Commento musicale Maria Teresa Agnesi, Non piangete, amati rai
Visto che tutti parleranno di Alessandro Manzoni
per il 150° dalla morte io ricorderò invece la sua antenata Francesca, vissuta
quasi un secolo prima e a lui congiunta, più che nel segno della biologia (lo
scrittore è quasi certamente figlio della relazione fra Giulia Beccaria e Giovanni
Verri), nel comune amore per la poesia. Perché Francesca, alias Fenicia
per gli Arcadi, fu una protagonista della vita culturale milanese - ed europea,
in quanto strettamente legata alla corte degli Asburgo - anche se purtroppo per
breve tempo. Morì di parto nel 1743 a soli 33 anni, la canonica età di Gesù. E
infatti l’intensa ispirazione cristiana dei suoi versi è proprio il segno
distintivo che la accomuna al suo discendente. Un sentimento profondo poco di
moda tanto agli albori dell’Illuminismo che durante il vuoto conformismo
religioso della Restaurazione. Li unisce inoltre la professione di fede nella
scrittura per drammi, il teatro in versi.
Tuttavia, se Adelchi o Il conte di Carmagnola li trovate in qualsiasi libreria, per avere subito a disposizione il capolavoro di Francesca, L’Ester, dovete rivolgervi a Google Books e sfogliare virtualmente l’edizione originale del 1733 (avendo fede 290 anni dopo nella rivelazione di una nuova edizione a stampa).
Dramma tratto naturalmente dal Libro di Ester presente nella Bibbia, testo dalla genesi quanto mai complessa, presentato dalla scrittrice in un’introduzione dottissima (trenta fitte pagine), dove fa sue le interpretazioni del testo biblico greco dei Settanta e dello storico Giuseppe Flavio, che ambientano la vicenda alla corte del re dei re persiano Artaserse I Longimano.
C’è da sottolineare che la Manzoni, quasi da femminista ante litteram, ha quasi sempre posto al centro della sua drammaturgia donne come protagoniste. Ne fanno fede altri titoli che aspettano una riedizione contemporanea come La Debbora, La madre de Macabei, L’Abigaile. Tutte eroine bibliche, tutte scritture anche in forma di libretto per oratori o azioni sacre messe in musica da compositori in voga come Francesco Bartolomeo Conti o Luca Antonio Predieri. Stella polare di riferimento e colta mecenate l’imperatrice Elisabetta Cristina, consorte di Carlo VI.
Di questa donna eccezionale, coronata di aura aristocratica, venni a conoscenza per caso, per lavoro, in tutt’altro contesto. Nel biennio 1987-88, ventenne ben lontano dall’essere laureato, ero stato chiamato a insegnare italiano alle Serali - le mitiche, preziose 150 Ore dedicate a encomiabili studenti adulti che di giorno lavoravano e riuscivano pure a trovare la forza di studiare - nelle Scuole Medie di Arcisate dedicate a un famoso artista, arcisatese, del Settecento: Benigno Bossi.
Più noto come il re degli stuccatori del Secolo dei Lumi, come scoprii nella biblioteca dell’università, era stato anche pittore e incisore. Ebbene dobbiamo proprio a questo artista, agli inizi della sua carriera, l’unico ritratto rimasto della poetessa: volto deciso, che ha chiaro quello che sa e vuole, ma fatica a emergere dal buio.
E pochissime notizie allora, poco tempo per me fra studio e lavoro. Il cognome da sposata dopo una parentesi in monastero, Giusti, da Luigi Giusti, letterato e librettista di quell’opera singolare che è il Motezuma (Montezuma) di Vivaldi: all’epoca un raro matrimonio d’amore (alla morte di lei, addoloratissimo, il vedovo si fece sacerdote). Il ruolo del padre, il giurista Cesare Alfonso, che, come il concittadino Pietro Agnesi con le figlie Maria Gaetana e Maria Teresa, aveva tenuto, controcorrente, all’educazione di Francesca tanto che la ragazza padroneggiava con totale sicurezza latino, greco, francese, spagnolo oltre a geometria e, chiaramente, diritto. Il fatto che lei, oltre a rime petrarchesche e in milanese, avesse tradotto i Tristia di Ovidio, sembrava un presagio…
Ma ne parlai alle mie splendide signore alunne della sezione distaccata di Cuasso al Monte, quando m’invitavano a prendere un tè prima dell’inizio delle lezioni del turno delle 17.30? Temo di no, ma sarebbe stato bello, anche perché i drammi di Francesca, al contrario di quelli di Alessandro, erano a lieto fine, come un diploma di terza media delle 150 Ore: il ragionevole ottimismo del nostro secondo dopoguerra, in fondo, era strettamente imparentato a quello dell’Età dei Lumi.
Dal 1733 al 1822, da L’Ester all’Adelchi: certi passaggi, specie nei cori, sembrano avere proprio lo stesso afflato. Quanto differisce è la speranza a chiare lettere nei versi della prima rispetto al pessimismo dei drammi romantici del secondo (che dovevano di prammatica celare fra righe e tenebre la loro brama di luce). Entrambi si mettono in gioco fra endecasillabi e settenari, ma è nel coro delle Donzelle ebree al seguito di Ester alla fine del secondo atto che sento degli echi vibrare in positivo attraverso un secolo, fino alla morte di Ermengarda (“Sparsa le trecce morbide”) o al confuso popolo italico che dovrebbe destarsi “dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti”: “Talor mentre si teme/ Che più non sia riparo/ Alle ruine, e ai danni/ Sorge la viva speme,/ Quasi un bel raggio chiaro/ Fra l’ombre; e i tristi affanni/ Fuga; indi scioglie i vanni/ A mille alti pensieri,/ E bei desiri ardenti/ Ch’eran sopiti, e spenti,/ Qual zefiro, dai fieri/ Geli oppressi, ravviva/ I fiori in prato, o ‘n riva”.
Nella metrica dell’antenata trova sempre spazio armonico quella Provvidenza protagonista della prosa dello scrittore de I promessi sposi, così ben descritta da Ester nella quinta scena dell’ultimo atto: “Non dorme providenza, ma ogni cosa/ Osserva, e in suo saver si riconsiglia:/Solleva chi è depresso, ed i superbi/ Di confusion ricuopre; ond’io ristretta/ Entro me stessa, a lei tutta in governo/ Mi pongo, e l’alto suo Giudizio adoro”. Sembra di sentire parlare Lucia Mondella prima di passare da regina a operaia (e di questo ringrazio il mio caro Alessandro).
Al di là questi riverberi c’è da sottolineare come
anche la Manzoni dia rilievo a personaggi femminili legati a corrispettivi
maschili negativi, sottolineando una superiore forza di spirito. È il caso
della moglie di Aman (il persecutore degli Ebrei impiccato alla stessa forca da
lui fatta costruire) che, dopo aver visto sterminare tutti e dieci i figli, di fronte al
terrore della morte del marito grida “Dirassi almeno ch’io morii da forte” e
si suicida pugnalandosi al petto.
“E l’alma disdegnosa si fuggì”. Un verso per lei, due rimembranze per la fine dei poemi di Virgilio e Ariosto. E tre Accademie che la videro prima attrice: la colonia milanese dell’Arcadia, quella dei Filodossi e infine l’Accademia dei Trasformati, da cui avrebbe preso vita il primo Illuminismo milanese. Ironia della sorte, quest’ultima rifondata da Giuseppe Maria Imbonati, il padre di Carlo, compagno di Giulia Beccaria e soggetto del primo importante componimento poetico di Alessandro Manzoni. Dramma della storia, dramma ancora una volta tutto al femminile (per la vita sempre a rischio di tragedia delle donne dell’epoca): Francesca non poté assistere all’inaugurazione del 6 luglio 1743 perché era morta il 28 giugno, dieci giorni di calvario dopo il parto della figlia Angiola.
Ci piace ricordarla felice ancora al lavoro - magari impegnata nella stesura di quella storia delle donne erudite che il tempo e l’epoca le impedirono di completare - quando suscitò la meraviglia anche di un viaggiatore avvezzo a tutto come Charles de Brosses, a Milano nel 1739: “La Biblioteca Ambrosiana è così celebre in Europa... È aperta tutti i giorni, sera e mattina e l’ho sempre trovata, a differenza delle nostre, piena di gente intenta allo studio; ma trovai strano di vedere una donna lavorare in mezzo a un mucchio di libri latini: è la signora Manzoni, che ha il titolo di poetessa dell’imperatrice”.
Noi oggi non lo troviamo strano affatto, ma è
merito di tante lotte che non devono mai cessare.
È merito anche di Francesca Manzoni. Che deve essere ricordata insieme ad Alessandro.
Per un quadro della Milano dell'epoca vedi anche
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