Zia Ida, tu sei lì, in quella foto, con tutta la tua dolce solitudine: un terrazzo neutro - e il mare, il cielo delle Marche in lontananza. La mano con cui ti sostieni alla ringhiera, la mano con cui forse indichi qualcosa, non c’è, non si vede: è svanita nella cornice bianca della Polaroid.
Sei una robusta signora anziana dai capelli bianchi, sei la degente del manicomio di Fermo da cui le sorelle ti hanno fatto uscire, per condividere un giorno di festa: Adele, mia nonna, zia Lina, zia Teta, forse. Zio Titta è morto da un pezzo (non parlava quasi mai), zia Maria è invece suora di clausura, da 60 anni. Vedi, tutto questo lo so da mia madre, quando mi parla di un altro mondo.
Una follia serena, come quella del poeta Holderlin, scaturita con un grido disperato, di cui non resta traccia. Da 40 anni è così, zia.
Dovremmo incontrarci un giorno d’estate dell’81. Poi accade qualcosa d’imprevisto e non riusciamo a vederci.
L’inverno successivo io sono lontano, a Varese, e tu muori. Dio spegne un’altra parte di sé. Il tuo dio, zia, quello che non riuscirò mai a capire, quello di Pio XII, dell’età del ferro.
Tu ne ripetevi ossessivamente le litanie: ti era cresciuto intorno al cuore come un rovo. E dentro, in fondo a quanto chiamavi “anima”, dalle fattezze del Cristo emergeva un altro volto:
[...]
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