Un libro e una ricetta del XV secolo
Nessuno presuma sconsideratamente
Di conoscere l'arte dei conviti,
Se prima non ha indagato a fondo
La sottile scienza dei sapori
Orazio, Satire, II, 4
Fratelli Limbourg, Les Très Riches Heures du Duc de Berry, 1412-1416
Commento musicale Guillaume Dufay, Bon jour, bon mois
Il principe e il cuoco, squisito saggio di Antonella Salvatico, illustra e spiega le ricette del Livret du fait de cuisine dettate
nel 1420 dal maître Chiquart, uno dei grandi della cucina
tardomedievale insieme a Maestro Martino, Giovanni Bockenheim e
Taillevent.
Ci troviamo
alla corte ancora tutta francese di Amedeo VIII di Savoia (1383-1451),
di cui il fedele capocuoco accompagnerà trionfi (e sconfitte) per più di
mezzo secolo con pranzi fastosi ricchi di colore e simboli (sia
araldici che alchemici). Dall’ascesa del conte alla carica di duca nel
1416, all’annessione di buona parte del Piemonte (1419), alla salita al
soglio pontificio come papa (poi declassato, in vita, a cardinale e,
nella storia, ad antipapa) Felice V (1439-1449). Una carriera che
toccherà il suo culmine con una ricompensa eccezionale: una signoria nel
mandamento di La Baume.
Veri e propri
banchetti “politici” in un mondo e in una cucina fatti di forti
contrasti dove la sfumatura, invenzione rinascimentale, non era di casa.
L’”autunno del medioevo” fu infatti il regno dell’agrodolce, dei toni
squillanti e degli accostamenti stridenti: dal cibo all’abito
all’araldica (che trovò la sua forma distintiva proprio in questo
periodo).
Il tutto in una
specie di “hortus conclusus” dove il duca - seguendo l’esempio francese
e, soprattutto, borgognone (era imparentato con entrambe le case
regnanti) – trasformava una contea di confine in una vera e propria
corte alla moda. Ingaggiando il primo storico ufficiale, Jean Cabaret
d’Orville. Commissionando opere a fior di artisti: il delicatissimo
miniaturista Jean Bapteur, un pittore naturalista tendente al grottesco
come Giacomo Jaquerio insieme a un raffinato seguace del nuovo stile
fiammingo, Konrad Witz (altro accostamento stridente). Ospitando il
poeta Martin Le Franc, reduce dall’aver dedicato a Filippo II di
Borgogna quel gioiello di poema che è Le Champion des Dames, un
raro omaggio in versi al ruolo delle donne nella storia, e impegnato
nella diffusione del nuovo sound polifonico di scuola inglese forgiato
da John Dunstable.
Konrad Witz, La pesca miracolosa, 1444
Un mecenatismo
culturale che non troverà pari nel seguito della dinastia e che gli
permetterà di fare suo anche uno dei più grandi musicisti dell’epoca: il
mio adorato Guillaume Dufay.
Le ragioni di
questo successo furono già comprese dai più attenti osservatori
contemporanei. In particolare da Enea Silvio Piccolomini, ecclesiastico
ma anche autore di uno dei best seller della letteratura erotica del
‘400 (Eurialo e Lucrezia) e poi papa col nome di Pio II (1458-1464), che fu tra i sostenitori di Amedeo VIII in versione Felice V. Nei suoi Commentari,
un capolavoro di cui consiglio vivamente la lettura, si esprime in
questi termini: “Il duca era un principe potentissimo, temuto dai
Francesi e dagli Italiani, che di solito era coperto di vesti d’oro,
circondato da molti cortigiani, preceduto [come nell’antica Roma] dai
fasci e seguito da coorti di armati e da una folla di potenti. […] Era
congiunto in parentela con quasi tutti i re cristiani. Le disgrazie dei
vicini furono la sua grande fortuna. In Francia scoppiò il dissidio fra
Borgognoni e Armagnacchi e il regno fu turbato dagli attacchi bellicosi
degli Inglesi. In Italia i Veneziani e i Fiorentini scesero in guerra
con implacabile odio contro Milano. Amedeo, che regnava sui monti e
lontano dalle armi, veniva scelto come arbitro ora da questi ora da
quelli e veniva considerato l’unico capace di reggere saggiamente sé e
gli altri”.
Certo
tutt’altro che un santo, ma per l’epoca raro esempio di potente più
innamorato dei poemi cavallereschi che delle guerra. Appassionato
cultore di alchimia: fu lui a commissionare il Libro delle Due Parole al medico-alchimista Gugliemo Fabri.
E poesia, alchimia e medicina rientravano nella dietetica consigliata dal maître Chiquart. Il Livret du fait de cuisine inizia
e termina con delle ballate, rinvia spesso a significati alchemici
nella sovrabbondante colorazione dei piatti (quando non si arriva a
ricette a base di oro e pietre preziose da cuocere in un sacchetto di
lino bianco insieme alla carne in acqua di rose) e propone cibi
curativi, in linea col medico di corte Antonio Guainerio, anche della
peste: lo zenzero su tutti, ma anche pollame e cacciagione(!).
Ecco allora che
ci addentriamo in una vera e propria orgia di carni, pesci, intingoli e
spezie in totale antitesi con qualsiasi consiglio dietetico dei nostri
giorni. In sintonia con la cucina imperiale romana, viene bandito
qualsiasi sapore genuino in nome di un’artificiosità cosmopolita e
simbolica che tende a separare i gusti dell’aristocrazia dal resto della
società anche in fatto di palato. Le portate pantagrueliche, poi, sono
un ulteriore segno di famelica distinzione dalla povertà e dalla diffusa
denutrizione cronica, specie nelle campagne, in Savoia come nel resto
d’Europa.
Eccone un
esempio, tratto probabilmente dal banchetto in sei portate offerto
all’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo in occasione della
nomina del conte a duca nel 1416:
1 Arrosti
interi, capretto con salsa all’agresto verde, porchetta con salsa
camellina,lombata di vitello, lombata di maiale con salsa piccante,
spalla di montone con salsa, pollame arrosto,oche grasse e capponi con
salsa, fagiani, pernici, conigli e maialino con salsa camellina,
piccioni con sale fino e aironi 2 Cacciagione con polenta di farro 3 Flan di crema di latte con torte di carne e di formaggio 4 Brodetto camellino su lesso misto di carne 5 Brodetto rosso su lesso misto di carne 6 Biancomangiare in quattro colori, tutti nel medesimo piatto
Stomaci da eroi
di poemi, cultori di cibi come il delfino, destinato alle sole
mandibole dell’alta nobiltà, o la marmotta sotto sale (raro esempio di
piatto tipico), con tutta una serie di poco simpatici effetti
collaterali contro cui poco potevano la colza o il ravizzone finale per
pulire la bocca.
Rare eccezioni
sono i dolci. Anche se si fa davvero fatica a trovare del ricettario del
maître un dolce in senso moderno. Infatti ve ne sono solo due e uno di
questi è proprio il “biancomangiare in quattro colori” al termine della
servizio appena descritto. Quasi certamente assaporato dall’illustre
compagnia dopo un “entremets”, un “intermezzo” di piatti decorativi che
rappresentavano “La fontana di Amore”, ispirata al Roman de la Rose e accompagnata dalle esibizioni di cantori, attori e menestrelli.
Roman de la Rose, miniatura del XV secolo
I quattro colori – l’oro imperiale e il rosso già cari agli antichi (vd. Filostrato Maggiore, Le immagini),
il bianco che simboleggiava l’argento e l’azzurro salito agli onori dal
XII secolo – rappresentavano, in un gioco caleidoscopico, anche quattro
importanti casate del ducato: la signoria di Thoire-Villars (oro e
rosso), il marchesato di Saluzzo (argento e blu), il casato de La Baume
(oro e azzurro) e i valdostani Challant (rosso e argento).
Biancomangiare in quattro colori
Ingredienti Molte
mandorle, acqua tiepida, sale, polvere di zenzero bianco, molto amido,
zucchero, olio, alkanna, tornasole, zafferano, meleghetta
Pulite le
mandorle dalla cuticola e pestatele nel mortaio, ammorbidendole con poca
acqua tiepida. Aggiungete le spezie (zenzero in polvere e meleghetta) e
fate il latte di mandorle, poi filtrate con cura. Dividete il latte
così ottenuto in quattro recipienti, aggiungete in ognuno molto zucchero
e scaldateli su un bel fuoco. Prendete poi molto amido, pulitelo,
lavatelo bene e suddividetelo in quattro diversi piatti, tanti quanti
sono i recipienti di latte. Unite l’amido mescolando bene fino a quando
il composto non sia denso. Fate la stessa operazione con il latte di
tutti e quattro i recipienti. Per ottenere il primo colore, l’oro,
prendete dello zafferano pestato e stemperatelo nel latte di uno dei
quattro recipienti mescolando continuamente con un cucchiaio. Per
l’azzurro prendete molto tornasole e mescolatelo al latte prescelto, poi
colate tutto in una bella secchia e mescolatevi anche l’amido. Colate
nuovamente il latte azzurro nel recipiente originale. Per ottenere il
rosso, fate scaldare dell’olio di buona qualità, filtratelo e
soffriggete molta alkanna ben pulita. Filtrate poi con l’angolo di una
stamigna e unite poco per volta mescolando delicatamente il colorante
così ottenuto al latte del terzo recipiente fino a che non sarà della
tonalità desiderata. Per ottenere il color argento stemperate altro
amido nel latte. Filtrate e aggiungete la dose di amido necessaria per
legare il composto.
Lascio alla
fantasia del lettore l’abbinamento del vino. Chiquart o il duca forse
avevano in mente un vino chiaretto molto speziato o – chissà - qualcosa
che avesse a che fare con “l’oro potabile” descritto dall’alchimista
Fabri.
Chi non ama
affatto significati esoterici ma la Storia e la buona tavola, come il
sottoscritto, consiglia semplicemente: spumante o champagne.
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