lunedì 9 gennaio 2023

IO E MONTEVERDI

380 anni dalla sua morte? 

Certi anniversari funerei sono sempre discutibili, specie se riguardano l’arte. Io so solo che il Magnificat di Claudio Monteverdi lo amo con tutte le mie forze da quando scese a consolare una precoce fine di saltatore in lungo e triplo nel 1980. Mia madre, prima, aveva sperato che diventassi un violinista, ma in quattro tristi anni di liceo musicale avevo imparato solo la paura della pece, quella da spalmare l’archetto. In atletica invece ero stato io, adolescente irrequieto e indisciplinato, a distruggere anche sogni miei, dell’allenatore  e quasi la gamba che ho a sinistra.

Tirato via il gesso, zoppicando fino all’edicola, comprai quel fascicolo con disco della collana I grandi musicisti, perché c’era il ritratto di un uomo dell’età che mi interessava, il Barocco. L’amore per la storia mi era rimasto, almeno quello, e di musica volevo ascoltare solo quello che non si sentiva a scuola.

Tu, divinità così umana dall’armonia tanto strana e dolce, che al Verdi nazionale facevi preludere Monte, tu sì che trasformavi il calvario dei punti di sutura del mio quadricipite in un pentagramma dalla melodia sublime. Una donna decideva con tale soavità di curare nel proprio grembo un Dio che si sarebbe fatto uomo e sarebbe stato crocifisso (e io all’epoca ero molto credente).

Dai piagnistei sulle proprie sventure, ora sì, riuscivo a scorgere tra le lacrime qualcosa di incredibilmente più bello, come una carezza della Madonna di Michelangelo al figlio morto.

Quando si dice che il caso desta l’amore. Poi vengono i fiori se scopri che il brano è tratto dai Vespri della Beata Vergine e il compositore è nato a Cremona, di cui conoscevi solo il torrone e quello scrittore incapace di ogni misura, il vescovo Liutprando. E io allora coltivo l’amore più dei fiori, perché riesco a fare mia di lì a qualche anno anche un’edizione de L’Orfeo che quasi ti tirano in faccia, sempre perché c’è Monte prima di Verdi (solo all’università ho imparato ad amare anche Giuseppe).

Cosa c’è di più gratificante, per uno che spera di non essere disperato, di un mito di Orfeo rivisto e corretto? Dalla Toccata - l’Ouverture - al lieto fine che ancora oggi canto insieme ad Apollo che scende dall’empireo: “Saliam cantand’al cielo”. Che meraviglioso tradimento rispetto alle Georgiche di Virgilio!

Ma che importa? La passione mi guida in una nuova specie di orfismo dagli occhi lucidi che va dal teatro della Fabula di Orfeo di Poliziano - evocato nei miei Teatri di guerra - al cinema di Cocteau, dove nel suo Orfeo attraverso anch’io lo specchio per ritrovarmi oltre l’oceano, in Brasile, con l’Orfeo negro di Marcel Camus.

Poliziano e Botticelli: componimento di Orfeo, crepuscolo dell'Umanesimo

Passando per l’Euridice di Jacopo Peri e Giulio Caccini, le origini del melodramma e il suo trionfo con la sintesi già nel titolo - Orfeo ed Euridice - di Gluck, altro autore a me molto caro e poco ricordato come si deve, di cui racconterò presto.

Negli occhi le continue metamorfosi del mito in forma di storia, ora danzante in piena luce (Botticelli) ora al crepuscolo (Tiziano). Preghiera immobile di Giulio Romano a Palazzo Te, prima del crollo insieme ai Giganti, o doppia, in due quadri di Rubens (nel secondo Euridice sgrana quegli occhi alla coppia infernale: lei sa). La solitudine del poeta sulla terra abitata nel quadro di Poussin e poi il trionfo in cielo col Tiepolo nell’atto e nel secolo che segue  (preludio all’ottimismo dei Lumi, a Gluck).

Fino a Orfeo e Euridice di Alberto Savinio, che giocano a posare finalmente felici (forse) agli Uffizi.

Commento musicale (sempre suo): Orfeo vedovo (1950). Vedovo ormai solo di Poesia (parola dell’autore).

Beato lui. Beato di più chi torna a scrivere sulle note del Magnificat di Monteverdi.

Luca Traini

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