Commento musicale Mogens Pedersøn, Morirò, cor mio
Leonora
Christina Ulfeldt, “Memorie dalla Torre Blu”, da me rubato a 17 anni,
insieme al “Rapimento di Proserpina” di Claudiano (colpa del titolo) e a
“Hölderlin”
di Peter Weiss (altra torre, altra reclusione): tutti libri di cui
negli anni ’80 non importava niente a nessuno. Scaffali classici e
seconde scelte: i meno sorvegliati. I tre libri sistemati come una
cintura Gibaud sotto il maglione e via, ostentando massima tranquillità,
verso il reparto sportivi (massima vigilanza) e poi la cassa, questa
volta per pagare un altro mio livre de chevet: Gian Paolo Ormezzano, Enzo Bearzot, “Storia del calcio”. Era geologica priva di antifurto, uscita: poker.
A 18 anni vado a
lavorare d’estate in fabbrica, la pianto col furto dei libri (mai
rubato altro) e cerco inutilmente col mastice di riattaccare le mie
“Memorie dalla Torre Blu” della Bompiani, che già vanno in pezzi, come
buona parte dei tascabili di una volta. Una lettura drammatica, quindi,
in tutti i sensi (oggi c’è l’elegante - e resistente – libro
ripubblicato da Adelphi, ma se volete riprovare certe forti emozioni
potete trovare la mia edizione anche su eBay).
Io
e la figliastra del re Cristiano IV di Danimarca (che aveva ripudiato
sua madre, moglie morganatica), ognuno con la sua prigione. M’innamorai
subito, ma lei era tutta presa da quel personaggio inquietante di suo
marito (“inquietante” per i nostri anni ’80, per oggi, non certo per
l’epoca barocca), il diplomatico Corfitz Ulfeldt, e per amor suo –
pensare che era stato un matrimonio combinato quando aveva solo la metà
dei miei anni, 9 – congiura contro il re, il fratellastro Federico III,
partorisce ben 15 figli e, quando lui riesce a scappare, si fa 22 anni
di carcere senza l’ombra di un rimprovero: “Dio ha operato cose
meravigliose nei miei riguardi, perché è del tutto incomprensibile che
io sia potuta sopravvivere alle sventure che mi sono capitate,
mantenendo intatta la mia ragione, la mia mente, i miei sensi”.
Leonora Christina col marito in un'incisione di Jacob Folkema, 1746 _ Il Castello di Copenaghen in un'incisione del XVII sec.
Commento musicale Dietrich Buxtehude, Praeludium BuxWV 137
Nella Torre Blu
del Castello di Copenaghen (non cercateli: sono stati demoliti nel
1732), un nome che tanto mi affascinava da ragazzo, quanto, ad ogni
rilettura di “Jammers Minde”
(“Ricordo del dolore” questo il titolo originale), si riscattava invece
per il suo quotidiano squallore solo grazie alla penna delicata e
spietata di questa grande donna: “Sono stata molto combattuta in
merito a queste Memorie, non sapendo decidere se fosse meglio fare lo
sforzo di dimenticare o quello di ricordare. Ma alcune ragioni che
urgevano mi hanno finalmente convinto non solo a rievocare le mie
sofferenze, ma ad affidare alla penna questi ricordi e indirizzarli a
voi, miei cari figli, ora che posso sperare che i miei scritti giungano
nelle vostre mani, essendosi di molto mitigata negli ultimi tre anni la
durezza della mia prigionia”.
E anch’io, anni
dopo, ormai insegnante, per quanto non in programma, facevo leggere ai
miei alunni queste pagine collegandole a un libro delizioso nel
frattempo uscito per i tipi della Salerno Editrice: “Antiche ballate
danesi”. In particolare quella intitolata “La fanciulla dalle piume
d’uccello” e i versi:
“Ti chiedo, mia diletta,
chi ti ha condannato a questa pena?”
“Sedevo alla tavola di mio padre,
e giocavo con rose e con gigli;
venne avanti la mia matrigna,
nulla di buono aveva in pensiero.
Di me fece un piccolo usignolo,
e m’ordinò di volare nel bosco;
cambiò in lupi le mie sette ancelle,
l’usignolo dovevano sbranare”.
Ma
l’usignolo riuscì a cantare e finalmente uscì da quella torre, nel
1685, grazie a un nuovo re, Cristiano V (quando si dice il nome), per
finire i suoi giorni in monastero (il marito era morto ventuno anni
prima), forse rileggendo Giobbe – “Cari figli, posso davvero esclamare
con Giobbe: se si potessero mettere sulla bilancia tutte le mie
sofferenze e tutti i miei patimenti, risulterebbero più pesanti della
sabbia del mare. Tante e così grandi sono le mie sofferenze, pesanti e
innumerevoli” – ma questa volta il lieto fine. E lasciando il
manoscritto ai pochi figli sopravvissuti, che preferirono celarlo finché
un altro Christian, Andersen, e i romantici non lo riportarono alla
luce in pieno Ottocento, facendo conoscere al mondo una Danimarca che
non è solo Amleto o la Sirenetta, ma la patria di una delle più grandi
scrittrici di sempre.
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