: LA MUSA INNAMORATA DI PALAZZO RONCALLI

Commento musicale Ludovico RoncalliPassacaglia


I resti degli affreschi di Piazza Mascheroni come frammenti lirici.


L’epica dell’uomo con lo scettro è solo un ricordo triste.


Vive di musica discreta il flautista che ama nascondersi, quanto resta di un grande concerto è un soffio evanescente ma tenace.


Sembra ancora ispirare chi spalanca le imposte perché possano baciarsi gli amanti.


Testo e foto di Luca Traini

Per approfondimenti territorio.comune.bergamo.it


AUBREY BEARDSLEY

L'incisore rapito


Il disegno, l’incisione, perché l’amore è la ferita per eccellenza.

La vera raffinatezza si sconta vivendo, ma rende immortali.




Devo rubare alla luna il suo splendore
Se voglio averla.
La mia donna mi ricompenserà
Se scavo un fossato tutto intorno al mondo.





To save the powder from too rude a gale,
Nor let the imprisoned essences exhale,
To draw fresh colours from the vernal flowers.






Que c’est bon de voir la lune!
Elle ressemble à une petite pièce de monnaie. 
On dirait une toute petite fleur d’argent. 
Elle est froide et chaste, la lune . . .




Se muore giovane chi è caro agli dei, lui, il più caro alle dee, salì al cielo di Venere a venticinque anni.


Commento musicale






ENGUERRAND QUARTON: IL PITTORE E IL POETA


Il genio del pittore, di cui restano solo pochissime opere certe, vola talmente alto da perdere di vista la vita dell’uomo senza data di nascita o morte. Il successo dell’artista scomparve presto, come il poco tempo che gli fu concesso per produrre capolavori. E il volto dell’uomo forse è nascosto nella piccola folla al riparo del manto della Vergine della Misericordia.
Nel mio dramma Villon immaginai un incontro, ad Avignone nel 1466, fra il poeta in esilio e l’artista prima che se ne perdessero le tracce: avevano condiviso il mecenatismo malinconico del re senzaregno, Renato d’Angiò.

VILLON
Perdonatemi, ci siamo già visti?

QUARTON
Vi perdono. Quando eravate ladro mi avete rubato qualcosa. E, quando poeta, restituito altro.

VILLON
Maestro, ho preso solo qualche spina del vostro Cristo morto senza saperlo, quando ero carcerato. E da poeta mai coronato, so bene anch’io cosa significa essere due in uno. Ma voi l’avete perfettamente rappresentato, quando avete fatto Dio a nostra somiglianza in due persone.

QUARTON
Teniamo ancora in equilibrio quella colomba fra le labbra: ogni parola è preziosa.

(Il banditore annuncia che è tempo di peste. Il pittore e il poeta svaniscono in silenzio).




LIVRE DU COEUR D'AMOUR ÉPRIS

Amore dona a Desiderio il cuore del re malato

L’ opera in prosa e poesia di un re senza regno innamorato del Roman de la Rose:
Il sogno di un mondo mai esistito in un’età al tramonto.
L’incanto delle preziose miniature di Barthélemy d'Eyck.

La Speranza salva il Cuore

Le temps a laissé son manteau
De vent, de froidure et de pluie,
Et s'est vêtu de broderie,
De soleil luisant, clair et beau.


I cavalieri approdano all'Isola della Compagnia e dell'Amicizia

Potete sfogliare lo splendido manoscritto alla Bibliotèque national de France qui

Commento musicale



Controcanto di François Villon (in carcere)

Secondo alcune interpretazioni il poeta avrebbe cercato fortuna (senza trovarla) anche alla corte di Renato d'Angiò, forse ad Angers, nel castello dove il re senza regno era nato.
Quel mondo fatato ormai è solo un ricordo, mentre in carcere, a Meungattende di essere impiccato.

E da re Renato, che re non è mai stato, ci sono mai stato?
E quando è stato che abbiamo poetato e fatto versi come agnelli o vitelli sgozzati per farne pergamene?
Ricordo un castello fatato illuminato a giorno dagli incendi dei soldati.
Re di un regno che non c’era,
A furia di cercarlo hanno messo a ferro e fuoco tutta la scacchiera.

Immagine correlata

Il caso vuole che re Luigi XI passi per Meung e, in suo onore, qualche prigioniero, se non ha esagerato, venga graziato e liberato.
Un volta tanto la fortuna è dalla parte di Villon, che ringrazia a modo suo.

Questo è un vero re anche se pura prosa per quanto è brutto!
Col suo grande naso ha fiutato sottoterra e sentito il tartufo che marciva in galera: quanto è brutto, quanto è buono anche lui!
Lui mi salva e tu mi hai condannato, re e non re, poeta angelicato: che contraddizione fare versi!
Pastore di greggi armati che brucano fino all’ultima radice, amante di pastorelle smorfiose per cui preda e imbratta pergamene, avvinto da catene di cartone che dice d’oro, d’Amore: ma liberarsi da catene vere, arrugginite, tu non lo sai, no, tu non sai quant’è bello!




MICHELE MARULLO E "ASSASSIN'S CREED"

Un videogioco per la grande poesia dell'Umanesimo


Un poeta greco vissuto in Italia che ha scritto in latino. A scuola non era in programma, però riuscivo a dedicargli qualche ora quando insegnavo prima di affrontare Foscolo. Le analogie sono forti: la Grecia, l'esilio, il compianto per un fratello dallo stesso nome, Giovanni (“Per tela, per hostes… Venio tristis... Teque peregrina, frater, tellure iacentem”, “Attraversando armi e nemici… Giungo triste... A te, fratello, che giaci in terra straniera”, Epigrammata XXII, De morte Iani fratris). E l’esperienza militare: soldato di ventura il primo, combattente di più alti ideali democratici il secondo.
Eccolo Marullo in alto a sinistra nel ritratto di Botticelli (neppure la recente asta di Frieze è riuscita a piazzarlo), dove l’ho messo in controcanto con la Giovane ignota di Lorenzo di Credi, immaginando fosse la sua sposa, Alessandra Scala, tanto bella quanto raffinata poetessa italiana di versi greci e attrice di drammi classici dalla pronuncia attica perfetta, adorata dal Poliziano. Sempre di Lorenzo di Credi, pittore da riscoprire, la Caterina Sforza al centro, anche lei donna affascinante e tenace.
Ma torniamo al gioco di complesse eredità del poeta. Nato proprio l’anno del crollo della sua Costantinopoli - forse nei mesi degli ultimi, disperati scontri - sognò sempre il ritorno in patria e seguì col suo  consueto entusiasmo i sogni (vani) di crociata del re di Francia Carlo VIII. E, da coraggioso protagonista di battaglie già perse in partenza, si schierò con Caterina Sforza nell’eroica, disperata difesa della Rocca di Ravaldino a Forlì contro le truppe del papa - e, ironia della Storia, di un altro re francese - guidate da Cesare Borgia, a cavallo fra XV e XVI secolo. Finì, come spesso nel tanto sublime Rinascimento, in una macelleria da cui si salvò a stento. Salvo annegare pochi mesi dopo in uno sfortunato tentativo di guado di un fiumiciattolo come il Cecina (11 aprile 1500). Si dice che morendo avesse con se una copia del suo amato Lucrezio: “È naturale che tutto perisca…/ Così anche le mura del grande mondo/ Cadranno infine espugnate in rovina” (De rerum natura, II, 1144-5). Simbolo malinconico della fine di un’epoca, nata con grandi sogni e sopraffatta dalle artiglierie come dai rigagnoli. Il futuro, il nostro presente avrebbe reso giustizia.
Tutte cose che vent'anni fa dovevo spiegare di fretta e solo coi miei amati libri (di testo e non), quando il multimediale si riduceva a qualche documentario se non al film con Virna Lisi del ’59 (non proprio un capolavoro, inadatto per giovani di quarant’anni dopo). Insomma, per entusiasmare i ragazzi non avevo ancora a disposizione un videogame come Assassin’s Creed, che nel suo secondo episodio vede proprio il protagonista Ezio Auditore, combattente e letterato come il Tarcaniota, intervenire in aiuto di Caterina nientemeno che con un Niccolò Machiavelli armato di tutto punto. Bello vedere anche in questa nuova arte protagonisti classici che, seppure trattati con quella certa libertà permessa ai nuovi media espressivi, in questa nuova veste possono comunque interessare tutti ed essere un ottimo, divertente e sentito apprendistato per chi vorrà approfondire il discorso. Ogni tanto bisogna togliere la muffa dai testi storici. Io ci sono arrivato coi fumetti. Oggi la stessa cosa si può fare partendo dai videogiochi. L’ha fatto Ubisoft, multinazionale franco-canadese, anche perché in Italia le catene della tradizione, meglio, del tradizionalismo, sono dure a essere spezzate. Pensiamo solo al povero Manzoni, poeta d’avanguardia e innovatore della forma romanzata, quanto e per quanto è stato ridotto a mummia! E invece la saga Assassin’s Creed ha vinto la scommessa di ambientare il suo gioco nella storia meno conosciuta e quasi sempre in siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO: davvero una bella lezione.
Ma torniamo a Marullo che, contrariamente al suo grande rivale Poliziano, non è uno dei personaggi del videogame. Però quanto gli somiglia Ezio Auditore! Li avevo già collegati con questi versi quando curai, con Debora Ferrari,  Assassin’s Creed Art (R)Evolution al Museo di Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano nel 2012, la prima grande mostra sull’arte di questo classico dei videogiochi:
“Non ego tela, non ego enses,/ Non incendia pestilentiasve,/ Non minas vereor ferociorum,/ Non hymbres, mare, turbines, procellas,/ Non quaecumque aliis solent nocere,/Quae cuncta unius aestimamus assis”.
“Io non ho paura di frecce o di spade,/ Non temo le pestilenze o gli incendi,/ Né le minacce di gente feroce,/ Né piogge, mare, turbini, procelle,/ Né quanto di solito nuoce ad altri:/ Tutte queste cose non stimo un soldo” (Ad Accio Sincero vv.1-6).
Ecco quindi l’Auditore in ascolto di una Caterina Sforza nelle vesti di eroica condottiera in sella al suo destriero. Sembrano due innamorati. Tornano inevitabilmente alla memoria gli splendidi versi che il Tarcaniota aveva dedicato a Neera: “Suaviolum invitae rapio dum, casta Neera,/ Imprudens vestris liqui animam in labiis…/ Misi cor quaesitum animam; sed cor quoque blandis/ Captus oculis nunquam deinde mihi rediit”.
“Mentra ti strappavo a forza un bacio, o casta Neera,/ Ho dimenticato l’anima sulle tue labbra…/ Mandai il mio cuore in cerca dell’anima: ma anche il cuore,/ Preso dal tuo dolce sguardo, da allora non è più tornato da me” (Epigrammata IV).
Il loro screenshot fra la mia amata edizione Ricciardi-Einaudi (curata dall’Arnaldi e dalla Gualdo Rosa) e un incunabolo, fresco gioiello della tecnologia dell'epoca, col suo ultimo ritratto  (ed ero tentato di inserire al suo posto la prima mitica edizione curata da Benedetto Croce).
Deus ex machina e quindi obbligatorio lieto fine, almeno nella finzione, nella poesia, con l’epigramma a un altro greco umanista latino, Manilio Rallo:
“Sat mala laeti quoque sorte, caelum hoc/ Hausimus olim./ Profer huc cadum, puer Hylle, trimum,/ Cedat ut moeror procul et dolores:/ Tota nimirum Genio mihique/ Fulserit haec lux”.
“Felici quanto basta anche in disgrazia,/ Respirammo l’aria di questo cielo./ Illo, ragazzo, il vino di tre anni/ Tira fuori ché fuggano lontano/ tristezza e malinconia: a me e al mio Genio/ rifulga tutta la luce del giorno”.
Prosit!

Luca Traini


BRACCIO DI FERRO E IL SURREALISMO


#IoRestoaCasa e combatto il #coronavirus con gli spinaci di Popeye e altro cibo per l’anima dei Surrealisti. Nel quadro di Max Ernst che li ritrae, “Au rendez-vous des amis” (1922), c’è anche Raffaello e io ci aggiungo Elzie Crisler Segar, inventore del formidabile marinaio, col suo Thimble Theater di protagonisti dell’assurdo.
Ci sono cresciuto su quella barca nei cartoni in bianco e nero che iniziavano con vista prua, vento in poppa e sigla per organetto e pipa. E cosa c’è di più surreale delle prime avventure di Braccio di Ferro, specie nella versione cartacea (era così anche il Topolino degli inizi)? La bizzarria delle storie si innesta perfettamente nel grande teatro dell’assurdo della Crisi del ’29. Popeye era nato, personaggio comprimario, nove mesi prima il Crollo di Wall Street. All’indomani di quel terribile autunno è già protagonista. Superman verrà quattro anni dopo, ma è già forte la fame di supereroi, anche nel comico.
E’ stato grazie a lui e alla sua ciurma strampalata (su tutti la deliziosa snodabile Olivia) che sono approdato ai collage di Breton, ai quadri di Ernst, ai film di Buñuel  (che da giovane era anche pugile). Fino alla riproduzione pop di Andy Warhol (1961) e al geniale film di Altman con l’indimenticabile Robin Williams. 1980: si chiude la circumnavigazione del grande Underground. Giusto un attimo prima dell’era dei revival.




1978: ATLAS UFO ROBOT ALLA RAI

Arte e geopolitica fra Giappone e Italia dal XVI secolo all’era dei Manga

Estratti dai miei interventi al Festival #INtenso organizzato dalla Biblioteca Civica Varese negli incontri Il giorno in cui arrivarono Heidi e Goldrake, nell'ambito del Filmfestival Internazionale Cortisonici, e L'Onda lunga: dai Manga di Hokusai ai videogame agli strumenti della musica popolare giapponese, curato da Neoludica Game Art Gallery


Atlas Ufo Robot, alias Goldrake, alias rappresentazione iconica del boom dell’industria dell’acciaio nipponico, sbarca in Italia il 4 aprile 1978, quando il Giappone riesce ancora a mantenere ritmi di crescita economica sostenuta e il nostro Paese è in piena crisi con l’inflazione che balla intorno al 12% (mancano anche le monete, noi ragazzini facciamo incetta di miniassegni come di gettoni del telefono) e, soprattutto, in pieno incubo sequestro Aldo Moro. Per quelli come me, che erano alle porte dell’adolescenza e ancora risentivano dell’aspetto tetro degli anni precedenti (stragi fasciste e terrorismo di estrema sinistra), l’apparizione di un nuovo supereroe nel magico contenitore di rifugio della tv in bianco e nero, come i sogni, fu come un raggio di sole (sarà stata anche la bandiera del Sol Levante). Uno dei pochi ricordi belli che ho del mio primo anno al Nord, in quella periferia culturale che era Induno Olona, dove come tutti gli immigrati non mi trovavo affatto bene e sarei tornato più volte con piacere solo molti anni dopo, abitando a Varese.

Precursori animati

Ma torniamo alle animazioni. È vero che qualche mese prima era arrivata sugli schermi Heidi del grande Miyazaki, ma l’epoca di mettere i nomi dei disegnatori sarebbe arrivata solo negli anni ’90 insieme alla definitiva consacrazione del fumetto come arte.  E poi era un “cartone animato da femmine” che aveva di attraente solo la sigla cantata da Elisabetta Viviani, di cui eravamo tutti innamorati (non solo Gianni Rivera). Anni prima ancora era stata la volta di Vicky il Vichingo, ma che fosse giapponese non l’aveva capito nessuno. Così come non sapevo che la serie televisiva anni ‘70 del mio amato Calimero – ma anche Barbapapà! - fosse frutto della collaborazione con la mitica Toei Animation di Tokyo, me lo ha rivelato di recente l’amico ed esperto Daniele Bernalda.

Io e l'esperto di manga Daniele Bernalda, relatori all'incontro Il giorno in cui arrivarono Heidi e Goldrake

Alla RAI, oltre i classici americani (ma non i Disney, che si vedevano solo al cinema), per un certo periodo erano stati familiari all’ora di pranzo i cartoni animati dell’Est Europa, specie quelli che venivano dall’Ungheria del “comunismo al gulash” di János Kádár come la tenera serie Gustavo. Ma non erano mancati al pomeriggio della “TV dei ragazzi” anche splendidi lungometraggi dell’animazione sovietica. Tutto nella norma prima dell’avanzata elettorale del PCI alle amministrative del ’75 e alle politiche del ’76… C’era stata poi la novità dei “fumetti in TV” prima con Gulp! e soprattutto con SuperGulp!, trasmessi in un più difficile orario serale dopo cena. Entusiasmo, ma anche una certa iniziale delusione per la scoperta che alcuni comics erano italiani, specie Alan Ford, anche se lo trasmettevano insieme all’Uomo Ragno. Gli pseudonimi usati dagli autori ci avevano fregato come i nostri genitori all’epoca degli “spaghetti western”. Non sapevamo che anche tutto Topolino era disegnato da italiani: c’era solo la firma Walt Disney, quindi doveva averli fatti lui, come ci confermavano con un certo fastidio gli adulti quando li interrogavamo su questi prodotti accessori. Italiano era il fumetto verosimile stile neorinascimentale come Tex, con l’eccezione di Bruno Bozzetto e della Linea della pubblicità della Lagostina. In tutta questa realtà, anche animata, in tumultuoso cambiamento irrompono i manga con i loro occhi enormi da arte altomedievale… Ma non dovevano essere a mandorla? Non erano giapponesi come il saggio Ten nel Nick Carter di Bonvi? E poi in quelle animazioni “caricaturali” si moriva pure! Non ci si era abituati: la morte era prevista per il naturalismo dei fumetti western. Willy Coyote o Paperino non morivano mai. Ci sarà pure stata una coazione a ripetere – sadica – del dolore, ma resistevano a tutto: investimenti di treni sbucati da chissà dove o esplosioni che li carbonizzavano, momentaneamente. Ci aveva già pensato Alan Ford  a sconvolgermi con omicidi ineluttabili nell’estate del ’77, ma quello, avevo poi pensato, era un giornaletto. Alla televisione pubblica…


Il Sol Levante e il Bel Paese

Il Giappone si presentava con prodotti all’apparenza immortali: era il mio registratore per cassette Hitachi, erano le radio a transistor, era per tutti nuove tecnologie ormai assolutamente affidabili (altro che la “robaccia giapponese da quattro soldi” di Woody Allen ne Il dormiglione). Era Giacomo Agostini passato dalla MV Agusta alla Yamaha nel ’74 (iniziava allora il dominio anche nelle grandi cilindrate). Erano i samurai (sandali compresi, incompreso invece il ruolo dei “ronin”, samurai senza padrone, nelle rivolte pro e contro la dinastia Meiji e la partecipazione ai primi movimenti socialisti nell’arcipelago) e le arti marziali di cui si aprivano scuole dappertutto: karate e, soprattutto, judo, di cui ero una giovane promessa (non mantenuta). È vero che il cinese Bruce Lee era stato più forte, però era morto. Il presidente Mao suscitava decisamente più simpatie dell’imperatore Hirohito, quello della Seconda Guerra Mondiale che poi sembrava una mummia, ma, politica a parte, di prodotti cinesi allora c’erano solo certi pentolini di metallo per il the o il latte a colazione e dei violini a basso costo -una delle poche cose occidentali permesse dalla Rivoluzione Culturale - tipo quello che torturai in quattro inutili anni al liceo musicale di Fermo. Quanto all’arte, giusto il cinema. Per i cinefili (ero ancora lontano dal diventarlo) i vari Kurosawa, Mizoguchi, Ozu e Ōshima erano già un mito. Per gli altri invece o i mostri (Godzilla e affini visti in tv già rovinatissimi). O il porno, almeno quello presunto tale, quei manifesti da brivido dei cinema a luci rosse con L’impero dei sensi  di Oshima (terzo elemento della triade proibitissima – paura e censura - insieme a Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e a Salò di Pasolini). Che poi quanto presentato come porno fosse politico lo sapevano nelle grandi città o in cittadine “rosse”, come Porto Sant’Elpidio nelle Marche, da cui venivo e dove anche quell’altra parola, Zengakuren (il movimento studentesco protagonista del ’68 Giapponese) l’avevo sentita e ricordata perché era strana (e prima del liceo l’avrei confusa con Zenga portiere della mia Inter, di tutt’altra vena ideologica). In compenso iniziai a interessarmi all’arte di Utamaro – e quindi anche a quella degli altri grandi del “Mondo fluttuante” (Ukiyo-e), Hokusai chiaramente compreso con la Grande Onda e i primi Manga in assoluto (1814) – dopo aver visto nell’’82 l’accattivante locandina de Il mondo di Utamaro di Jissōji, buon remake softcore del capolavoro di Mizoguchi Utamaro e le sue cinque mogli (1946).



Letteratura, tranne il primo Nobel a un giapponese nel ’68, Yasunari Kawabata, nome difficile da ricordare (e che avrei amato solo venti anni dopo), zero. Per i più, sottoscritto incluso, si ripartirà dagli anni ’80 con la riscoperta di Mishima e i postumi della visione di Stefania Sandrelli nel film di Tinto Brass La chiave, tratto dall’omonimo romanzo  di Tanizachi. Molto più tardi avrei letto quel gioiello devastante de Lo squalificato di Osamu Dazai, storia di un fumettista stile Kitazawa Rakuten (il vero creatore del manga moderno a inizi ‘900), ma in versione autodistruttiva. Sia Dazai, rivoluzionario bello e dannato, che la sua opera sono tuttora rivisitati da manga e anime.
Infine, di musica giapponese doc neanche a parlarne, ma direttori d’orchestra di musica classica occidentale sì: Seiji Ozawa, la mia Sagra della primavera di Stravinskij preferita, comprata l’anno dopo il mio addio ai manga, il 1980.



Sì, c’era questo che piaceva del Giappone, che tutto sommato ci assomigliava nella vita quotidiana, non era solo una questione politica per “gruppuscoli” come la Cina maoista. Dell’Asia orientale – guerra e dopoguerra in Vietnam e Cambogia e continui rivolgimenti del partito comunista cinese a parte - si sapeva poco, tranne la tecnologia, meno apprezzata, di Taiwan; che c’era la Malesia, ma era ancora quella di Salgari e Kabir Bedi; che Kabir Bedi era indiano come il Mahatma Gandhi e Indira Gandhi, che però non erano parenti e poi quello era un subcontinente; il nord siberiano infine era tutto Unione Sovietica, e quindi Europa. Ecco, i paesi comunisti si vestivano più o meno come noi, soprattutto i leader. Mai però quanto i giapponesi. E soprattutto i giapponesi europeizzati dei manga: la moda del futuro.
E poi, imperatore a parte, qualche nome dei loro primi ministri, il cui numero, come quello dei governi, faceva a gara in quantità coi nostri (“governi balneari” compresi), era noto: Eisaku Satō perché aveva vinto il Premio Nobel per la Pace firmando il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, Tanaka perché era finito in mezzo a mondiali di ping pong, Nixon e Mao riconoscendo la Cina comunista ed era finito nello Scandalo Lockheed in compagnia di un po’ di nostri politici, Takeo Miki perché suonava bene per noi bambini e poi Nakasone, prima per il nome e poi per quella sciagurata visita (prima e non ultima purtroppo) al santuario Yasukuni, luogo di culto dei nazionalisti, dove si onorano i morti in diversi conflitti bellici fra ‘8 e ‘900, ma anche non pochi criminali di guerra.
Il 4 aprile 1978 era premier Takeo Fukuda che, come in uno scontro fra eroi manga, finì per pestarsi a fine anno col suo successore Masayoshi Ōhira durante le prime primarie del partito liberaldemocratico…


Fukuda con Andreotti, Carter, Helmut Schmidt e Giscard d'Estaing al G7 di Bonn del luglio 1978

I due volti della medaglia: G7 e terrorismi

Ma eccoli qua i nostri due Stati, entrati a far parte del G7 dalla metà degli anni ’70: il Giappone tre anni prima di Atlas Ufo Robot alla RAI, l’Italia due. Una cauta, tranquilla amicizia, giusto per far dimenticare gli orrori totalitari del Patto Tripartito con la Germania nazista del 1940 e la devastante sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Lo spirito olimpico di Roma 1960 e Tokyo ’64 li ha pubblicamente e definitivamente purificati. Due belle feste e buoni rapporti di vicinanza-lontananza cercando il più possibile di esorcizzare ed emarginare i rigurgiti dittatoriali del passato. Dopotutto li accomuna l’appartenere alla sfera di influenza americana e il predominio politico ultradecennale di un mastodontico partito di centro (la “Balena bianca” democristiana e la “Balena gialla” del Partito Liberal Democratico ancora oggi al potere, con vice e primi ministri cristiani anche cattolici – l’ultimo, Tarō Asō, vice primo ministro appassionato di manga con Shinzō Abe e fra i papabili alla sua successione). Di diverso c’era che in Italia la DC di Moro aveva momentaneamente messo in soffitta il vessillo anticomunista per dar vita, nel ’76, a un governo monocolore di “non sfiducia” con l’astensione del partito comunista, presieduto da Andreotti (proprio lui), e, proprio nel ’78, a un governo, sempre monocolore ma di “solidarietà nazionale”, col sostegno esterno del PCI, presieduto da Andreotti (sempre lui). Il 16 marzo 1978, un’ora prima del dibattito sulla fiducia avvenivano il rapimento di Aldo Moro e il massacro della sua scorta da parte delle Brigate Rosse.
Dagli anni dell’acciaio a quelli di piombo. E il terrorismo non era certo un’esclusiva italiana. Il Giappone aveva sperimentato quello di estrema destra con due tentati golpe e relativi omicidi di primi ministri, in carica o ex, già negli anni ’30. Colpi di stato falliti, certo, ma che avevano spostato l’asse del governo su posizioni sempre più nazional-imperialiste (la sanguinaria invasione della Cina avviene proprio l’anno dopo l’ultimo putsch, nel ’37). 

Il tentato golpe organizzato da estrema destra e ufficiali ultranazionalisti della marina nel 1932, costato la vita al premier Inukai

Nel 1960 – guarda caso quasi in contemporanea, poco dopo i rigurgiti neofascisti in Italia sotto il governo Tambroni – l’omicidio in diretta televisiva del leader socialista Inejirō Asanuma da parte dell’ultranazionalista Otoya Yamagughi, poi suicida in carcere.
Ma è nel 1972, col Paese ancora sotto i riflettori per le Olimpiadi invernali di Sapporo (quasi un presagio di quello che accadrà a Monaco), che, sempre in diretta tv, la polizia assalta un villino sul Monte Asama dove si sono rifugiati i terroristi della Rengo Sakigun, l’Armata Rossa Unita, dopo aver torturato e ucciso quattordici compagni epurati. Negli stessi anni si verrà formando, non in terra nipponica ma nel Libano prossimo alla guerra civile, l’Armata Rossa Giapponese che, in sinergia con i gruppi più estremi della guerriglia palestinese, si renderà protagonista di una lunga serie di sanguinosi attenti, compresa la bomba al circolo ricreativo delle truppe statunitensi USO a Napoli nel 1988 (una strage: cinque morti di cui quattro semplici passanti italiani, e quindici feriti). L’autore Junzō Okudaira non è mai stato catturato (potrebbe essere in Libano come in Corea del Nord). Verrà sgominata solo agli inizi del nuovo secolo, in un Giappone ben diverso, che vede la Cina sostituirsi come “tigre rampante” dell’economia mondiale.


Scena di devastazione dell'attentato a Napoli

Su tutta questa storia rimando al film United Red Army  di quel particolarissimo regista che è stato Kōji Wakamatsu (scomparso nel 2012, già co-regista di un documentario sullo stesso tema nel '71, produttore dell’Impero dei sensi  e autore anche di un lungometraggio sulla morte di Mishima).
La grande scalata come superpotenza economica, infatti, era durata fino alla metà degli anni ’80 quando, seconda solo agli Stati Uniti, lo scoppio della “bolla speculativa” aveva segnato l’inizio della recessione. Il Giappone avrebbe poi consolidato le sue posizioni ma senza più ritrovare, neppure alla lontana, quegli indici di crescita (la stessa cosa era già successa all’Italia dopo il “boom economico”). Degli ultimi anni la timida ripresa dell’economia con il conservatore Shinzō Abe, dopo una breve e sfortunata esperienza della sinistra al governo, proprio in questi giorni dimissionario. Politica che però si è unita a recrudescenze nazionaliste, in parallelo al formidabile boom cinese (nazionalista anche lui, dietro il paravento comunista), e ha portato al ritorno di revanscismi e negazionismi su orrori del passato bellico nipponico (dal Massacro di Nanchino del ’37 all’uso massiccio di “donne di conforto”, soprattutto cinesi, filippine e coreane costrette a diventare schiave prostitute per i soldati) sponsorizzati soprattutto dall’ex ministra della difesa Tomomi Inada (affiliata alla lobby revisionista Nippon Kaigi e fattasi fotografare col segretario del partito nazista giapponese), costretta alle dimissioni nel 2017 per un scandalo di insabbiamento sull’uso di forze di pace nipponiche in Sud Sudan.

Peace & love

Ma torniamo a immagini più pacifiche: quelle dei sempre cordiali incontri fra politici italiani e nipponici:
1961 Leone, allora solo innocuo presidente della Camera, brinda col presidente della Commissione Esteri giapponese;
1967 Il presidente della Repubblica Saragat fra l'ex premier nipponico Nobusuke Kishi (nonno di Shinzō Abe) e l'ambasciatore Shigeru Yosano;
1973 Andreotti, presidente del consiglio per la seconda volta, al pranzo offerto dalla moglie del premier giapponese Tanaka (altro divo della politica spregiudicato ed esperto di processi come lui);
1986 Il presidente del consiglio Craxi con l'omologo Nakasone;
2019 Conte e Abe a Roma (parata di bisillabi);
1969 Il nostro indimenticabile Sandro Pertini, allora solo presidente della Camera, riceve l'ambasciatore giapponese.

RAI, reazioni e autocritica


Ma è grazie a una funzionaria della RAI appena riformata, Nicoletta Artom, che dobbiamo l’ingresso di Atlas Ufo Robot nei nostri schermi. La scelta è frutto della sua scoperta della serie al Mifed di Milano nel ’77. Scelta che susciterà tanto entusiasmo fra i giovani quanto accese polemiche con i genitori. Ricordo un dibattito accesissimo a scuola durante la mia terza media (a Varese) con l’intervento risolutivo di un bocciato a favore dei manga che trascina con se l’approvazione di tutta la classe. L’astuta professoressa di italiano, contraria senza essere pasdaran, rinviò il seguito della discussione a data da destinarsi…

Immagini e approfondimenti in ImagoRecensio

Ci pensò la buonanima di Enzo Tortora a rinfocolare la controversia in tv con la puntata de L’altra campana del 18 aprile 1980, quando invitò una rappresentanza dì 600 genitori di Imola che si erano schierati contro la “violenza” di Goldrake e la sua riproduzione esponenziale nei disegni dei figli (nella media di pregevole fattura). Una battaglia inutile come quella dei 600 di Balaklava, ma che scatenò una rivolta anche all’interno della mia famiglia. Chi era contrario doveva spegnere le luci di casa e mio fratello, che non aveva ancora dieci anni, le tentò tutte per fermare mia madre e il sottoscritto, che di anni ne aveva già quattordici, poteva guardare certi film vietati e rinnegava quella macelleria di rottami ferrosi per bambini… Che tradimento!
E soprattutto che ignoranza! Rimediata solo all’università quando, venuto a conoscenza dei rapporti fra arte giapponese e occidentale, soprattutto italiana, scoprii che quelle animazioni erano frutto di un interscambio culturale fra popoli che datava da secoli.

L’arcipelago incontra l’Occidente: vele e cannoni, religione e arte

Carta del mondo di Martin Behaim (1492, riproduzione del 1887)

Citato come “Cipango” o “Zipangu” da Marco Polo, cercato e non trovato da Cristoforo Colombo, il Giappone viene raggiunto dai portoghesi nel 1543 mentre si trova nel bel mezzo di una profonda crisi politica, Periodo Sengoku (o “degli stati belligeranti”), spezzettato in numerosi potentati dai signori della guerra, i “daimyō” che rendono impossibile un controllo effettivo da parte shogunato degli Ashikaga. Qualcosa di simile all’anarchia feudale post carolingia. Quello che non era riuscito alle flotte di Kublai Khan con le invasioni del 1274 e del 1281 - spazzate via da tifoni provvidenziali ribattezzati “kamikaze” o “venti divini” (termine che forse ci dice qualcosa…) – riesce in modo pacifico ai lusitani, che raggiungono l’isola più meridionale dell’arcipelago, Kyushu, e ne approfittano per fare incetta di schiavi (specie di sesso femminile) e mettere sul mercato la loro merce più appetibile: gli archibugi. A quei tempi è sempre difficile dire se arrivino prima i missionari o i fucili. In questo caso sembra questi ultimi, perché il “colonnello” dei Gesuiti Francesco Saverio approda a Kagoshima solo il 15 agosto del 1549.

Arte Nanban, Prete con due bambini (1600 c.a)

Ma il grosso del lavoro lo farà soprattutto il suo successore, il missionario abruzzese Alessandro Valignano, apprendendo il giapponese e cercando una sintesi fra le due culture col Cerimoniale per i missionari in Giappone. Non a caso era stato proprio lui a istruire al rispetto della cultura locale il grande Matteo Ricci per il suo viaggio in Cina (col successo che sappiamo). Diversi i daimyō del sud che si convertono. Fra questi i più noti: Ōmura Sumitada (battezzato Bartolomeo; Ōtomo Sōrin (battezzato Francesco) e Arima Harunobu (battezzato Protasio, cresimato Giovanni).

Foglio informativo tedesco del 1586 con ritratti i componenti dell'Ambasciata Tenshō

È su ispirazione del Valignano e della sua predicazione rivolta all’incontro fra i popoli che nel 1582 parte alla volta dell’Europa la prima missione (“Ambasciata Tenshō”) di giovani dignitari nipponici. Culminerà nell’incontro con papa Gregorio XIII (quello della riforma del calendario) il 23 marzo 1585. Del capo delegazione Itō Mancio è rimasto anche un bellissimo ritratto attribuito a Domenico Tintoretto, esposto anche nella sua città di origine, Miyazaki (quando si dice il nome…), nel 2016, per il 150° dell’inizio delle relazioni diplomatiche italo-nipponiche.

Domenico Tintoretto, Ritratto di Itō Mancio (1585)

In una lettera del 1585 di Filippo Sassetti - intellettuale a Firenze e, con meno fortuna, mercante nella colonia portoghese di Goa in India (ne parlerò in un prossimo post) – si dà quasi per scontato che il “Giapan” diventerà cattolico: “Là comandano i padri Gesuiti, fanno la guerra, e pongono i re in istato e altre cose”. Sappiamo che non sarà così e la reazione anti cristiana alla lunga, specie dopo la rabbia accumulata coi due falliti tentativi di invadere la Corea nel 1592 e 1596, avrà la meglio con la restaurazione dello shogunato da parte di Tokugawa Ieyasu, del figlio Hidetada e del nipote Iemitsu, che attueranno una spietata repressione della religione di Roma (grazie anche all’appoggio dei nuovi signori dei mari olandesi, vedi il bombardamento del castello di Hara nel 1637). Nel 1641 col decreto shogunale “sakoku” l’arcipelago viene chiuso agli stranieri con le parziali eccezioni dei porti di Nagasaki (per il commercio con olandesi e cinesi) e di Tsushima (riservato ai mercanti coreani).

Arte Nanban, Paravento con i re d'Occidente idealizzati (1611-14)

Riaperture, traumi, ricomposizioni

Termina così anche quella prima influenza diretta dell’arte europea che aveva dato vita all’Arte Nanban. Non parliamo di capolavori, ma di opere di raffinata fattura, soprattutto paraventi che avevano per soggetto personaggi occidentali, sospesi fra l’estetica della Scuola Tosa (di più marcata impronta nazionale) e la Scuola Kanō (di rinnovata influenza cinese), che entrambe le sopravvivranno. Una pittura che mi ha sempre appassionato e commosso proprio perché tentativo di simbiosi, anche se irrealizzata, fra due mondi. Narrazioni sognanti capaci di far dimenticare per attimi preziosi i reciproci orrori del primo incontro.

Arte Nanban, L'Occidente come oasi di pace (1600 c.a)
 
Ma il successivo, purtroppo, sarà ancora, per dirla alla Carlo Cipolla, all’insegna di “vele e cannoni”. Con l’aggiunta del vapore. Dove non erano riusciti i tentativi russi della fine del XVIII secolo e le provocazioni inglesi d'inizio Ottocento riesce la minaccia della nuova flotta americana del commodoro Perry (1852-54). Si profila un nuovo incubo alla Kublai Khan, aggiornato con le Guerre dell’Oppio che stanno trasformando la Cina de facto in una nuova colonia britannica. Crollato il sogno dell’isolamento, il Giappone dello shogunato Tokugawa cerca di reagire iniziando a riformare la struttura dell’esercito con l’aiuto dei francesi e firmando tutta una serie di trattati commerciali il cui aspetto svantaggioso, tuttavia, fa presagire il peggio.
E infatti, dopo sanguinosi rivolgimenti interni, l’era degli shogun finirà. La nuova dinastia di imperatori Meiji, rappresentata dall’imperatore Mutsuhito, prenderà in mano la situazione nel 1868 e deciderà l’inevitabile: l’occidentalizzazione dell’arcipelago per resistere alle brame coloniali dell’Occidente. Per fare questo occorrerà riformare tutto l’apparato economico e dar vita a una rivoluzione industriale autoctona capace di fornire le basi strutturali alla nuova potenza dell’impero nipponico. Il surplus agricolo per effettuare questo balzo, come ha scritto il mio caro Claudio Zanier nel suo memorabile Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Dalla fine del XVI alla fine del XIX secolo, era già a disposizione e il nuovo governo Meiji interverrà subito a riorganizzare in modo organico l’amministrazione del settore primario.

Edoardo Chiossone, Ritratto dell'imperatore Mutsuhito (1888)

Il decollo dell’economia nipponica, anche se pagato a livello sociale a carissimo prezzo  - e su questo rimando all’antologia curata da Alfio Aloisi L’internazionalismo in Giappone (1897-1930) -  è uno dei “miracoli” della Seconda Rivoluzione Industriale e fa il paio con l’Italia quanto a intervento dello stato, produzione a fini bellici, nazionalismo aggressivo e progetti di espansione coloniale (a farne le spese saranno in primis Cina e Corea).
Nel 1871 parte la seconda grande missione giapponese in Europa, la Missione Iwakura, che non durerà più di otto anni come l’Ambasciata Tenshō ma meno di due e non avrà più come fine l’incontro con un papa non più re ma chiuso fra le mura di San Pietro, bensì uno studio approfondito dei vari tipi di potere in Europa e Stati Uniti e la revisione dei trattati ineguali del periodo precedente.

Giapponismo e occidentalizzazione

1905: La grande onda di Hokusai rivisitata per la copertina dello spartito dell'opera di Debussy, grande appassionato di arte giapponese.

E mentre il Giappone si occidentalizza l’arte europea, dopo le varie mode cinesi, è attratta dal “Giapponismo” sull’onda della diffusione e dello studio della meravigliose stampe Ukiyo-e, quel Sol Levante d’antan che si desidera diverso, luogo di fuga dal lato oscuro dell’industrializzazione (proprio mentre si sta omologando): pensiamo solo a certi quadri di Van Gogh. Forse, ancora senza esserne coscienti, s’intravvede nei capolavori di Utamaro, Hokusai e Hiroshige anche quel tocco occidentale nell’anatomia dei corpi che era frutto delle traduzioni in giapponese, dal 1720 in poi, delle opere scientifiche olandesi (i “Rangaku”). E proprio la raccolta di “disegni burleschi”, ovvero Manga, di Hokusai, nel 1814, a segnare l’inizio del successo del termine che poi sfocerà nel fumetto e nella sua animazione. Edmond de Goncourt, storico e letterato a tutto tondo, dedicherà a Utamaro e Hokusai, rispettivamente nel 1891 e nel 1896, i primi fondamentali studi sull’arte giapponese.

"Rangaku" del 1808 con la traduzione di un trattato del medico olandese Blankaart a opera di Udagawa Genshin

Tutto questo mentre l’imperatore e il suo entourage cercano di liberarsi dall’immaginario esotico-erotico (fatale a tante civiltà extraeuropee) e dall’etica da casta dei samurai (ridotti a “ronin”, guerrieri senza padrone, invano ribelli contro il nuovo potere), rimodellando l’esercito sul modello prima francese e poi prussiano, accentrando il potere amministrativo e riformando in toto il sistema scolastico. Nel 1889 si arriva anche a una Costituzione, gentilmente concessa dal mikado come 41 anni prima lo Statuto da re Carlo Alberto, con un diritto al voto (censitario) riservato per una sola Camera su due (quella Bassa) a una ristrettissima parte della popolazione (maschile): poco più dell’1% (peggio ancora del 2,2% dell’Italia prima della riforma De Pretis del 1882).
Ma è soprattutto nei primi tempi del cambiamento, prima della reazione tradizionalista degli anni ’80 dell’Ottocento, che le mode occidentali trovano un successo incontrastato. È l’epoca d’oro degli "Oyatoi Gaikokujin", i consulenti stranieri chiamati a modernizzare a tutto campo l’arcipelago.

Il ruolo dell’Italia per una nuova rappresentazione del mondo

Lo si vede bene anche in campo artistico. Cercando di svecchiare l’estetica tradizionale vengono invitati maestri d’arte dall’estero e, cosa fondamentale per noi, soprattutto dall’Italia. È infatti dall’incontro di uno degli esponenti della Missione Iwakura, Itō Irobumi (fra i primi a studiare in un’università inglese nel 1863, più volte ministro e primo ministro) con Alessandro Fè d'Ostiani, ambasciatore italiano in Giappone dal 1870 al 1877, che vengono poste le basi della Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo. La fondazione è del 1876, come parte del Collegio Imperiale di Ingegneria, il che ne qualifica subito l’aspetto strumentale finalizzato più alle arti applicate da commercializzare che alle belle arti in senso stretto. D’altro canto l’Arte Nanban di tre secoli prima non era stata un’estetica da paraventi? Fatto sta che la Scuola diventa un crogiolo di nuove forme dove a guidare l’altoforno sono quasi sempre artisti italiani, certo non geniali ma di grande professionalità.

Felice Beato, Samurai del clan Satsuma durante la Guerra Boshin (1868-69)

Il genio era arrivato prima, nel 1863, in campo fotografico, con i bellissimi scatti di quel personaggio particolarissimo a metà strada fra l’artista, l’avventuriero e l’affarista che risponde al nome (altrettanto particolare) di Felice Beato, formidabile reporter fra Crimea, India, Cina, Giappone (fino al 1884), Sudan e Birmania. Ora invece l’istituzione prevedeva insegnanti  regolari e senza troppi grilli per la testa. I nomi dei direttori scolastici sono noti a chi conosce i flussi più tranquilli della nostra arte del XIX secolo sia che si parli di Antonio Fontanesi (esperto paesaggista) o di Prospero Ferretti (emiliano come il primo e interessato anche all’astronomia).


Antonio Fontanesi con i suoi studenti in una foto del 1878

Lo stesso dicasi per i docenti del Bel Paese: dai corsi preparatori dell’architetto milanese Giovanni Vincenzo Cappelletti (proposto nientedimeno che dal ministro dell’istruzione Bonghi) a quelli di disegno e pittura di Achille Sangiovanni (che introduce lo studio del nudo). C’è poi l’interessante esperienza dello sculture Vincenzo Ragusa, che oltre alla docenza ha lasciato un’affascinante eredità di ritratti di giapponesi dell’epoca, spesso gente comune (un'altra piccola rivoluzione). Così come la sua storia d’amore con la modella, l’artista Kiyohara O' Tama, che si traferisce con lui a Palermo e lo sposa diventando un’interessante pittrice di realtà siciliane.

Kiyohara  O' Tama, La notte dell'Ascensione o La benedizione degli animali (1891)

A loro, proprio l’anno scorso, nel Palazzo Reale di Palermo, è stata dedicata la mostra O’TAMA. Migrazione di stili. Infine il caso dell’incisore Edoardo Chiossone, direttore dell'Officina Carte e Valori del Ministero delle Finanze giapponese dal 1875 al 1891, l’artefice della prima banconota del Sol Levante (1877). C’è ritratta la leggendaria imperatrice Jingū, ma il valore è nella nuova valuta dello yen, introdotto dalla legge monetaria su base decimale del 1871.

Ma la sua opera non si limita alle centinaia di lastre per banconote, francobolli, titoli di stato  e bolli di monopolio (basterebbe già questo), l’artista esegue tutta una serie di dipinti e incisioni che ritraggono l’establishment del Sol Levante: dalla coppia imperiale ai cortigiani, dagli statisti ai militari d’alto rango. Solo per fare un esempio, l’incisione che raffigura l’imperatore Mutsuhito su tutti i libri di scuola è opera sua. Quando muore, nel 1898, viene sepolto nel cimitero più importante del Paese, quello di Aoyama, oggi anche meta di attrazione turistica. L’anno successivo, per volontà testamentaria, approda in quella Genova dove si era diplomato professore di disegno e di pittura la sua enorme collezione di più di 15.000 “antichità” giapponesi, imballate in un centinaio di casse. Scrivo "antichità" fra virgolette perché non si trattava solo di oggetti antichi tout court, ma sentiti tali, anche se di fabbricazione recente, da chi voleva o poteva disfarsene per “occidentalizzarsi” oppure si trovava nella necessità di venderli per evitare la rovina economica, com’era il caso di clan aristocratici esclusi dal nuovo corso della politici Meiji. Forniranno la base di quello che oggi è uno dei più prestigiosi musei al riguardo: il Museo d’Arte Orientale “Edoardo Chiossone” in Villetta Di Negro, a Genova (il primo realizzato a spese di una pubblica amministrazione nel dopoguerra).

Due Scuole per una nuova “tradizione”

La Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokio chiude i battenti nel 1883, sempre più contestata da un movimento di rinascita dell’arte “tradizionale” nipponica. Anche qui uso le virgolette perché questa reazione avviene soprattutto sulla base di una sollecitazione esterna (gli studi dell’orientalista americano Ernest Francisco Fenollosa). Quando si parla di “ritorno alla tradizione” bisognerebbe sempre avere presente l’opera fondamentale curata dal grande Eric Hobsbawm e da Terence Ranger L’invenzione della tradizione (1983), perché quanto pretende di presentarsi come “tradizionale” è sempre frutto di rielaborazioni – se non di vere e proprie falsificazioni – che si attuano alla luce dei cambiamenti intervenuti, assolutamente presenti anche se tenuti sotto silenzio.

Lo stile di questo ritorno a convenzioni, tecniche e materiali del “bel tempo che fu” è passato alla storia come Stile Nihonga e ha prodotto o rimesso in campo, è bene dirlo, fior d’artisti come Kanō Hōgai, Tomioka Tessai, Hishida Shunsō, Takeuchi Seihō o Kokei Kobayashi (il Matisse giapponese) - giusto per fare qualche nome – e gode ancora di buona salute. Non ha potuto fare a meno, tuttavia, di prospettiva e ombreggiatura, che tradizionali non erano. Si trattava piuttosto di frutti raccolti dalle produzioni della scuola europea, che aveva dato vita a sua volta allo Stile Yōga. Pitture a olio, acquerelli, pastelli, litografie e incisioni che caratterizzano il passaggio fra Otto e Novecento nell’arcipelago. Opera soprattutto di artisti – e la cosa non stupisce – originari dell’isola di Kyushu, come Kuroda Seiki o l’ancor più noto Fujishima Takeji, la cui Reminiscenza dell'era Tenpyō (1902) rappresenta l’immaginario femminile di un’epoca fra storia e leggenda (l’VIII secolo) aggiornato secondo i crismi dell’Art Nouveau.

Una delle sintesi: il Manga contemporaneo 

Ed eccoci arrivati al momento risolutivo del nostro discorso. Si è partiti dal fatidico 4 aprile 1978 per fare un balzo indietro nei secoli, prima all’Arte Nanban e poi agli stili Nihonga e Yōga, sviluppatisi in reazione o continuità  con la breve ma intensa esperienza della Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo. Ebbene, come i Manga di Hokusai erano figli di secoli di sperimentazione estetica locale arricchita dall’apporto dei “Rangaku” olandesi, così anche i manga contemporanei sono frutto dell’osmosi fra arte occidentale e rielaborazione autoctona. L’artista che rappresenta perfettamente questo punto di incontro è il creatore del fumetto manga contemporaneo: Kitazawa Rakuten. Formatosi sullo studio degli stili Nihonga e Yōga, dopo un apprendistato sulla rivista inglese Box of Curios (1895) sotto la guida di Frank Arthur Nankivell (futuro caricaturista della rivista america Puck), sempre attento agli sviluppi dei comics Made in USA, nel 1899 si trasferisce al quotidiano Jiji Shimpo di  Fukuzawa Yukichi, intellettuale e imprenditore tra i fondatori del Giappone moderno. Cura la pagina domenicale a fumetti Jiji Manga (eccolo qui il termine come lo conosciamo oggi, finalmente sdoganato). È il trampolino di lancio per una rivista tutta sua, Tokyo Puck, fondata non a caso nel 1905, l’anno in cui il Sol Levante trionfa nella guerra russo-giapponese ponendosi in prima fila fra le potenze mondiali. Nel 1929 il suo geniale apporto a questa nuova arte di massa viene riconosciuto anche in Europa, in Francia, dove riceve la Legion d’Onore. Dieci anni dopo la sua morte, nel 1966, la sua casa nella città di Saitama viene trasformata in quello che oggi è il Museo Municipale del Manga.

Il suo lavoro influenzerà professionisti del calibro di Okamoto Ippei, Oten Shimokawa e, soprattutto, Osamu Tezuka, il primo grande disegnatore di manga a livello internazionale, definito anche “manga no kamisama” o “dio del manga”. È lui il creatore del tratto distintivo dei nuovi comics e cartoni animati giapponesi (le famose “anime”): i grandi occhi, che stupirono bambini e adolescenti italiani quarant’anni fa e che invece derivavano da fumetti che conoscevamo benissimo come Topolino Betty Boop. E pensare che Tezuka, da ragazzo, era stato colpito da una grave forma di micosi che aveva rischiato di paralizzargli entrambe le braccia! Si era laureato in medicina come ringraziamento per i medici che l’avevano curato e per curare gli altri, specie dopo la visione degli orrori provocati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Soltanto la genialità del suo disegno lo portò a continuare in campo artistico: quanto prodotto da quelle mani quasi miracolate avrebbe curato, appassionato e sollevato in maniera diversa gli esseri umani. Fra i tanti personaggi usciti dalla sua penna nel 1952 decolla Astro Boy, il primo manga di carattere fantascientifico capace di riscuotere un immenso successo a livello mondiale. Successo che dura ancora oggi (anche perché il tema della robotica, trattato in modo originale e profondo, è quanto mai attuale).

È il nonno sempre giovane di Goldrake e di tutti i robot della Toei Animation che l’hanno seguito a schiera sui nostri teleschermi, compresi Mazinga Zeta Il Grande Mazinga, usciti prima di Atlas Ufo Robot in Giappone e invece comparsi da noi dopo. Creando non pochi problemi di interpretazione. E c’era pure quella storia dei Micenei diventati cyborg a causa di un cataclisma che li aveva costretti a vivere sottoterra e a riemergere in forma di cattivi combattuti da Mazinga Z e dal Grande Mazinga, guidati da Alcor, che quindi non era lo sfigato numero due di Actarus, ma un protagonista che era passato anche sotto altri nomi come Koji Kabuto e Ryu…

Verrebbe voglia di dire con Mishima che la memoria è Lo specchio degli inganni.

E invece, forse, tutto torna. Un arco di mezzo millennio per scoprire dietro un’animazione tante anime culturali che danno la visione migliore di un incontro fra i popoli.

Notte inoltrata, un orario impossibile per il ragazzino del ’78, tempo ideale per condividere questo ennesimo turbinio di immagini e pensieri a cui ho cercato di dare un senso. Prima che svaniscano nel sonno, prima di un risveglio in cui passino la consegna ad altri personaggi, immagini, storie, assaporo ancora una volta dalle Memorie poetiche della mia amata Murasaki Shikibu questi versi che dedico a chi mi leggerà:

“Potrei scordarmi

Di scriverti,

Inviando novelle

Con la luna che volge al tramonto

E il passaggio delle nuvole?”.

Luca Traini