giovedì 12 novembre 2020

IL DIAVOLO E L'ACQUASANTA

Due cardinali, tre libri e un tentato omicidio


La biblioteca di norma è un buon anestetico, ma ci sono casi in cui è meglio non mettere accanto certi autori. Due teste calde come il cardinale di Retz e La Rochefoucauld è meglio separarle con un attento mediatore come De Bernis, anche se vissuto un secolo dopo. Infatti il secondo stava per ammazzare il primo, all’epoca solo arcivescovo coadiutore di Parigi, e l’omicidio fu evitato solo per il calcolo politico di quelli che dovevano essere i complici.

Quando leggo i frammenti acuminati di La Rochefoucauld sento prima la spada dell’uomo che cerca di infilzare la carne dei simili come fosse un prosciutto, poi le garze eleganti, essenziali dell’aforista sulle cicatrici mai rimarginate della vita a corte.

La storia delle due Fronde nella Francia di metà XVII secolo è un bel ginepraio e alla fine ha la meglio chi non ha tempo di scrivere Massime o Memorie: il cardinale Mazzarino. Il presente profondo della riflessione letteraria è figlio della sconfitta politica e della sopravvivenza dei due scrittori all’ombra del Re Sole.

Poi c’è chi sconfessa con tale limpida chiarezza la geopolitica di Luigi XIV tutta allori (mutati in piante carnivore), ribalta alleanze di secoli col sorriso e finisce coi denti cariati dalla Guerra dei Sette Anni, quella dove il giovane capitano de Sade sperimentò le prime fiamme dell’inferno.

È De Bernis, poeta e accademico di Francia prima ancora che ministro, amante della pace e amico di Voltaire. Che io sappia le sue poesie non sono state pubblicate in italiano. Quel suo amore per la terra da fiera piccola nobiltà con radici nel XII secolo, che saprà traslare anche in prosa fisiocratica e non sarebbe dispiaciuto a Saint-Beuve (lo definì precursore di de Lamartine), provo a tradurlo da qualche passo di Sur l'amour de la patrie:

“L'olive sous mes yeux s'unit à l'oranger.
Que j'aime à contempler ces montagnes bleuâtres
Qui forment devant moi de longs amphithéâtres,

[…]

Cet amour, trop actif pour être concentré,
S'échappe de nos coeurs, se répand par degré
Sur nos biens, sur les lieux où nous prîmes naissance,
Jusque sur les témoins des jeux de notre enfance.

L’ulivo ai miei occhi si unisce all’arancio.

Amo contemplare queste montagne

Bluastre, a forma di lunghi anfiateatri!

[…]

Questo amore che sfugge ai nostri cuori,

Troppo attivo per esser concentrato,

Si spande per gradi sui nostri beni,

Su quei luoghi che ci hanno visto nascere,

Fino a chi vide i nostri primi giochi.

Uno spiraglio lirico su questo cardinale poco noto e più sfortunato degli altri che lo avevano preceduto nelle stanze del potere. Quasi proustiano nel descrivere la sua infanzia e decisamente avanti nella considerazione dell’intelligenza femminile (non a caso entrò nelle grazie della Pompadour): “Ho sentito spesso dibattere la questione della superiorità degli uomini sulle donne. A pensarci bene è solo fondata sulla forza fisica e su una migliore istruzione”. Illuso, invece, come il suo illustre precursore Commynes, su una possibile riforma dell’aristocrazia. Restò il sogno di un nuovo Enrico IV (“il miglior principe del mondo”), la realtà di riforme fallite e il brusco risveglio provocato dalla Rivoluzione.

Troppo tardi. Già un secolo prima si era illuso anche La Rochefoucauld, di nobiltà ancora più antica (XI sec.), prendendo le parti del Gran Condé e aveva rischiato di lasciarci la pelle, gravemente ferito al volto nel combattimento della Porte Saint-Antoine (1652): “L’espérance, toute trompeuse qu’elle est, sert au moins à nous mener à la fin de la vie par un chemin agrèable”, “La speranza, per ingannevole che sia, serve almeno a condurci alla morte per una strada piacevole”. Quella che lo portò ad autoesiliarsi nel suo castello di Verteuil e in ancora più innocui salotti.

L’aristocrazia francese era già sulla via di unire le armi allo studio - e il patronato del re al collegio Louis le Grand (1680) avrebbe sancito definitivamente questo passaggio storico – ma, per quanto rinchiusa nella prigione dorata di Versailles, nella grande maggioranza dei suoi esponenti, non era affatto disposta a mettere in discussione i suoi privilegi secolari: si illudeva anch’essa di sopravvivere nel guazzabuglio di giurisdizioni feudali (o neo-feudali) dello “Stato Assoluto”.

Con le Memorie del cardinale di Retz concludo questo falò delle vanitas. Un finale pirotecnico per i mille volti di questo Narciso che seppe rispecchiarsi in modo spietato sul foglio bianco dei ricordi, editi postumi ancora incendiari nel 1717, in pieni torbidi della Reggenza. Con M.me de Sevigné a reggere lo specchio della memoria dello scrittore, Luigi XIV a negare quella dell’uomo privandolo del nome sulla tomba e Filippo d’Orléans discreto ma efficiente pompiere delle fiamme quasi infernali del politico. Eppure dovevano essere roba da ragnatele quelle sue trame vecchie di decenni, generazione spontanea di un’epoca morta e sepolta. Il merito non è tanto quello del giovane avventuriero ma dello scrittore invecchiato e spremuto dal peso degli eventi, che ha distillato e reso altissima la gradazione di ogni pagina. Quello che era un letterato imbevuto delle peggiori pagine di Plutarco e Machiavelli diventa l’estremo, modernissimo, tragico del Grand Siècle. Il prologo del dramma è memorabile: “Signora, per quanto possa dispiacermi raccontarvi la storia della mia vita, agitata da tante diverse avventure, nondimeno, poiché me lo avete comandato, obbedisco, anche a scapito della mia reputazione. Il capriccio della fortuna mi ha dato in sorte parecchi errori; dubito che sia giudizioso sollevare il velo che in parte li nasconde. Tuttavia vi farò conoscere schiettamente e senza mezzi termini nei minimi particolari la mia vita”.



Se si è accennato a Machiavelli è anche perché la sua famiglia era di origine fiorentina, Gondi, e aveva fatto la sua fortuna con la chiamata alla corte francese da parte di Caterina de’ Medici, diventando col tempo una vera e propria dinasty di arcivescovi e cardinali. Sul reale andazzo di questa “vocazione religiosa” il nostro Jean-François Paul de Gondi fa un ritratto tanto realistico quanto impietoso, piazzando anche se stesso nel quadro d’insieme: “Non credo ci sia stato al mondo un cuore migliore di quello di mio padre, posso dire che era temprato nella virtù. Ciononostante, i miei duelli e le mie avventure galanti non lo dissuasero dal fare tutti gli sforzi possibili per legare alla Chiesa l’anima forse meno ecclesiastica che ci fosse sulla terra. La predilezione per il figlio maggiore e la prospettiva dell’arcivescovato di Parigi, che apparteneva già alla sua famiglia, lo indussero a perseverare nella sua prima decisione… è proprio vero che nessun sentimento più della pietà è schiavo delle illusioni. […] Trovavo l’arcivescovato di Parigi degradato, in faccia al mondo, per le bassezze di mio zio e desolato, in faccia a Dio, per la sua negligenza e la sua incapacità… Non ignoravo quanto la buona regola dei costumi fosse necessaria in un vescovo. Sentivo che il disordine scandaloso di quelli di mio zio arcivescovo me la imponeva ancora più stretta e più indispensabile che agli altri; e sentivo, nello stesso tempo, che non ne ero capace e che tutti gli ostacoli, sia di conoscenza sia di reputazione, che avrei potuto opporre alla sregolatezza sarebbero stati soltanto delle dighe ben malsicure. Presi, dopo sei giorni di riflessione, il partito di fare del male di proposito; ciò è senza dubbio più delittuoso al cospetto di Dio, ma è certo più saggio al cospetto del mondo”.

È la triste realtà tanto diffusa fra gli alti prelati (e non solo) dell’Ancien Régime: una condotta riprovevole tipica della commistione fra chiesa e privilegi a cui solo – e con grande fatica – cercherà di mettere fine il Concilio Vaticano II.

Comunque Retz, c’è poco da fare, è uno scrittore formidabile delle sue sconfitte e un maestro di concisione tacitiana – e perfida - nei suoi ritratti.

“La Regina aveva, più di qualsiasi altra persona da me incontrata, quella specie d’intelligenza che le era necessaria per non sembrare sciocca a quelli che non la conoscevano”.

“La duchessa di Longueville ha di natura un’intelligenza che è molto solida ma, più ancora, sottile e abile. La sua capacità, ostacolata dalla pigrizia, non è giunta alla politica. Alla politica è stata trascinata dal suo odio contro il principe di Condé, e ha continuato a interessarsene, attratta dai suoi intrighi amorosi… Avrebbe avuto pochi difetti se l’amore non gliene avesse dati molti”.

“Il primo presidente Molé aveva una mente molto inferiore al suo coraggio… I suoi preconcetti erano eccessivi in tutto… Giudicava sempre le azioni dagli uomini e quasi mai gli uomini dalle azioni. Poiché era stato educato secondo gli usi del parlamento, tutto quello che era fuori dal comune gli sembrava sospetto. Non c’è disposizione d’animo più pericolosa di questa per coloro che sono mescolati a quegli affari di Stato dove le regole comuni non servono più”.

E naturalmente La Rochefoucauld: “Ha voluto occuparsi di intrighi fin dall’infanzia, quando non sentiva i piccoli interessi, che non sono mai stati il suo debole e non conosceva i grandi, che, in altro senso, non sono stati il suo forte… Ha sempre avuto un’irrisolutezza abituale, che non so proprio a cosa attribuire. Non gli è certo venuta dalla sua fecondità d’immaginazione, che è vivissima”.

Ma lo stesso Gondi come politico non ha la statura di un Richelieu o di un Mazzarino, lo sa, e quindi è sempre impegnato a trescare dietro le quinte. E sulle teste di legno che cerca invano di portare alla ribalta è di un’ironia implacabile: “Stavo quasi per dimenticare il principe di Conti, buon segno per un capo di partito. Non credo di potervelo dipingere meglio se non dicendovi che questo capo di partito era uno zero assoluto, che moltiplicava solamente perché era un principe del sangue. Questo per quel che riguarda la sua vita pubblica. Nella sua vita privata la cattiveria faceva in lui ciò che la debolezza faceva nel duca di Orléans: copriva tutte le altre doti, che d’altronde erano mediocri”.

C’è da ridere, se non ci fosse anche da piangere, meglio, indignarsi pensando a chi anche oggi cerca di seguire l’esempio di quelle epoche orribili. Un esempio valido, nel caso di Gondi, solo per la splendida realtà della finzione, in tutti i sensi, che ha saputo ricreare nelle uniche pagine immacolate, quelle che preludono a un libro. Io l’ho letto col commento musicale del clavicembalo di Louis Couperin, zio del più noto François, ma devo dire che Grande figlio di puttana del compianto Lucio Dalla è affiorata spesso: Retz “amico per me”, ma solo in biblioteca.

Ripongo i volumi e torna il silenzio. La vita dopo l’ennesima riflessione. Sperando concretamente, come sempre, che la Storia non si ripeta.

 

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