Il
dittico in avorio di Anicio Probo, console nel 406 d.C., anno cruciale per i
destini dell’Impero Romano di Occidente, raffigura l’imperatore Onorio e
racconta se stesso dalla teca del Tesoro della Cattedrale di Aosta, dove venne
riscoperto nel 1834. Estrema
testimonianza dell’arte classica, dopo un sonno più che millenario e un
definitivo ritorno alla luce consacrato da un recente restauro, intraprende un
viaggio alle radici dell’Europa. La storia di Anicio Probo, membro della famiglia senatoria più
importante dell’epoca, si unisce a quella dell’Impero in parallelo con quella della
Valle d’Aosta, dalle origini rintracciabili oggi nell’area megalitica di
St-Martin-de-Corléans fino al Medioevo e oltre, con excursus storico-geografici
ad ampio raggio e un finale a sorpresa. La
narrazione si snoda in un immaginario percorso attraverso monumenti romani e
medievali di Aosta –Augusta Praetoria Salassorum, non a caso nel mese di agosto
del 2006: nell’oggi di 1600 anni prima. Il romanzo, ricco di citazioni rare di autori antichi, viene
impreziosito da tre composizioni poetiche originali dell’autore che riproduce e
attualizza gli antichi versi intexti, acrostici e ropalici.
PASSI SCELTI Testo
FRAMMENTI Video
SINOSSI
INDICE
AUTORI ANTICHI CITATI E TRADOTTI DALL'AUTORE
MUSICHE CHE HANNO ACCOMPAGNATO LA STESURA DELL'OPERA
RECENSIONI
Introitus (Tesoro della cattedrale di Aosta) Testo e Video
Puro avorio africano Testo
L'opera d'arte: un problema di eredità Testo e Video
Restauro umanistico Testo
Oriente e Occidente: due mete utopiche (Traiano, Ban Chao e il pepe) Testo e Video
Di buono c'è che sappiamo anche costruire Testo
Il padre di marmo: Sesto Anicio Petronio Probo Testo e Video
L'album di famiglia presentava foto piuttosto sbiadite Testo
Claudiano: il poeta Testo e Video
"Historia augusta": un fantastico libraccio indecente Testo
Famiglia cristiana Testo e Video
Abbiamo ospitato anche Pelagio e ne siamo fieri Testo
Il pessimismo dei poeti, il presagio della fine Testo e Video
I santi proteggono le mura. Le mura, l'impero. L'impero... Testo
Proba e le altre: cultura al femminile Testo e Video
Ma non ci sporcavamo le mani con l'alfabeto Testo
A.D. 406: Roma o Disneyland? Testo e Video
Gap tecnologico e disastri ambientali Testo
Servi della gleba e affossatori Testo e Video
"Da quando le rose han preso a far male?" Testo
Geopolitica: il gioco dei "latruncoli" Testo e Video
Il dittico di Stilicone Testo
I versi "intexti" di Optaziano Porfirio Testo e Video
Poi dovrei essere morto Testo
Gli ultimo Anici: Boezio Testo e Video
Versi ropalici di commiato (endecasillabi) Testo
Papa Gregorio Magno: fine di un'epoca Testo e Video
Versi acrostici, mesostici, telestici e intexti in italiano (endecasillabi e settenari) Testo
Introitus (Tesoro della cattedrale di Aosta)
Amico,
hai dato l’obolo al guardiano?
Ti
sei fatto accendere la luce, aprire la porta?
Hai
varcato la soglia. Bene: ora sei dentro un Tesoro. Quello della Cattedrale di
Aosta, dedicata all’Assunta, in cielo, dove ai tempi di Roma volavano i grandi
imperatori.
Morti.
Come me. Ma non chiedermi quando, non lo ricordo.
Sappi
solo che la mia anima è dentro la prima colonnina che incontri, trasparente
come lei, dove dentro sta, cereo, luminoso, il dittico che dedicai al mio
imperatore, di certo non il migliore: Onorio, figlio di Teodosio.
No,
neppure io sono stato un “Grande“. Però è inciso nell’avorio, era scritto sulla
cera: “uomo chiarissimo”, cioè più che illustre, illustrissimo, ovvero senatore
figlio di senatore, servo devoto dell’imperatore.
E
console. Ordinario, ma pur sempre console, anche se questa carica ormai era un
fantasma di potere.
Tu
prova a spulciare la sterminata lista dei consoli romani.
Devi
avere pazienza: dal 509 avanti Cristo ai miei 12 mesi passano più di 900 anni,
e ancora più nomi senza corpo.
Hai
presente il “Corredo dello scriba” al Museo Archeologico Regionale? Lo stilo si
è rotto, l’inchiostro è finito. Ma i conti tornano sempre, anche su un abaco di
bronzo ossidato.
Sei
giunto.
Anno
Domini quattrocento sesto, data convenzionale (il calcolo è sbagliato).
Io sono
Anicio Petronio Probo.
[...] Lavoro splendido, vero? Puro avorio africano. L’Africa era ancora romana e piena di santi: Agostino, per esempio, di una generazione più vecchio di me.
Un problema di tempi. Un problema di spazi, infiniti.
Avevo fatto cercare le zanne che due centurioni avevano riportato a Nerone dalle sorgenti del Nilo. Niente da fare. Tutte queste guerre civili hanno rovinato gli archivi. E allora ho ripiegato su elefanti uccisi di fresco. [...]
L'opera d'arte: un problema di eredità
Prendi
il mio dittico, prova a leggerne la trama congesta delle forme, gli echi di
tante culture diverse che, tutte insieme, lo fanno vibrare.
Ci
trovi gli occhi al cielo del grande Alessandro (un Greco che guardava a
Oriente), il potere assoluto dei re dei re persiani, i leoni africani, la
fissità di un faraone, il gusto germanico per le pietre preziose, il contesto
cristiano che sorge dall’ebraismo e al contempo si fa altro.
Come
altro si era fatto l’elemento romano da quando i consoli erano consoli e non
solo un nome.
Noi
siamo i Romani di Costantino, che veniva dai Balcani; forse di Diocleziano,
anche lui di quelle parti; magari anche di Settimio Severo (da Leptis Magna, in
Libia). Ma non siamo più quelli di Traiano, provincia ispanica, né tanto meno
di Vespasiano, italico - o quelli di Augusto, di Cesare (davvero pochi sono
nati a Roma città). E più risali indietro, più tutto diventa vago. Fino agli
Etruschi (da dove venivano?), a Romolo (che forse non è mai esistito), al leggendario
Enea, che comunque veniva da Troia, e discendeva da Venere, in cui non crediamo
più.
E l’arte
di un artista senza nome fa il miracolo di tenere insieme tutto questo: tutti i
passati congelati in un attimo eterno.
[...] Ma tu, amico, tu che osservi il mio piccolo doppio ritratto a 1600 anni di distanza, tu devi sapere che fino a poco tempo fa le spaccature di cui ti parlavo prima si era cercato di suturarle - pare in età umanistica - con tanti punti quanti, più o meno, l’età di Cristo, attraversati da un cordoncino d’argento. Sembrava tutta una teoria di piccoli ganci con cui tenere insieme classicità e cristianesimo.
Una soluzione provvisoria a un problema sempre aperto.
Riaperto da un restauro che li ha tolti di mezzo tutti quanti.
Ora che puoi ammirarlo restaurato, le spaccature si sono fatte più evidenti. [...]
Un'anta del Dittico prima del restauro
Oriente e Occidente: due mete utopiche
Quante
volte abbiamo cercato un contatto diretto coi Cinesi! E loro lo stesso. E per
un pelo non ci siamo incontrati.
Nel
97 d.C. il generale Ban Chao aveva raggiunto il Caspio e spedito un suo
ufficiale, Gan Ying, alla nostra ricerca. Ma i Parti - come poi i Persiani -
avevano impedito l’incontro e lo credo bene: andava contro i loro interessi!
Quando
fummo noi a raggiungere quello strano mare che è un lago, erano ormai passati
quasi 20 anni e il petrolio in fiamme di
Baku, se mai vi fosse riuscito, avrebbe illuminato la sponda opposta deserta: i
Cinesi se n’erano andati e l’assetto geopolitico dell’Asia centrale era di
nuovo in subbuglio (ce ne saremmo accorti qualche decennio dopo). E il prezzo
della seta, al contrario del Caspio, sempre più salato.
E
così, come due amanti innamorati di un sogno, abbiamo vicendevolmente
continuato a idealizzare le nostre lontananze. Per loro “Ta-Ch’in”, cioè
l’Occidente, era una specie di Bengodi. Per noi viaggiare verso Oriente
rappresentava una specie di processione verso l’armonia, verso popoli sempre
più saggi, fino ai Bramini dell’India e ai Seri taciturni, i più sereni di
tutti.
E’
sempre meglio confinare la virtù ai limiti del mondo. O in un altro. Da questo,
il profumo della santità. Da quello, l’aroma delle spezie: assafetida,
spigonardo, zenzero e pepe, pepe, pepe lungo, pepe nero, soprattutto pepe. Lo
ripeteva fino alla nausea il gastronomo più esperto dell’impero, Apicio:
“Cospargi di pepe e servi”. Tutto: dallo struzzo lesso al cocomero bollito con
le cervella, ai sedani imbevuti nel latte e cotti al forno.
Tutto.
Anche la “cordùla“, pesce imparentato non solo con le sarde, disliscato e
imbottito di grani di pepe, cumino, menta, noci e miele: cucito e cotto al
vapore. Se arrostita, invece, abbinare a salsa con levistico, semi di sedano,
menta, dattero cariota, miele, ruta, aceto, vino, olio. E pepe.
Come
pepe sulle castagne cucinate a mo’ di lenticchie, con erbe aromatiche, miele,
aceto e olio verde.
Voi
in Valle non lo mettete sulla minestra di castagne. Però lo aggiungete alla
zuppa “mitonata” o a quella di Valpelline o al “civét” di camoscio, al vitello
“fricandeau“.
Che
viaggio fa il pepe dall’India!
Lo
stesso che fece il dio Dioniso, Bacco. E infatti col pepe ci aromatizzavamo
anche il vino. Chissà che non venisse dalle vostre parti quel “vino delle Alpi”
per cui andava matto Cesare. Non ce n’è uno che si chiama “Sangue dei Salassi”,
“Sang des Salasses”? Ce lo vedo bene Dioniso con le baccanti trai filari di uva
“petit rouge”! Che pasteggia a castagne ed “Enfer” sdraiato sul suo letto
d’osso, oggi al Museo Archeologico.
[...] Sì, di buono c’è che sappiamo anche costruire.
Basta non guardar troppo cosa c’è sotto.
Una volta che ti sei piegato, se rispetti la legge e paghi le tasse a noi basta così - se poi impari anche uno straccio di latino è nel tuo interesse - siamo tolleranti: ci basta occupare il suolo.
Ottimo qui, dove s’incontrano le strade del Piccolo e del Gran San Bernardo.
Due vie messe in croce, l’ideale sarebbe al centro di un quadrato, ma qui quasi a lato di un rettangolo, perché siamo gente pratica… Terreno in pendenza: meglio per gli acquedotti.
All’intersezione fra Cardo e Decumano: il Foro, l’Area Sacra, 2 templi gemelli piuttosto che 1 e rialzati, verso i 3 metri, per la Triade Capitolina e forse per Augusto volato in cielo… Si fa una tale fatica a costruire gradini e poi ci si ritrova inevitabilmente sottoterra. [...]
Augusta Praetoria (Aosta) nella Tabula Peutingeriana
Il padre di marmo
E
ora voglio passare dall’avorio al marmo.
Dalla
Cattedrale di Aosta alla Basilica di San Pietro.
Dalla
mia evanescenza al sepolcro di mio padre, che sta lì, a sinistra della Pietà di
Michelangelo.
Non
devi neanche scendere alle Grotte Vaticane per contemplare le radici
fossilizzate del nostro enorme potere. Gode ancora di uno spiraglio di luce, di
qualche sguardo distratto quanto resta di quella che un tempo fu la famiglia
per eccellenza frai senatori di Roma.
“Gens
Anicia”: bastava solo il nome.
Ora
è solo un nome.
E
io, solo un piccolo ramo dell’albero genealogico.
Il
tronco vigoroso: mio padre, Sesto Anicio Petronio Probo.
Tu
oggi lo trovi fra le note ma nel 368 lo avresti riverito quale massimo
funzionario civile dell’Impero Romano d’Occidente. Prefetto del pretorio per
Italia, Illirico e Africa di suamaestà Valentiniano Primo il Grande.
Rappresentante esecutivo e sacra rappresentazione del suo potere dal Danubio al
deserto del Sahara, dalle tue Alpi ai Balcani. Dalla sua corte di Sirmio,
presso Belgrado, lui irradiava la corona imperiale, ne applicava le leggi, controllava
i governatori delle province, ne curava le strade - la posta arrivava puntuale
grazie a lui - giudice praticamente insindacabile per i casi d’appello,
architetto di ogni tassazione e supervisore delle Zecche di Stato. Ti pare
poco?
Tu
sai che razza di rapace fu il grande Valentiniano. Non c’era tempo per le
sfumature: poche parole, molto denaro sennò addio Britannia, addio Gallia,
addio Africa. Per questo spedì mio padre a Sirmio, dove cavò sangue anche alle
rape senza guardare in faccia a nessuno.
C’era
anche da epurare un bel po’ di potenti. Cosa che fece. Divenendo potentissimo.
E
i buchi rimasti nell’apparato li coprì con nuovi dignitari d’acciaio.
Ti
faccio solo un nome: Ambrogio, il giurista della famiglia Aurelia, il figlio di
quel prefetto del pretorio delle Gallie caduto in rovina: fu mio padre a fargli
fare il salto di carriera.
Da
funzionario come tanti a uomo di fiducia nel suo consiglio privato, a
governatore dell’Emilia e dell’Italia Nord-Occidentale. Con sede a Milano, dove
poi sarebbe diventato vescovo, e poi santo. E anche poeta:
“Il
gallo desta chi giace
E
biasima i sonnolenti,
Il
gallo accusa chi nega…
Ma
quando canta torna la speranza”.
Mio
padre diventa console nel 371.
Per la
famiglia non era la prima volta, ma il suo fu il consolato più splendido.
[...] Una vera consacrazione.
E per innestare bene le basi a 2 secoli e più di radioso futuro domestico, da bravo uomo d’ordine, il nostro Sesto, “il restauratore della famiglia degli Anici”, cercò di dare una sistemata alla matassa intricata degli avi.
Cosa tutt'altro che facile. Più lavoro di propaganda che d’archivio. L’album di famiglia presentava foto piuttosto sbiadite.
A tutti sarebbe piaciuta una bella origine divina come nei tempi antichi: un bel matrimonio, anche solo una notte, fra il capostipite e una dea, meglio se Venere.
C’era il problema fondamentale di trascinare le radici dell’albero genealogico oltre le secche, ma sarebbe meglio dire il duro basalto, del III secolo dopo Cristo, l’epoca della grande anarchia militare.
Ci siamo costruiti un passato tirandolo coi denti? Coi canini? In latino “maschera” si dice, si scrive “persona”. Proprio così. Una maschera come quelle che portavano gli attori greci, i nostri. Perché non ci vuole niente a che la tragedia si trasformi in commedia. E il dramma che recitavamo, se non il finale, doveva avere lieto almeno l’inizio. [...]
Il Sarcofago di Sesto Petronio Probo in San Pietro, Città del Vaticano
Claudiano: il poeta
Lo
aveva scoperto mio padre questo bravo Egiziano, bravissimo in Greco ma ottimo
in Latino - e guarda che in Oriente è cosa rara, anzi unica. Nella parte
occidentale tutti noi Romani colti conoscevamo il Greco (mio fratello è stato
anche traduttore). Ma gli spocchiosi Elleni usavano il verbo dei Cesari solo
per le pratiche d’ufficio, quasi mai passavano dal registro alla letteratura.
Chi
ci provò - ti faccio un nome: Ammiano Marcellino - sarà pure stato un grande
storico, ma in fatto di stile…tutti quei participi avviticchiati, quegli
ablativi assoluti…
E
poi era nemico di mio padre.
Che
invece incaricò il giovane Claudiano di scrivere un panegirico per i miei
fratelli maggiori, Olibrio e Probino, consoli il primo gennaio 395.
E
con la lingua di Virgilio la sua bocca fu più dolce del miele:
“Romanos
bibimus primum te consule fontes
Et
Latiae cessit Graia Thalia togae”
“La
prima volta, quando tu eri console,
Io
venni a bere alle fonti romane,
Vinta
la Musa greca
Dalla
toga latina”.
Che
ragazzo meraviglioso: tre mondi e due universi in una persona sola!
Poi,
tutto pieno di ottimismo, venne da te, piccolo sovrano, perso nelle nebbie di
Milano - la capitale da Roma prima era finita in Germania e poi lì, da qualche
parte - Onorio che da poco avevi perso tuo padre e avevi appena qualche anno
più di me: 11 se non ricordo male.
E
lui, che viveva e faceva rivivere il mito, finché Proserpina riuscì ancora a
strappare qualche giorno a Plutone, con profonda, ostinata fiducia ebbe la
forza di scolpire altri 10.000 versi:
“Mens congesta iubet. Gressus
removete profani”
“Mi
guida una mente piena di eroi:
Lasciate
libero il passo, profani!”.
Tu,
avorio, io, ombra, se abbiamo passato la notte, se abbiamo ancora voce, lo
dobbiamo anche a lui. Di queste persone avevamo bisogno - forse anche delle
loro maschere, di un Orfeo che sottomette il Caos al canto - un bisogno
disperato.
Ma
lui è scomparso proprio dopo l’ultimo trionfo, nell’anno palindromo.
Se
muore giovane chi è caro agli dei… E lui forse è morto che aveva l’età del
Cristo.
E
cristiano. E pagano. Proprio così.
[...] Ora invece ti voglio parlare di un fantastico libraccio indecente. Si chiama “Storia augusta” e ha l’apparenza, il fantasma, di un libro di storia, ma io, da fantasma, ti dico che è fango misto a inchiostro, più fango che inchiostro. Dovrebbe essere una serie di biografie di imperatori e invece è un insieme pazzesco di calunnie ed inezie con qualcosa di vero qua e là, per tenere il tutto con lo sputo.
Questa è certo una delle più grandiose prese in giro della “storia maestra di vita”, perché per molti avvenimenti del III secolo è la vostra unica fonte scritta.
E sembra averla scritta un pazzo.
Meglio, un’equipe di pazzi furiosi.
Ah ah ah, e lo stile è anche più indecente del contenuto!
Io ci posso pure ridere sopra, ora (i secoli rendono risibile ogni lotta di potere), ma allora!
I nomi di questi presunti storici sono tutti fittizi: Lampridio, Trebellio, Vopisco - fanno ridere eh? - tutte teste di legno mai esistite. Tutti prestanome dei senatori pagani, dei nemici di mio padre. Tutta gente molto furba, questa, capace di spargere veleno sotto il sigillo dell’accademia.
Capace di fingersi seriamente deficienti - e uno in teoria non dovrebbe aver paura degli imbecilli.
Monumento ai Tetrarchi (fine III sec.), Venezia, Piazza San Marco (foto di Luca Traini)
Famiglia cristiana
Nella
Basilica di Costantino, in San Pietro, accanto a mio padre, riposava anche sua
moglie, Anicia Faltonia. E se lui era stato il tronco vigoroso, mia madre fu la
linfa spirituale della famiglia.
Cristiana
da generazioni.
Da
quando, raccontava, il nostro augusto Carino, gravemente malato, si era salvato
grazie all’intervento dei santi medici Cosma e Damiano. Mica per niente avevamo
costruito un palazzo sull’Isola Tiberina, dove sorgeva il tempio di Esculapio.
Se
poi il caro autocrate si fosse convertito del tutto o avesse tenuto il ritratto
di Cristo in una cappella privata, magari insieme a quelli del mitico Orfeo e
del santo pagano Apollonio di Tiana, non lo diceva.
Sentenziava
solo che la nostra salvezza era partita da lì.
E
poiché “salvezza” è femminile, come “salute”, sarebbe stata fatta propria -
quante volte è successo! - dalle donne di casa.
Certo,
sarebbero state molte fra loro quelle che, in un periodo di crisi e
contestazione dell’ordine antico, avrebbero poi rifiutato l’arcaica missione di
madre, consacrandosi a Dio come vergini. Ma le nostre, quasi tutte, hanno
saputo trovare una soluzione di compromesso. Già devote a Roma come
all’Altissimo e a suo Figlio, non hanno smesso di farne, così come di aiutare
lo Spirito Santo con ricche donazioni al papa.
E
poi i miracoli accadono.
La
madre di Costantino, l’augusta Elena, non faceva la stalliera nelle Gallie?
Diventa
la concubina di Costanzo Cloro e quando il figlio sale al trono, ecco l’acqua
trasformarsi in vino.
Quando
poi, prima di morire, sulla scia di Maria Maddalena, va in pellegrinaggio in
Palestina, non ti fa ritrovare il legno della Croce?
Le vie
del Signore sono infinite.
[...] Sì, è vero: abbiamo ospitato anche Pelagio e ne siamo fieri. Era nostro amico. Era la nostra guida spirituale. La chiesa avrebbe condannato le sue teorie ben dopo il mio consolato. E non è che poi fra gli ortodossi regnasse sempre questa grande armonia. Per quanto santi si era sempre fragili esseri umani e Gerolamo e Ambrogio, solo per farti un esempio, non avevano una grande opinione uno dell’altro.
Umani, fragili, ma capaci di riscattare i nostri lati deboli non solo grazie al dono della fede, ma anche per mezzo della nostra forza di volontà, della ragione: pregare e soprattutto operare in vista del bene.
Così diceva Pelagio. Per questo ci piaceva. Perché ci ricordava i nostri antichi filosofi.
Liberi dal peccato originario di Adamo. Liberi di scegliere. Di scegliere anche il male. E perciò divinamente responsabili.
Tu dirai che è davvero strano sentire tutto questo elogio della libertà dalle mie labbra. Ma, a parte il fatto che qui si parla di una libertà interiore, c’era tutta una tradizione di romana libertas che era propria del ceto senatorio. Il privilegio di essere liberi. Privilegio di pochi e per pochi. Cosa molto diversa dalle vostre teorie.
Insomma, ci sarebbe piaciuto anche liberarci dal peccato da soli, da senatori, ma ormai, con tutti questi imperatori divini o semidivinizzati, anche questa parvenza elitaria di libertà era destinata a scomparire. [...]
Moneta romana (follis) raffigurante l'imperatrice Elena
Il pessimismo dei poeti, il presagio della fine
Dopotutto,
anche ad uscire fuori dal sagrato, cosa ci avrebbero dato in cambio i pochi
pagani rimasti? Un pessimismo totale. Tutto scritto poi in quegli scomodissimi
rotoli di papiro: ci voleva una vita a srotolarli. Noi cristiani preferivamo
decisamente il “codice”, il libro moderno, decisamente più pratico. Poi i
pagani si arrabbiavano perché non facevano proseliti! Sfido, forma e contenuto
facevano a pugni con qualsiasi speranza.
Senti:
“Nudo sono salito dalla terra,
E
scenderò dentro la terra nudo”.
Oddìo,
fin qui potrebbe anche andare. Ma poi: “Perché soffrire se poi nudo è il
fine?”.
Eh
no, non ci siamo più.
Questi
altri due versi poi sono da censura politica:
“Non
dire, vecchio, che sei di molti anni:
Degli
anni passati oggi non fai parte”.
Sembra
che ti parli dell’impero. Vallo a dire agli augusti!
E
pensare che li scriveva Pallada, uno dei poeti più in voga quando ero vivo.
Ma
non poteva fare come quell’attore di successo, che sulla sua tomba a Pest, in
Ungheria, fece mettere: “Qui è sepolto Leburna, maestro di mimo, che visse più
di 100 anni. Quante volte sono morto! Ma così, mai. A voi che state lassù
auguro tutta salute”?
Invece
ti butta giù un distico così:
“Allevati
e nutriti per la morte
Noi
siamo come branchi di maiali da scannare a sorte”.
E
infatti era un greco:
“Forse
che morti non viviamo solo
In
apparenza noi greci caduti?”.
E
ti pareva?
E
pensare che la sua parte d’impero era quella meno conciata.
Allora
figurati da noi quanto si sentivano al lumicino certi pagani.
Come
Macrobio: “Solo quella è lodevole fra le morti volontarie che si ottiene con la
ragione filosofica e non col ferro, con la prudenza e non col veleno”.
E
naturalmente ti cita Virgilio in modo diverso da noi: “Porterò a compimento il
numero e sarò restituito alle tenebre”.
Ma
anche la gente comune non scherzava su quelle lapidi senza croce.
Chi
oggettivo: “Questo è. Così è. Non può essere altrimenti”.
Chi
rassegnato: “Io sono certo che non c’è domani”.
Chi
addirittura sollevato: “Sono fuggito, sono evaso, addio! Speranza, Fortuna, non
ho più nulla a che fare con voi: prendete in giro qualcun altro. Firmato:
Valeriano”.
E
questo mi ricorda uno dei miei schiavi: “Qui sto sepolto io, Lemiso: solo la
morte mise un termine alla fatica”.
Certo,
bello da leggere, ma vivere è un’altra cosa.
E
infatti forse solo qualche poeta invasato, e greco, ha fatto dietrofront da Dio
a Dioniso. Nonno di Panopoli, mi sembra.
I
più hanno fatto i furbi, come quel fiume di versi di Ausonio, il professore
dell’imperatore Graziano: 30 versi alla Pasqua, 300 a ninfe e tritoni.
Buono
quello! A furia di ripetizioni è riuscito a piazzare padre e figli alle più
alte cariche dello stato. E il nonno era uno schiavo. E greco.
Poi di’
di aver fiducia in questo mondo!
[...] I santi proteggono le mura.
Le mura, l’impero.
L’impero, …
L’impero proteggeva se stesso. Col rischio sempre più concreto, almeno da noi, in Occidente, di difendere solo un nome, un contenitore sempre più vuoto di cui erano evidenti soprattutto le crepe.
Anzi, dirò di più: qualcuno, a Roma, aveva già la netta sensazione che il ricco Oriente ci stesse scaricando.
Quante volte era già successo e quante volte sarebbe accaduto ancora: di fronte a una crisi la parte ricca abbandona quella povera al suo destino. La parte amputata nell’immondizia.
Si aveva paura, non dico a dirlo, ma anche solo a pensarlo, da tutte e due le parti. Però le cose stavano andando così.
Tutto quel bendiddio di antiche civiltà che avevamo conquistato, consciamente o meno, si stavano prendendo la rivincita. Lasciavano gli antichi invasori in pasto ai nuovi. [...]
Proba e le altre: cultura al femminile
Dicevamo: "Le
vie del Signore sono infinite".
Solo
lui “insegna a fondo unendo alla preghiera”.
“Edocet
inmiscetque preces”. Suona così in latino.
E’
Virgilio.
E’
mia nonna.
Faltonia
Betizia Proba, autrice di un centone di storia sacra fatto usando i versi di
Virgilio: forse l’unica poetessa vera che vi è rimasta di tutta la letteratura
latina.
Mica
male, eh? 694 esametri perfetti, composti con paziente lavoro di ritaglio
saccheggiando devotamente brandelli di “Bucoliche”, “Georgiche” e soprattutto
“Eneide”. Roba da far impallidire i vostri futuristi!
Opera
di gran moda: all’epoca si andava pazzi per questo genere di cose. Era una
delle nuove forme in cui conciliare la tradizione di un grande passato tutto
terreno col presente rivolto alla gloria dei cieli. Perfettamente in riga con
le direttive più recenti dei Padri della Chiesa in materia: secernere il grano
dal loglio. Questo sì, questo no. Via libera per Virgilio, che si diceva avesse
anche profetizzato la venuta del Messia. Porte aperte quindi per il suo Enea,
il “pio” per eccellenza.
E
per mia nonna, che facendo parlare i nostri santi con la lingua degli eroi,
dava nuovo corpo alle antiche virtù romane, garantendone ancora una volta
l’origine divina.
Metà
poema all’Antico Testamento: dalla Creazione al Diluvio. L’altra metà, per
analogia fra questo e il battesimo purificatore, dalla nascita di Cristo
all’Ascensione. E il cerchio si chiude.
“Suspiciens
caelum. Tum facta silentia linguis”: “Alzando lo sguardo al cielo in silenzio”.
Proprio
così. Mettendo insieme due metà versi, una presa dal dodicesimo, l’altra
dall’undicesimo canto dell’”Eneide”. Un verso unico per descrivere Cristo, che
rende grazie al Padre durante l’Ultima Cena.
E
“dà di sua mano messi e acque di fonte”. “Dat manibus fruges dulcesque
a fontibus undas”. Qui la seconda metà l’ha pescata dalle “Georgiche”.
Eh,
le nostre donne le facevamo studiare noi! Leggevano Omero e condannavano Elena;
godevano Virgilio e così evitavano di fare la fine di Didone. Una, Demetriade,
sarebbe diventata anche santa. Che morale di classe!
Guarda,
te lo dico subito: non credo che San Gerolamo si riferisse alla nonna quando
parlava di “vecchie chiaccherone” e diceva che i centoni erano “roba da
bambini” perché Virgilio c’entrava poco col Vangelo. Primo, perché era intriso
di cultura classica fino al midollo pure lui anche se non ci dormiva la notte.
Secondo, perché quasi certamente si riferiva a chi vedeva già nelle sole
raccolte di versi virgiliani delle vere e proprie profezie cristiane, se non
addirittura ad altre donnette, che avevano scimmiottato lo stile di Betizia.
Terzo e non ultimo, perché le critiche le aveva spedite a Paolino vescovo di
Nola, altro santo e nostro ennesimo parente (che, tanto per cambiare, avrebbe
riscritto in metro classico i salmi).
La
nonna, lo zio, il fratello, Paolino: che famiglia di letterati! E guarda che ti
tengo ancora in sospeso dei signori nomi: vedrai!
Quanto
a quel grammatico di nome Probo di cui è stato tramandato un manualetto di
ortografia, francamente non so cosa dirti. Spero solo che, con quel nome, non
fosse uno schiavoschiavo o uno affrancato di quelli che piazzavamo a fare i
maestri elementari. Sì eravamo colti, coltissimi, ma anche atroci snobboni:
mica ci sporcavamo le mani con l’alfabeto!
Però ai
docenti lasciavamo mano libera per le nerbate, anche sulla pelle dei nostri
figli. Così si sfogavano un po’.
Quindi occhio a non pronunciare o, peggio, a scrivere oclus invece che oculus, masclus al posto di masculus o, orrore, barbar al posto di barbarus.
Come già si faceva all’epoca mia.
Ma noi, in quanto nobili, come in ogni aristocrazia di nome o di fatto, dovevamo parlare, e soprattutto scrivere in una lingua diversa da quella della strada, e definire questo eloquio “puro“, “incontaminato”, il nostro sepolcro imbiancato.
E infatti del nostro impero sono vive soprattutto le strade. [...]
A.D. 406: Roma o Disneyland?
Ma la
Roma del mio consolato, anche priva dell’imperatore, si confermava ancora come madre,
matrice e meraviglia di tutte le città, almeno a Occidente.
Certo,
ci stavamo trasformando in una specie di Disneyland, ma vuoi mettere?
36
archi trionfali
6
obelischi
2
colonne imperiali
2
anfiteatri
2
grandi mercati
2
megaippodromi
5
teatri d’opera
5
naumachie da trasformare in laghi
11
fori + 11 terme colossali
15
ninfei monumentali
28
biblioteche
Più
856 bagni pubblici e 1352 tra vasche e fontane.
E
non ti aggiungo i 423 templi dedicati a ogni sorta i dio e la diffusione
esponenziale delle nostre chiese.
Il
tutto per un totale di 1797 “domus“, o dimore d’élite (e ho perso il conto di
quante fossero di famiglia) e 46.402 case d’affitto o “insulae”, perlopiù
casermoni tenuti su con lo sputo e pronti a illuminare il tutto coi loro
incendi.
“The show must go on”.
Sennò
che fare in mezzo a tanto splendore? Trasformarci subito in statue di sale? O
di cenere, come a Pompei?
Ma
di pezzi da museo c’era già un’inflazione:
2
colossi
22
statue equestri
80
d’oro
74
d’avorio (dentisti per elefanti: questo lo eravamo ancora)
Quasi
4000 di bronzo (materia a cui tutta questa gente s’illudeva di sopravvivere).
Ma
noi eravamo persone in carne ed ossa (chissà, forse anche un milione, forse
più, se proprio dobbiamo contare anche gli schiavi).
E
carne e ossa era soprattutto la plebe romana (200.000 i nomi segnati sui
registri dell’Annona), comparse che dovevano sognarsi di tutto fuorché
diventare attori protagonisti.
Lo
Stato era disposto anche ad affamare l’Africa pur di fornirgli ogni anno, e
gratis, 200 chili di pane (chiamiamolo così), 8 di porco salato e non so quanti
litri d’olio a testa. Più vinaccio con lo sconto del 25%: prendi 4 anfore, ne
paghi 3.
Il minimo
indispensabile per sopravvivere e non rompere le uova nel paniere.
[...] Massì, diciamola tutta!
Se “impero” già di per sé vuol dire “ingiustizia” - e ci era caduta anche la “democratica” Atene - esiste anche una misura di questa ingiustizia, che, se ben calibrata, può produrre anche ricadute benefiche - e in quantità notevole.
Se in cambio del massacro dei Salassi costruisci una bella città e garantisci quanto meno 4 secoli di sviluppo, ecco che l’ingiustizia di base è almeno ripagata in buona parte da tutta un’altezza di profitti. Dopotutto c’è anche chi fa terra bruciata e basta.
Ecco, il nostro impero era stato capace di creare tutta una rete di benefici che, per quanto distribuiti in modo ineguale, avevano dato anche adito alle migliori speranze.
Poi qualcosa si era inceppato. E col passare del tempo, arrugginito.
Oggi voi parlate di gap tecnologico, di mancata rivoluzione industriale, anche in ragione dello schiavismo, di fronte a un aumento demografico - e di miseria - culminato, devastato da grandi epidemie fin dalla fine del secondo secolo. Le grandi monarchie ellenistiche erano all’avanguardia per scienza e tecnica, ma poi erano scesi i barbari, cioè anche noi Romani - e abbiamo utilizzato l’energia del vapore solo per i giochi di prestigio.
Parlate di un impero cresciuto a dismisura per le risorse dell’epoca - e Traiano per fortuna era morto prima di imitare Alessandro nella conquista della Persia, dell’India! Di disastri ambientali provocati anche solo da tutto il legname indispensabile alle terme. Per non parlare di tutti quegli animali, anche dotati di anima, sacrificati in migliaia di circhi.
Di un dispotismo e di oligarchie che inevitabilmente pongono un freno a progresso, sviluppo - quanto vi riconoscete nei nostri drammi!
Tutto vero, drammaticamente vero. [...]
Servi della gleba e affossatori
Si era forse giunti
all‘ultima età di quel colosso dai piedi d‘argilla di cui parlava il profeta
Daniele? Quel sogno di un re, quell‘incubo si era fatto reale?. Perché l’argilla
era la terra in cui affondavano le mani i contadini, gli schiavi. Le sabbie
mobili in cui stavamo sprofondando.
Siamo in un vicolo
cieco. Se li strappiamo alle nostre glebe e li facciamo diventare soldati - lo
prescrivono le leggi - noi perdiamo le braccia, e l’impero le tasse - anche
quelle chiamate “iugatio”, cioè “giogo” o “legame dei pali per fare un
pergolato di viti”. E il “testatico”, la “capitatio”, una testa ogni tassa,
perché i militari ne sono esentati. Più il costo del salario, anche se da fame.
E le armi.
Noi grandi proprietari
fondiari avremmo dovuto avere l’obbligo di fornire un certo quantitativo di
reclute.
Di norma riuscivamo
a evitarlo, pagando in cambio una quota (le rare volte che lo stato riusciva a
riscuoterla).
Poi ci lamentavamo
se eravamo difesi male o , peggio, se si assoldavano orde di barbari felici di
combattere, visto che mancavano i rincalzi. Bande meglio trattate e pagate, ma
di gran lunga, dei nostri miserabili coscritti - che poi rischiavano di
lasciare le famiglie sul lastrico.
Perché indebitate
fino al collo con noi, scandalizzatissimi per quelle fughe di pezzenti
oltreconfine. Per tutta quella perdita di capitale umano.
E sporcarci noi le
mani in battaglia - non facevano così gli antenati?
Ce ne guardavamo
bene. Non era stato uno di quei despoti amici del popolo, Gallieno, a
esonerarci dalle alte cariche militari? Quante fatture abbiamo scagliato contro
quel grande? Quanto fango anche dopo averlo assassinato? Poi, ti passano 100
anni e poco più, e finiamo per benedire, di nascosto, quella nostra diserzione
di Stato.
Bestia di una
storia! Grazie di cuore, augusto cadavere!
E ora? Ora che
facciamo?
Boh!
Torniamo a
nasconderci negli anfratti di leggi dure come pietra, spietate solo con chi non
può difendersi.
“Vietato arruolare
gli addetti a lavori di pubblica utilità nazionale”.
Lo sentenzia il
codice.
E la “pubblica
utilità nazionale”, naturalmente, pensavamo di essere noi.
I suoi affossatori.
[...] Ormai era più di un secolo che cercavamo di non farli scappare da lì, da dove s’incurvavano come bestie sulle zolle. “Servi della gleba”, così li avrebbero chiamati. E accanto a loro, i puzzle dei nostri latifondi, dove si spezzava la schiena tutta una congerie di schiavi. Pensavamo proprio di essere furbi, perché la vicinanza dello schiavo faceva abbassare il costo delle prestazioni del contadino libero. E più diventava precario il loro lavoro, più diminuivano i nostri costi di produzione. E più diventavamo ricchi. In modo vergognoso.
Infatti, come poi sarebbe risultato, era un calcolo miope.
Dove avremmo ritrovato quei cittadini liberi e soldati che avevano fatto grande Roma?
E poi, non eravamo cristiani?
Di fronte a questa immane miseria che non concedeva più vie di scampo, anche quel moderato di Sant’Agostino gridava: “Se la giustizia è al bando, che cosa sono i regni se non grandi associazioni a delinquere?”.
Per non parlare di quell’altro grande cristiano, Salviano di Marsiglia, che senza mezze misure ci pose di fronte a un’amara verità: “Preferiscono vivere poveri ma liberi coi barbari e cercano la civiltà presso di loro, poiché l’inciviltà, questa sì barbara, dei romani non è più tollerabile. E per quanto siano differenti per religione e lingua rispetto a quelli presso cui si sono trasferiti - ma che dico! - per quanto differiscano per la pulizia delle persone, per i vestiti, preferiscono sopportare una diversa fede coi barbari piuttosto che le ingiustizie e le vessazioni dell’amministrazione romana. Trascorrerebbero tutta l’esistenza con loro!”.
Era proprio quello che stava accadendo: liberi o schiavi, comunque disperati, preferivano i Goti o addirittura gli Unni a quanto restava di Roma.
Che tremendo chiaroscuro gravava sulla nostra poesia! Tu fra un verso e l’altro senti ormai sempre più assordante l’ombra di quelle grida:
“Restando in silenzio ho perso la Musa”
“Da quando le rose han preso a far male?”
“Dolce ora anche morire”. [...]
Geopolitica: il gioco dei "latruncoli"
Quante volte
appariranno i santi sulle mura: per almeno 1000 anni un successo assicurato!
E se non
appariranno, vuol dire che ce lo saremo meritato. Che i barbari, chiunque essi
siano, saranno venuti a punire i nostri peccati. Dal Reno, dal Danubio, da Gog
e Magog: c’è sempre un Vaso di Pandora pronto a essere rovesciato.
Noi lo avevamo
intuito che era un gioco più grande di noi. Ci vedevamo lo zampino del diavolo,
sentivamo la puzza di zolfo, ma qualcosa effettivamente continuava a ribollire
ai confini del mondo conosciuto.
Nel ventre del
continente euroasiatico era tutto un magma di umanità pronto a forgiarsi in
popoli.
Anche noi lo
eravamo stati, ma ridotti ora come lava pietrificata (i monumenti, le case),
come terra fertile e coltivata (perché nessuna terra è più fertile di quella
che vive accanto ai vulcani): noi conoscevamo rischi e benefici. E aspettavamo
l’ennesima colata.
Che poi fosse un
gioco, una specie di domino fra noi e la Cina, una gara di ping pong fra chi
alza steccati - questo non potevamo saperlo.
Però giocavamo ai “ladruncoli”
- le pedine le hanno ritrovate anche ad Aosta - era tipo gli scacchi, la dama -
un gioco di ruolo, un esorcismo. Perché le nostre leggi, caso per caso,
definivano “ladruncoli” proprio certi tipi di barbari. Ma in origine, prima che
“banditi” o “predoni”, il termine indicava “mercenari“, “soldati”.
Guardie o ladri?
Testa o croce?
Croce.
I santi proteggono
le mura.
Le mura, l’impero.
L’impero, …
L’impero proteggeva
se stesso. Col rischio sempre più concreto, almeno da noi, in Occidente, di
difendere solo un nome, un contenitore sempre più vuoto di cui erano evidenti
soprattutto le crepe.
Anzi, dirò di più:
qualcuno, a Roma, aveva già la netta sensazione che il ricco Oriente ci stesse
scaricando.
Quante volte era già
successo e quante volte sarebbe accaduto ancora: di fronte a una crisi la parte
ricca abbandona quella povera al suo destino. La parte amputata nell’immondizia.
Si aveva paura, non
dico a dirlo, ma anche solo a pensarlo, da tutte e due le parti. Però le cose
stavano andando così.
Tutto quel
bendiddio di antiche civiltà che avevamo conquistato, consciamente o meno, si
stavano prendendo la rivincita. Lasciavano gli antichi invasori in pasto ai
nuovi.
[...] Flavio Stilicone, console per la prima volta.
Ritratto insieme alla moglie Serena e al figlio Eucherio, davanti a un frontone non più triangolare ma trapezio, non inquadrati da un cerchio perfetto.
Vorrebbe guardare il cielo, ma è come se esitasse.
Sono al culmine della gloria, eppure qualcosa non torna. Spira come un’aura di tristezza, di quella malinconia fatta di trionfi e di rovesci improvvisi. Tu lo vedi che non dura (per gli esseri umani voglio dire, non per l’avorio).
Lei era figlia adottiva di Teodosio, ma in realtà nipote, nata da un fratello di cui resta solo il nome: Onorio.
E a te, altro avorio, altro Onorio avevano fatto sposare una figlia appena adolescente.
E morta quella un’altra ancora, che di li a poco avresti rinchiuso in convento.
E mai uno straccio di erede.
Ah! Ah! Ah! Come ti definiva lo scolaretto di sant’Agostino, il piissimo storico Orosio? ”Di continenza ammirabile in un re”!
Beh, noi della poco pia setta dei senatori mormoravamo solo: “Impotente!”.
Crudeli noi; crudele tu, che hai sterminato l’intera famigliola; crudeli tutti, perché abbiamo festeggiato quella strage.
Cos’è, amico mio? Un brivido di gelo? E’ sceso il vento della Coumba Frèide?
Ma non parlavamo di arte?
Vedi, il tempo è come il vento: spazza via tutto.
Dov’è l’impronta della tragedia?
Hanno cercato di pulire con l’acqua, una colata di cemento sulle erbacce, e sono cresciute colonne corinzie.
Claudiano ci fa soffiare uno zefiro. Le vesti tremano appena. I piedi li vogliamo scolpiti sulla cornice, come fanno con le sedie sulle navi, così magari non cadremo.
In ogni caso l’equilibrio è precario. [...]
I versi "intexti" di Optaziano Porfirio
La promessa di 1350 quintali d'oro aveva bloccato ogni valanga sulle Alpi Giulie: Alarico
tornava sui suoi passi.
Anche un altro
Anicio, un altro console, Auchenio Basso, poteva tirare un sospiro di sollievo.
Ricordo che era
venuto da me a cena - doveva essere fine primavera - e fra una portata e l’altra
gli avevo mostrato una nuova edizione delle poesie di Optaziano Porfirio. Gran
furbacchione questo qui, caduto in disgrazia e poi risalito agli onori più alti
grazie a ogni sorta di acrobazie in versi. Eh, bell’età quella, quella di
Costantino: il primo, mica il terzo!
Gli stavo facendo
vedere, tutto trascritto in porpora e oro, quel carme in cui aveva disegnato
una nave col vessillo di Cristo al posto della vela all’interno di 38 esametri,
pescando in questo modo dal contesto 224 lettere, con cui aveva composto altri
8 versi nascosti: una cosa incredibile!
“Vedi, per dipanare
la poesia celata, si deve partire dalla decima lettera del sesto verso: una “ti”,
che però devi leggere in greco”… E non ti arriva in quel momento la notizia che
l’imperatore d’Oriente Arcadio è morto? Aveva sì e no 30 anni!
Ci mancava solo
questo! E ora?
Dicevo, se prendi
quelle lettere in mezzo ai versi dal 4 al 16, scopri che sulla croce sta
scritto che:
“Devi pensare che
la nave è il cosmo
E tu uno degli
attrezzi che sta dentro”.
E allora chi parte
per Costantinopoli: Onorio o Stilicone?
Qui non si parla di
funerali, ma di una possibile tutela su un piccolo orfano: Teodosio II. Avrà
avuto 6 anni.
Stilicone impedì a
Onorio di partire. Ma neanche lui si mosse.
E’ vero, da un
pezzo ormai fra i due imperi c’era una guerra quasi dichiarata e ora anche i
porti degli uni erano chiusi alle navi degli altri. Però in questo modo stava
perdendo tempo prezioso. Si diceva non volesse dar credito alle voci che
blateravano di un suo tentativo di piazzare il figlio Eucherio sul trono d’Oriente.
A dar retta alle chiacchiere…
La verità è che a
Costantinopoli a tenere in piedi il bimbo c’era un grande statista, Antemio, il
futuro restauratore delle mura e delle leggi della Nuova Roma: non avrebbe mai
permesso al mezzo vandalo una simile usurpazione.
E anche questo
Stilicone lo sapeva bene.
Allora? Non si
muove?
Ognuno ormai è preda del suo labirinto.
[...] Poi dovrei essere morto.
Giovane e, come si diceva ai bei tempi, “caro agli dei”, no, non mi era stato concesso.
Ancora nel fiore degli anni - 33 o giù di lì, come Alessandro Magno, Cristo - magari di crepacuore nel 418, per la condanna e la scomparsa dell’amico Pelagio. O per il terzo scisma che divise i cristiani della città dopo la morte di papa Zosimo, che l’aveva cacciato.
Certe cose non le avrei proprio volute vedere. Ma temo non mi siano state risparmiate.
Forse ho fatto in tempo a sperare in un nuovo grande imperatore, Flavio Costanzo, l’ultimo a vincere i Goti: Costanzo III. Ma visse pochi mesi.
Ti ho visto morire, Onorio? Ho visto un bimbo di quattro anni cercare di salire sul trono?
Tuo nipote Valentiniano, il terzo, che sarebbe tornato a Roma dopo un terremoto, nel 445.
Dio, come sarei invecchiato!
Però nel 438 avrei fatto in tempo ad applaudire il nuovo “Codice di leggi” di Teodosio II, in realtà opera del grande Antemio - sì, lui, il mandante dell’omicidio di Stilicone. Fosse così facile scindere il bene dal male!
E poi quell’anno luminoso sarebbe stato console anche Anicio Acilio Glabrione Fausto, con cui giungeva finalmente a termine la nostra fusione con la famiglia più antica.
Un brindisi dietro l’altro… A una certa età ci vuole poco.
E magari l’ultimo bicchiere per festeggiare l’ultima grande vittoria: quella contro Attila ai Campi Catalaunici, nel 451. L’ultimo grande generale romano, Ezio, grande anche perché cresciuto proprio con gli Unni - e li sconfiggeva con un esercito di Franchi, Burgundi, Visigoti e chissà chi diavolo d’altro.
Vittoria! Prosit! Amen! [...]
Gli ultimi Anici: Boezio
Certe volte mi
torna in mente l’indovinello sulla tignola di Sinfosio:
“Vissi in mezzo ai
libri
E non divenni più
studiosa.
Divorai le Muse,
Ma senza far
progresso alcuno”.
Certi falsi enigmi
ce li scambiavamo durante i banchetti per le feste, quando non sapevamo più
cosa dire. Tutti conoscevano la soluzione. Però, se fosse davvero esistito
Sinfosio, nessuno lo sapeva.
E senti quest’altro.
Sembra fatto apposta per me:
“Non muoio s’esce
il fiato, perché torna
Anche se fugge
spesso.
Ora c’è un’anima
talmente grande,
Ora non c’è più
niente”.
Ti piace? S’intitola
“L’otre”.
Ci sono voluti
secoli per sgonfiarci.
C’é ancora Odoacre
quando, nel 487, viene fatto console un altro dei nostri, Flavio Narsete. E sai
perché te lo dico? Perché se vai al Museo di Santa Giulia a Brescia, trovi
ancora il suo dittico.
Il suo faccione,
con la barba di qualche giorno: scalpello e rasoio non hanno fatto il lavoro di
fino di Onorio. Le dita ingrossate, enfiate, senza più divisioni in falangi. Il
fazzoletto quasi gli casca di mano, lo scettro sembra di cartone - l’aquila
imperiale: un passerotto.
L’abito è
bellissimo: tutto un gioco geometrico di fiori. Quelli che si portano al
cimitero - e qui il cadavere è grosso e sta stretto nella lastra tombale.
Morto appena 2 anni
dopo, quando anche Odoacre fu sconfitto da Teodorico, un altro “Goto brillante”.
Brillante davvero, perché fu un grande re, anche se uccise a tradimento il suo
rivale durante un banchetto. Forse perché non aveva indovinato l’indovinello
sulla rosa:
“Son porpora
terrestre, punte acute…
Potessi vivere a
lungo felice!”…
Perché ti dico
questo?
Perché suo figlio
fu il grande Anicio Manlio Severino Boezio, l’ultimo dei nostri filosofi.
Aristotele - e in
un certo senso anche Platone - passarono in latino grazie a lui. Ah, se invece
di trescare in politica ci fossimo dati solo alle lettere! “La consolazione
della filosofia”:
“Muse straziate mi
dettano: cosa
Devo scrivere?
Anche i distici in volto
Mi rigano tutto di calde lacrime”.
[...]
Sì e no, no e sì: non sei più qui o ci sei,
Probo? Aosta? Roma? Terra? Cielo? Dove
Ancora porterai dittici, console?
Umanità, rassegnati, dimentica
Il fasto. Ripeti: “Risorgerai”.
Un verso per ogni elemento: acqua, terra, fuoco, aria. E l’ultimo per Dio, che anche in questa sua unità li riassume tutti.
Addio, humanitas! [...]
Papa Gregorio Magno: fine di un'epoca
La gelata del 406
non era stata un caso. Il clima era davvero diventato più freddo. E così
sarebbe stato fin quasi all’epoca di Carlomagno.
Ne avrebbe
risentito - e molto - anche la vostra città, come non bastasse il resto.
Davvero non era
invidiabile far parte dei 60 Ostrogoti di guarnigione al Forte di Bard: oggi lo
vedi bello restaurato - c’è pure il Museo delle Alpi - ma all’epoca rischiavi
il “rigor mortis”!
E, come Teodorico,
ora anche Alboino era un pezzo da museo. Qui sarebbe diventato territorio dei
Franchi e del loro re, Gontrano, fatto poi santo (mai capito perché). Mentre da
quelle parti, ad Arles, noi un altro santo ce l’avevamo avuto davvero: Ennodio,
poi vescovo di Pavia, raffinatissimo poeta d’occasione.
Ma il nostro
migliore candidato agli altari doveva essere l’ultimo, il prefetto di Roma per
l’anno 573: il nostro migliore uomo di stato.
Ora che ci penso
era anche pronipote del nostro primo papa, Felice III. Santo pure lui, ma mi
viene in mente solo il litigio col patriarca di Costantinopoli e uno scisma
durato 35 anni.
E papa sarebbe
diventato anche il prefetto, nel 590, durante un’epidemia e dopo una terribile
alluvione. Papa di una città spettrale, ridotta a poche decine di migliaia di
anime in pena. Gregorio, il primo a definirsi “servo dei servi di Dio”, ma
ricordato come “Magno”, “il Grande”.
Il vero capo dell’Italia
di allora. Nonostante il dominio formale di Costantinopoli, nonostante fosse
stato nunzio apostolico a Bisanzio per 7 anni. Con lui Chiesa e ruderi di Stato
nella penisola vennero infine a coincidere. Un lungo processo iniziato dai
vescovi e finito coi monaci. Perché Gregorio era stato anche monaco: aveva
trasformato in monastero il suo, il nostro palazzo sul Celio.
Fu lui a fare la
fortuna, anche se postuma, di un altro eremita poi cenobita - qualcuno sostiene
sia stato Anicio anche questo (non il nostro papa, credo per modestia):
Benedetto da Norcia. Il vostro San Benedetto. Quello che scelse definitivamente
il convento al posto della città, l’operosità - se non addirittura il lavoro
manuale! - invece dell’ozio letterario, del far carriera nell’amministrazione…
Davvero un altro mondo!
[...]
Quando Gregorio,
nel 604, scese nella tomba a ritrovare i padri, forse diede loro da leggere i
suoi libri. Aveva scritto, e molto. Anche dei “Dialoghi”.
Ma non era Platone.
E neppure Boezio. Era un’altra cosa.
Nuove liturgie,
nuovi canti. Lo stesso latino. Ma una lingua diversa.
Noi eravamo stati consoli di Roma. Lui, “console di
Dio”.
[...]
[...]
Antifonario del Monastero di San Gallo (XI sec.): San Gregorio Magno detta il nuovo Canto Gregoriano
ALLAFINETROVAIPACEINVALDAOSTA
NELLASUACATTEDRALEEINUNTESORO
INCOMPAGNIADIMOSSETTAZMALINES
COSICHIERAINOMBRAORASARAZENIT
IOCANTEROTEOMIOANONIMOARTISTA
Frammenti Video
Sinossi
Il Dittico di Aosta è
un romanzo che ha come perno il dittico eburneo del console Anicio Probo (406 d.C.) conservato nella cattedrale di
Aosta ed è ambientato in diversi monumenti storici della città, elencati
nell’indice dell’opera, nell’arco di otto giorni nell’ottavo mese del 2006 (il
mese di Augusto e di Augusta Praetoria). La narrazione è in prima persona, in
apparenza lo stesso console, che si rivolge a un immaginario visitatore. La
storia, in primis, è incentrata su un’attenta lettura del dittico stesso,
estrema testimonianza di un classicismo in profonda metamorfosi: il restauro
del 2005 pone ancora più in evidenza le ferite dell’opera d’arte. Seguono i
primi accenni all’epoca del console: l’ultimo trionfo dell’imperatore Onorio
(il generale dalle molte eredità rappresentato sulla doppia tavoletta), il poeta amico di famiglia Claudiano e un
altro dittico, quello di Stilicone, il suo equilibrio instabile sfociato in
tragedia. E’ il preludio a un lungo excursus sulle origini della Valle d’Aosta,
sui legami ancestrali ma storicamente fondati fra questa e la costa anatolica
del Mar Nero , sulle lotte fra i Salassi e i Romani fino all’osmosi dei popoli
nello costruzione di Augusta Praetoria. Il tutto corroborato da passaggi
dell’Anabasi di Senofonte e delle Coste Marine di Rufo Festo Avieno, antenato
di Anicio Probo. Perché la stirpe del console era la famiglia più prestigiosa
del Basso Impero, protagonista nel senato e nelle lettere. Nel Criptoportico
aostano appena restaurato ha inizio il racconto del Padre di Marmo, il padre
del console, quel Sesto Anicio Petronio Probo numero due della parte
occidentale dell’impero che aveva fatto fare carriera a sant’Ambrogio ed è
sepolto con la moglie in San Pietro. Nell’epoca dell’Historia Augusta e delle
lotte politiche a colpi di genealogie fittizie, l’origine della gens viene
sprofondata nei secoli, ma la ragione del suo recente successo consiste
nell’essere stata una delle prime dinastie senatorie a farsi cristiana. Questo
legame simbiotico è ben rappresentato dall’ava del console, Faltonia Betitia
Proba, unica poetessa latina a noi pervenuta, autrice di un poema biblico in
versi virgiliani. Ecco allora completato il mosaico del potere poco prima della
sua rovina, perché il 406 d.C. è l’anno del crollo del limes renano, perché i
cosiddetti “barbari” non fanno che dare l’ultimo colpo a un’agonia politica e
sociale che suona come terribile monito al presente, immaginari visitatori o
meno. Eppure – e qui sta una delle tante amare ironie dell’opera - Anicio
diventerà ministro del tesoro dopo il Sacco di Alarico. Non ricorderà la data
precisa della sua morte, ma ci terrà precisare che saranno suoi discendenti
pessimi imperatori e splendidi letterati come Severino Boezio. Fino all’ultimo
della serie, san Gregorio Magno, che incontrerà i suoi antenati
nell’oltretomba: un dialogo fra stranieri. Il finale, misto di prosa e
rielaborazione in italiano di metriche latine, cela una sorpresa e un carme
intexto in settenari.
Indice
PARTE PRIMA
12 AGOSTO 2006
Cattedrale,
Tesoro
Introitus
L’opera d’arte
Le ferite, le
foto
13 AGOSTO
Teatro romano
I tempi di
Anicio, l’età del ferro
L’ultimo trionfo
Il poeta
Il generale
Un altro dittico
14 AGOSTO
Biblioteca
regionale, fondamenta romane
Un problema di
eredità
Un problema di
restauri
Area
megalitica di Saint-Martin de Corléans
Un problema di
origini
15 AGOSTO
Ponte romano sul
Buthier
Dopo l’Oriente,
Roma
Arco di
Augusto
Fine di un’epoca
Porta
Praetoria
Inizio di
un’altra
16 AGOSTO
Criptoportico
Il padre di marmo
Gli antenati
Una storia poco
augusta
Cattedrale,
fondamenta della basilica paleocristiana
Famiglia
cristiana
Resti del Foro
romano
Quantità della vita
PARTE SECONDA
17 AGOSTO
Museo
Archeologico Regionale
Guardie e ladri
Porta nord
Contingenze e
assoluti
L’ultima unità
Tutori e tutele
Barbarie
Villa romana
della Consolata
Mosaico sociale
Diversi tipi di
fame
2 vittorie al
prezzo di una
A.D. 406
Inizio della
fine
18 AGOSTO
Chiesa
cimiteriale di san Lorenzo, resti
407, 408
Caput mundi
La caduta
Ministro del
tesoro
Collegiata di
sant’Orso, chiostro
?
Gli ultimi Anici
Collegiata di
sant’Orso, affreschi ottoniani del sottotetto
Gli ultimi santi
19 AGOSTO
Cattedrale, Coro
Pellegrino sulla
terra (versi "ropalici" e prosa)
Cattedrale,
tesoro
Exodus
Anonimo
delle Rose dell‘“Anthologia latina”
“Appendix
Probi”
“Pervigilium
Veneris”
“Scrittori
della Storia Augusta”
AGOSTINO,
“La città di Dio”
AMBROGIO,
“Inni”
ANSELMO
D’AOSTA, “Proslogion”
APICIO,
“L’arte culinaria”
APOLLONIO
RODIO, “Argonautiche”
BOEZIO,
“La consolazione della Filosofia”
CASSIANO,
“Istituzioni”
CLAUDIANO,
“Carme a Probino”
“Il consolato di
Stilicone”
“La guerra gotica”
“Il ratto di Proserpina”
“Il sesto consolato di
Onorio”
DIOGENE
DI SINOPE in DIOGENE LAERZIO, “Vite e opinioni dei filosofi illustri”
ESCHILO,
“Prometeo liberato” (frammento 199 Nauck)
FALTONIA
BETITIA PROBA, “Carme sacro”
GEROLAMO,
“Lettere”
NAUCELLIO,
“Epigrammi”
OPTAZIANO
PORFIRIO, “Carmi figurati”
ORAZIO,
“Satire”
OROSIO,
“Le Storie contro i pagani”
PAOLINO
DI NOLA, “Lettere”
PENTADIO,
“Versi serpentini”
PRUDENZIO,
“Libro delle corone”
RUFO
FESTO AVIENO, “Coste marittime”
RUTILIO
NAMAZIANO, “Il ritorno”
SALVIANO
DI MARSIGLIA, “Il governo di Dio”
SENOFONTE,
“Anabasi”
SILIO
ITALICO, “Guerre puniche”
SINFOSIO,
“Indovinelli”
TEMISTIO,
“Orazioni”
TIBULLO,
“Elegie”
VIRGILIO,
“Bucoliche”
“Eneide”
“Georgiche”
Eccezioni:
1)
“Il Fisiologo”, a cura di Francesco Zambon, Adelphi, Milano, 1975
2)
MACROBIO, “Commento al Sogno di Scipione” (Libro II, cap. XIII, trad.
Massimiliano Putti), in Elémire Zolla, “I mistici dell’Occidente”, vol. I, BUR
- Rizzoli, Milano, 1985
3) PALLADA, in “Antologia Palatina”, traduzione di Salvatore Quasimodo,
Garzanti, Milano, 1977
Musiche che hanno accompagnato la stesura dell'opera
J. Alain, Litanies
J. S. Bach, Ein
feste Burg ist unser Got BWV 80
J. Brahms, Sinfonia n.1
J. Coltrane, My
favorite things
J. Desprez, Missa “Da pacem”
G. F. Handel, Dettingen
Te Deum
J. Hendrix, Electric
ladyland
G. Ligeti, Lontano
G. de Machaut, Messa di Notre Dame
F. Mendelssohn, La grotta di Fingal
J. Ockeghem, Missa prolationum
A. Part, Tabula rasa
J. P. Rameau, Dardanus
S. Reich, Variazioni per fiati, archi e strumenti a
tastiera
D. Shostakovich, Sinfonia n.8
A. Vivaldi, Gloria RV 589
Melos
Arcaion – Musica secolare della Grecia antica, dir.
P. Tabouris
Roma violenta – Rare tracks from
the best italian 70’s crime movie ost
Strade
del Cinema 2006 – Notes on frames
Vespri del giorno di Pasqua
(VI-XIII sec.), Ensemble Organum, dir. M.
Pérès
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