Nel 2023 saranno tre secoli esatti dal
ritratto più realistico del genio veneziano. Uno schizzo, opera di Pier Leone
Ghezzi, eccellente caricaturista e anche discreto pittore. Compositore ricomposto
nell’attimo, quasi di nascosto, in una rara trasferta a Roma per il suo Ercole sul Termodonte al Teatro
Capranica. Successo enorme, fin da quell’Ouverture dove un singolo strumento,
il violino prediletto, trascinava per la prima volta l’orchestra ad ali
spiegate dal Tevere all’entroterra del mito in Anatolia. Naso importante e
dentatura superiore sporgente da epoca pre-apparecchio dentale, il Prete Rosso
armato di parrucca e boccoli resta eternato nell’atteggiamento piacevole
simbolo dell’epoca. Ghezzi, che si dilettava anche di musica, l’avrà certo
incastrato per qualche cena-concerto a casa sua e uno come fa a dire di no, anche
se gli piazzano davanti i difetti fisici invece di un bel ritratto ufficiale,
quando tutto va bene?
Ma certo, tutto filerà liscio per più di altri tre
lustri, nonostante l’asma che gli impedisce una messa intera da prete come dio
comanda, i soldi mai abbastanza da permettersi un castrato di grido come
Farinelli o Senesino, le critiche di colleghi come Benedetto Marcello e, nemo
propheta in patria, i giudizi più favorevoli all’esecuzione del suo benedetto/maledetto
violino che ai pentagrammi scritti a ritmo indiavolato dei suoi capolavori,
sottovalutati specie dai conterranei, Goldoni in primis. La Serenissima sempre
più prigione dorata. Poi la fuga a Vienna nel 1740, la sfortuna dello scoppio
della Guerra di Successione al trono austriaco, che fa chiudere i teatri, e la
morte l’anno dopo, seguita da un rapido oblio durato quasi due secoli.
Ercole che sconfigge le Amazzoni, ma solo perché le
coglie di sorpresa. Oggi mi godo l’opera nella splendida versione di Fabio
Biondi e ricordo ancora quando, più di trent’anni fa, ebbi un sussulto
ascoltando la sua interpretazione delle Quattro
stagioni dopo quella canonica di Salvatore Accardo: che meraviglia,
sembrava hard rock, Jimi Hendrix tornato in vita nel Settecento! Dalla fine
degli anni ’80 l’amore per la ricostruzione filologica della musica classica
non mi ha mai abbandonato. Ma di questo ho già scritto nei miei Dispacci musicali.
Vivaldi non abbandonò le sue Amazzoni dopo la
momentanea vittoria dell’eroe greco. Dopo Roma ancora Venezia, a oriente.
Vittorie, plurale femminile, anche se orfane, abbandonate all’Ospedale della
Pietà in quelle epoche orrende dov’era troppo facile considerare una figlia femmina
peggio di un aborto (sempre bene ricordarlo). Se non altro Venezia dava ad
alcune di loro qualche opportunità, sempre che sopravvivessero alle asprezze
della vita e dell’educazione (altre sfide non da poco). Le migliori, e più
fortunate, potevano diventare anche musiciste di valore a spese dello Stato. E
che valore!
Parola di un uomo dai gusti difficili ma sincero
come Charles De Brosses, autore di signore lettere di viaggio in Italia fra il 1739
e il 1740, dove incontrò musicisti del calibro Veracini e Tartini, che in
qualità di esecutori ritenne meno coinvolgenti dell’Anna Maria delle
Ospedalette: “Musica eccezionale qui a Venezia è quella degli ospizi… Fanciulle
bastarde o orfanelle o che i loro genitori non sono stati in grado di allevare.
Sono educate dallo Stato e le istruiscono esclusivamente per farne delle
eccellenti musiciste… Sono segregate
come monache. E sono soltanto loro che eseguono concerti; ogni gruppo è
composto di una quarantina di ragazze. Vi giuro che non c’è niente di
altrettanto divertente come una giovane e graziosa monaca, in abito bianco, con
una coroncina di fiori di melograno sopra le orecchie, che dirige l’orchestra e
segna il tempo con tutta la grazia e la precisione immaginabili… Quello degli ospizi
dove vado più spesso e mi diverto di più è l’Ospizio della Pietà; è questo
anche il primo per la perfezione dell’orchestra. Che rigore di esecuzione! Soltanto
lì si può sentire quel famoso primo colpo di archetto tanto a torto vantato
dall’Opera di Parigi. La Chiaretta sarebbe senza dubbio il primo violino
d’Italia se l’Anna Maria delle Ospedalette non le fosse anche superiore. Ho
avuto la fortuna di sentire quest’ultima, la quale è tanto bizzarra che suonerà
sì e no una volta l’anno”.
Senza contare che De Brosses Vivaldi lo aveva
incontrato di persona. Il veneziano stava finalmente preparando come si deve la
sua fuga all’estero e cercava di piazzargli i suoi manoscritti: “Vivaldi è
diventato mio amico intimo, per vendermi i suoi concerti a carissimo prezzo. In
parte vi è riuscito, come son riuscito io nel mio intento, che era quello di
ascoltarlo e di procurarmi spesso qualche buona ricreazione musicale: è un
vecchio dotato di una prodigiosa furia nel creare. L’ho sentito vantarsi di
comporre un concerto più rapidamente di quanto impiegherebbe un copista per
trascriverlo. Ho constatato con mia grande meraviglia che non è stimato quanto
merita in questo Paese, dove tutto è soltanto moda, dove le sue opere si
ascoltano da troppo tempo, e dove la musica dell’anno avanti non si esegue
più”.
Le sue ultime parole mi ricordano qualcosa di molto
attuale. E infatti l’oblio sarebbe presto sceso anche sulle ragazze della Pietà.
Qualche anno dopo, pur godendo delle stesse armonie, Jean-Jacques Rousseau era
già più predisposto a vederne i difetti fisici: gli angeli di De Brosses, anche
se celati in parte da grate, rivelavano volti colpiti da vaiolo o da altre
menomazioni. Come se gli uomini non avessero gli stessi problemi! Erano donne
in carne ed ossa e alcune di loro non vollero rassegnarsi a essere solo grandi
virtuose segregate, ma si cimentarono anche nella composizione. Altro velo di
silenzio da poco diradato. Agata, Michielina e Santa della Pietà almeno le
trovate su Wikipedia.
Nessuna nostalgia quindi della repubblica veneta, ma fiducia nella nostra, democratica, perché solo le conquiste democratiche della nostra epoca hanno saputo dare concretamente un valore a tutte le vere culture del passato, e per tutti. È bene ricordarlo, perché la nostra Sinfonia, la migliore di sempre, acquisti ancora più forza con questa musica.
Seguono tre frammenti dal mio dramma incompiuto Vivaldi e nostre signore.
Frammento con Ghezzi
Vivaldi
Anch’io faccio ritratti, sapete? Le mie opere saranno maschere, ma le note… le note sono precisi volti di donna, quelli delle mie musiciste alla Pietà. Le mie Amazzoni, che non temono nessun Ercole. I loro nomi io li scrivo in bella grafia all’inizio di ogni spartito. Lo strumento accanto è come il figlio e per il cognome che non hanno aggiungete pure Armonia o Invenzione: la vera progenie è questa.
Frammento con De Brosses
Vivaldi
Amate gli antichi e avete un buon orecchio, ma a cosa vi serve se della musica antica non resta quasi niente? “Flatus vocis”, il latino lo studiato anch’io. E cosa resta della mia musica se non questa carta? Se scrivo senza pace è perché so che, quando anch’io sarò antico, resterà solo questo. Prendetelo come il messale che non sono mai riuscito a leggere per intero - sapete soffro d’asma. Sulla carta, se mi manca il respiro, sulla carta basta scrivere una pausa. Ma ora basta pause, basta chiavi di violino, mandolini, ponti dei sospiri, basta.
Frammento delle compositrici
Agata
Io manco di quattro dita alla mano sinistra, per questo canto. Ma chi si mette a guardare le mani degli angeli? Contano le ali. E io con la mano destra ho scritto un testo perché continui a cantare la figlia che non ho potuto avere, Gregoria, che ha il nome più degno di un papa.
Santa
E io che sono Santa anche nel nome, non mi sono cimentata a musicare un Salmo di re Davide, quello che i compositori uomini inserivano nei Vespri della Beata Vergine? Ma quel Laudate pueri io l’ho dedicato ai figli che non ho potuto avere.
Michielina
Sorelle, io ho consacrato due figli a Dio, l’organo e il violino, e Lui, il mio dolce sposo, ha permesso che dalle cinque sbarre della mia prigione si liberasse l’inno al suo corpo glorioso. Pange lingua. Canta, lingua, canta almeno il seme della sua parola. E liberiamoci anche noi, sorelle, abbandoniamo a testa alta e nel segno della meraviglia questa vita che ci ha visto recluse.
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