Du coeur ardent, en quoi que ce soit,
Christine de Pizan
Calibrando il passo del
Vangelo e la vista delle nevi eterne con la fame tutta terrena di potere i
signori de La Tour de Villa costruirono sulla roccia una torre a guardia
dell’antica Via delle Gallie. Pietra su pietra cercarono di avvicinarsi al
cielo nel microcosmo ameno di Gressan, dove i secoli avevano coltivato un
villaggio nei campi di un proprietario romano, Graziano o Gracco.
Forse il modello fu la
Torre de La Plantà, verso il confine di Jovençan, se confermata la matrice con
le torri di Augusta Praetoria – e i La Tour nel 1200 erano proprio vicedomini di Aosta.
E Anselmo d’Aosta era
forse originario di Gressan: una casa-forte del X secolo nella frazione di La
Bagne è conosciuta col nome di Torre di Sant’Anselmo. “Precibus et operibus”,
il motto dei costruttori del castello, c’è chi dice fosse opera sua. E “con
preghiere e opere” – e soprattutto corvées – irrigando il tutto con sudore
contadino, XII o XIII secolo che fosse, si cominciò a solleticare sempre più da
vicino il paradiso. La porta della torre piccola e stretta come quella della
salvezza, a più di sette metri di altezza, il corpo dell’intero edificio diviso
in tre parti con una piattaforma di piombo come tetto: il belvedere che sta in
cima come una dura conquista dopo tanti peccati di superbia.
“Sentinella, a che
punto è la notte?
E’ venuto il giorno ed
è notte”
Quanto durò al cospetto di quell’eternità così
bramata la saga dei La Tour?
Più o meno cinque
secoli, fino al 1693, quando Grat Philibert morì e si ricongiunse alla malta
dei padri. Nel frattempo, nello splendido ‘400 valdostano, era stata portata a
compimento alle spalle della torre la nuova parte abitata, quinte di teatro
degne di uno Scamozzi. Le mura, un tempo agguerrite e minacciose, si misero il
cuore in pace, giocarono a backgammon e si ubriacarono come le guardie del
castello di Issogne, fino a crollare in un sonno profondo, franando in buona
parte su se stesse: tutta buona pietra per recintare vigne o simili.
Passato di mano in mano
come un ingombro - nel 1800 ci passano accanto i turisti inglesi tutti vogliosi
di pittoresco (il grande Turner però gli preferisce le rovine più anglosassoni
di Châtel-Argent) -, il nostro monumento, per quanto ancora in piedi, diventa
Tour des Pauvres, proprietà della Cassa dei Poveri della parrocchia di Saint
Laurent ad Aosta. Tanta era stata l’ascesa quanto la caduta, ma se l’ascesi
spirituale ha un senso, non stupisce certo la sua rinascita ad opera di un
monsignore, Auguste Duc, monsignore e storico, che lo restaurò e ne fece la
propria residenza estiva. Dopotutto sul suo stemma non c’era scritto “Duc in
altum”, “Conduci in alto”? Però le mura che guardavano a nord e a occidente non
le ricostruì. Forse in ossequio a Giosuè e all’evidenza della fragilità umana. Forse
perché ancora intriso di estetica romantica, perché è così sublime perdersi
nella natura dagli squarci. Cosa risuonava in alto, nella testa di monsignor
Duc? La “Sinfonia fantastica” o “I Troiani” di Berlioz? Bisogna passare ancora
per tanti Adagi per giungere a un Allegro finale, a oggi.
La contemplazione delle
rovine prelude al restauro. La presa di coscienza del passato è un prendere per
mano chi ci ha preceduto e ha voluto costruire oltre il tempo, stringere quella
mano sporca di polvere e colore e piena di calli come sanno essere le mani
degli artisti. Come fece Ernesto Chanu parlando di quel gioiello strano che è
la chiesa della Madeleine, laggiù: la Maddalena che chiese sostegno ai suoi
peccati di statica a un contrafforte tanto possente quanto di grazia circolare,
come le sfere celesti.
Termino leggendo da una
fotocopia di un suo articolo che mi hanno dato lo storico Marco Gal e le radici
del salice che ha nel giardino. Loro sanno bene quanto sia fertile quanto sta
sotto la patina del tempo: “ Nessun nesso apparente sussiste fra la chiesa e il
non lontano castello, eppure lo sguardo di chi osserva non può evitare di
correre dall’uno all’altro edificio, di collegarne nel pensiero l’esistenza, in
quanto, nel giallastro colore del tufo, nelle ardesie nere vellutate di
muschio, nelle sobrie forme quadrate, sente che entrambe le opere sono frutto
di una medesima epoca, sintesi pietrificate di quelle che dovettero essere qui
le massime religiose e sociali della vita medievale”.
Nessun commento:
Posta un commento