Filippo Sassetti da Firenze all’India nel crepuscolo
del Rinascimento
La peripezia è un mutamento della situazione in senso
contrario al previsto,
sempre però secondo i principi di verosimiglianza o di
necessità.
Aristotele, Poetica
Commento musicale Duarte Lobo, O magnum mysterium
Come mai un umanista fiorentino, autore di un’Esposizione della Poetica di Aristotele
e di una Difesa di Dante, finisce 440
anni fa a cercare pepe nella costa del Malabar?
La risposta è semplice: perché veniva da una
famiglia di mercanti. Famiglia che si era fatta strada con successo fra banche
e commerci già dalla fine del XIII secolo, tanto da potersi costruire nel
Trecento un palazzo presente tuttora nel capoluogo toscano. Culmine gli anni ’80 del Quattrocento, quando Francesco Sassetti, uomo di
fiducia di Lorenzo il Magnifico in Francia, si era potuto permettere una cappella nella basilica di Santa Trinità affrescata da capolavori del
Ghirlandaio. Una famiglia che vantava remote origini nobiliari, ma unico dato
incontestabile è il titolo di conte palatino concesso nel 1510 da papa Leone X,
non a caso figlio del Magnifico.
Domenico Ghirlandaio, Conferma della Regola francescana, 1485 (il Sassetti è accanto al Magnifico sul lato destro)
Filippo Sassetti nasce il 26 settembre 1540, quando,
anche se gli splendori della piccola dinastia sono già passati, le attività pur
tra alti e bassi riescono ancora a procurare una certa agiatezza. Può quindi dedicarsi,
dopo una breve parentesi commerciale sotto la guida del padre, a letteratura e
filosofia, laurearsi a Pisa, diventare membro dell’Accademia Fiorentina e poi
di quella degli Alterati col nome di Assetato (di cultura chiaramente). Quando
poi subentra un forte dissesto finanziario, a 37 anni, privo di rendita, lo
scrittore torna a rivestire i panni di mercante, dismessi tredici anni prima, e
trova anche la forza di scrivere un Ragionamento sopra il commercio tra la
Toscana e le Nazioni levantine per
sostenere l’ampliamento del porto di Livorno promosso dal granduca Francesco I.
Anno Domini 1577.
Firenze nel Grande Gioco geopolitico
Il
contesto storico è un po’ più complicato e, di norma, poco conosciuto. Siamo
abituati a vedere imperi o grandi stati nazionali spedire flotte in tutto il
mondo alla ricerca di nuovi approdi commerciali e puntellare, insieme alle
immancabili croci, nuovi insediamenti che nei secoli diventeranno colonie. Meno,
a scoprire che anche piccole entità statali come il Granducato di Toscana, per
quanto all’ombra dell’egemonia spagnola, cercavano il loro posto al sole fra
Indie Orientali e Occidentali. La costruzione stessa del porto franco di
Livorno rientrava nel progetto di farne un punto di smistamento per il
pepe che arrivava a Lisbona destinato all’Europa centrale. Si cercavano
accordi commerciali con regni islamici del Mediterraneo, in particolare il
Marocco, e ancora agli inizi del Seicento si tentava di realizzare insediamenti
in Brasile o di acquistare una piccola colonia in Africa nella Sierra Leone. Ben
poco andò in porto: restò la volontà di far rivivere, almeno in piccolo, i
fasti economici della Firenze medievale o medicea.
Vele, cannoni e scorbuto
Quando
Sassetti arriva nella Penisola Iberica e vaga tra Spagna e Portogallo (1578-81)
per cercare di piazzare i tessuti della famiglia Capponi tutto questo era
ancora ben in là da venire. Sforzo vano anche il suo, specie se, tra uno spostamento
e l’altro, il sapore del pepe e il sapere botanico e geografico acquisito negli
anni cominciano a far breccia nelle speranze dell’umanista. Nel 1582, infatti, ottenuto
l’incarico di agente dal banchiere milanese Rovellasca - che era riuscito, nell’intricata
geopolitica dei monopoli della corona portoghese diventata da poco possesso di
Filippo II di Spagna, a far parte di un consorzio per l’importazione del pepe
dalle coste dell’India sud-occidentale - s’imbarca alla volta del favoloso
Oriente, ma resta bloccato per mesi nelle secche al largo del Brasile (rischio
diffuso quando si teneva la rotta troppo a ponente affrontando la discesa
dell’Africa Occidentale) ed è costretto a tornare a Lisbona. Poiché, come
avrebbe scritto, “non sono atto a disperarmi”, l’anno successivo, l’8 aprile
1583, ritenta subito la traversata: lo stesso coraggio dei nostri astronauti e
forse più simile a quello di chi partirà per Marte. Risultato: un altro viaggio
da incubo. Evitato il rischio di farsi trascinare nelle Americhe, la nave resta
bloccata per 40 giorni - sottinteso il
parallelo con l’uguale durata del digiuno di Gesù nel deserto - nella terribile
bonaccia del Golfo di Guinea: calura implacabile alternata a scrosci diluviali.
L’equipaggio si ammala in massa di scorbuto.
Poliziano e Botticelli: componimento di Orfeo, crepuscolo dell'Umanesimo (1494)
Dopo gli orrori della sifilide cantati dai versi
latini di Poliziano ecco la prosa in volgare del Nostro, ancora più efficace
nel descrivere la terribile piaga che avrebbe afflitto i marinai fino ai viaggi
di Cook: “Cominciano in mala maniera a enfiare le gengive, e impedire a
mangiare il biscotto… (Ad alcuni) si fanno tanto grosse che bisogna tagliarle
col rasoio per poter serrare la bocca, la quale getta… un odore tanto cattivo…
Con le gengive enfiano le ginocchia e tutte le gambe… (la qual cosa) dà tanto
dolore che è grandissima pietà a vedere i poveri infermi”.
Già segnati dalla scarsissima igiene personale, gli europei fecero spesso la loro comparsa negli altri continenti come veri e
propri mostri irsuti. Mostruosi, ma dotati di nuove formidabili - e micidiali -
tecnologie: sintetizzando, Vele e cannoni, dal titolo del libro
fondamentale del grande Carlo M. Cipolla. In primis gli archibugi, che dopo un
iniziale sgomento avevano fatto gola a tutte civiltà, a partire dal Regno del Congo, di cui ho già scritto ne Il Regno del Congo, il primo vescovo dell’Africa nera (1518).
Il Regno del Congo, il primo vescovo dell'Africa nera (1518)
Viaggi
caratterizzati da un’altissima mortalità che venivano portati a compimento solo
da chi disponeva di una fibra eccezionale come il Nostro (“io sono stato bene
sempre”), che approda comunque esausto sulla costa del Malabar dopo sette mesi:
“Sette mesi in mare sempre sempre, e non diventare pesce eh?”. Si stabilisce
prima a Cochin (l’odierna Kochi, nel Kerala) e, dal 1585, a Goa (colonia
lusitana fino al 1961 quando, con l’“Operazione
Vijay” fu riconquistata dalle forze armate indiane). Senza dimenticare i
ricatti a cui venivano sottoposti marinai e soldati portoghesi dai loro
superiori, la disperazione e l’altissima mortalità dei coloni lusitani (“la più
perduta gente che vi sia”) e l’ossessione per la conversione forzata al
cattolicesimo delle popolazioni locali che aveva privato Goa dei “migliori di
loro” che “se ne sono andati a vivere in altre parti”. Per completare il
panorama poco idilliaco delle colonie lusitane c’è da aggiungere che l’unione
fra Spagna e Portogallo era andata a detrimento di quest’ultimo, che, già a
causa della sua scarsa popolazione (poco più di un milione di abitanti),
faticava non poco a controllare i territori conquistati e si sarebbe ritrovato
impelagato nelle guerre di Filippo II contro l’Inghilterra e i rivoltosi dei
Paesi Bassi con relativi costi, deficit e bancarotte della monarchia spagnola
(in particolare quelle del 1596 e del 1607). Senza contare la ripresa economica di Venezia
a partire dalla metà del Cinquecento e la conquista di Aden da parte turca del
1538, che avevano rotto il monopolio dell’importazione del pepe.
Passaggi in India
Commento musicale Marco da Gagliano, La Dafne (libretto di Ottavio Rinuccini), “Tra queste ombre segrete”
Già a inizio 1586 il Sassetti scrive all’amico
Alessandro Rinuccini (fratello del più noto librettista Ottavio) riguardo a
nuovi problemi per il rinnovo del “contratto de’ pepi”, ricordando con
nostalgia gli amici accademici, abbattendosi per aver trovato una copia del Cortegiano (!) - a Kochi o a Goa (non è
chiaro) - abbandonata in un negozio di zolfanelli e sperando di “cercare di
ritirarsi a morir a casa: di che io sono in ardentissimo desiderio… Vederemo se
Iddio mi darà grazia di ricondurmi tra gli amici salvo”.
La grazia non verrà concessa e umanista e mercante non
rivedranno più Firenze, gli amati “sporti di Santa Croce, che fanno quella
bella vista quando e’ si giuoca al calcio e sono le finestre piene di belle
donne”. E l’impresa commerciale - c’è da dirlo? - risulterà in buona parte fallimentare.
Ma l’occhio fiorentino, calibrato da secoli di esperienze mercantili e umaniste,
farà del Sassetti un osservatore acuto e appassionato. Le descrizioni sono di
una precisione e di una freschezza ammirabili. Merito anche del volgare
colloquiale con cui si rivolge ad amici, parenti, granduchi e cardinali, ben
diverso da quello delle sue opere più paludate. Non immaginava che altri, che
noi saremmo potuti entrare così a fondo nel suo quotidiano di fronte a “tanta
diversità”.
Il dominio coloniale portoghese si trova in uno stato
caotico e resiste solo grazie al caos politico dei reami dell’India meridionale - “I cammini per terra sono malsicuri… ogni 4 palme hanno un re” - seguito alla
decadenza dell’impero di Vijayanagara dopo la battaglia di Talikota (1565) e
pervaso da profonda inquietudine per l’espansione da nord dell’impero Moghul
del grande Akbar. In questa condizione di continua instabilità Sassetti si
divide tra riflessioni sulle diverse realtà che lo circondano e piccoli
commerci con cui tirare avanti (si ritroverà addirittura a cercar di piazzare
maglie di ferro per armature in pieno clima tropicale). Nelle parole dello
scrittore c’è profonda ammirazione per il sanscrito, che studia sottolineandone
per primo certe assonanze con le lingue europee (vero e proprio precursore
della filologia indoeuropea), ma anche notevole disappunto, pur provenendo da
una società fortemente classista, per l’implacabile suddivisione in caste: “Una
stessa gente, in una medesima terra, sono tra loro differenti, in tanto che non
si toccono gli uni con gli altri; e i più bassi… vadiano gridando per la via
che sono quivi a fine che i più nobili… gli rispondono, pure gridando, che si
discostino e escano del cammino a pena di ammazzarli”. Di fronte a questi
orrori quotidiani la contraddizione del modus vivendi dei bramini, sacerdoti e
pilastri di questo implacabile ordine sociale (e per questo paragonati
alla “setta di Pittagora”), così bramati dai filosofi occidentali da Pirrone ai
Neoplatonici, vecchio amore della Firenze del Quattrocento (vedi a questo proposito l’episodio dei miei Teatri di guerra dedicato a Plotino, Filosofia in guerra: Colpa e necessità
).
Filosofia in guerra: Colpa e necessità
“Hanno tanto in terrore la morte d’ogni più basso animale, che se alcuna
volta nelle nostre case si abbattino che si ammazzino galline o capretti, o
altre sorte di animali, li ricomperano a danari e dànno lor libertà… La causa
del non mangiar carne, mi diceva un medico bramene, esser per non alterare con
nutrimento tanto potente la specolazione, alla quale tutta quella casta è indiritta,
principalmente dell’aver in orrore la morte d’ogni animale fino a delle serpi e
delle tarantole, e il trapasso dell’animale di una spezie nell’altra”. Sassetti, nonostante platonismo e neoplatonismo, da
fedele cattolico non è per nulla attratto dalla reincarnazione così come, da
studioso di Aristotele, sente fortemente estranea una cultura dove “si hanno a
imparare l’arti e le scienze per detti e per sentenze e non impararle per i
suoi principii”.
Frutti del viaggio
Meglio
quindi ripiegare sulla botanica, frutto dello studio delle memorabili opere di Pietro Andrea Mattioli. Dopotutto il granduca gli
richiedeva di continuo sementi, in particolare di piante medicinali: “Ho per
questo effetto comprato un orto in Goa, dove disegno di mettere fino a un
centinaio di piante delle più nominate in queste parti, ché ve ne sono molte in
predicamento di maravigliose”. Se
l’erudito Discorso sopra il cinnamomo
(ovvero la cannella) potete trovarlo in Wikisource (come anche le prime venti lettere su un totale di trentacinque), più dirette e brillanti
sono altre descrizioni sparse nella corrispondenza. In particolare la Lettera
VI, spedita proprio al granduca Francesco I: “L’ananas mi pare a me la più
gustosa frutta che ci sia; è fatta da una pianta come il carciofo et egli non è
dissimile, se non che tira più a fazione (forma) della pina (pigna): maturo,
getta un odor suavissimo. Il sapore è di fragola e di popone e co ‘l vino
acquista forza grande… Questa pianta è qui forestiera, venuta dal Verzino
(Brasile), e, condottasi in Portogallo, non vi visse”. Piccolo inciso, la
passione per l’ananas si diffuse in tutte le corti europee e la tentazione di
coltivarlo nel nostro continente non si esaurì col XVI secolo: ancora nel 1675
Carlo II d’Inghilterra si faceva ritrarre mentre riceveva il primo ananas fatto
arrivare a maturazione in serra dal giardiniere di fiducia John Rose (cognome
perfetto).
Il quadro di Hendrick Danckerts
Vedi anche Aphra
Behn, George Etherege e il Conte di Rochester: sipario aperto, sipario chiuso
Ma continuiamo con almeno altri due esempi di
botanica “comparata” sempre dalla lettera del Nostro. È la volta di sua maestà
il pepe: “È come la vitalba o come l’ellera (l’edera), sostenendosi sopra altra
pianta, e come l’ellera fa barba per tutto il gambo; il frutto viene a
grappoletti lunghi e ciascun grano ha il suo picciuolino assai lunghetto; la
foglia è simile o non molto differente da quella della piantaggine”. Infine, la
foglia di Betel usata come aromatizzante e blando narcotico in sinergia col
seme di Areca Catechu (volgarmente chiamato “Noce di Betel”), ricco di tannini
che favoriscono salivazione e digestione insieme ad effetti cardiotonici,
azione vermifuga e astringente: “Il betle tanto nominato dà la foglia simile a
quella del pepe (anche il Piper Betle
è una Piperacea) in tanto che non la discernono l’una dall’altra alla vista.
Tutta la gente di queste parti la mangiano ad ogni ora del giorno, rigrumando
come le pecore e come i buoi continuamente. Il suo sapore è forte poco meno che
il pepe e, come questo, ha un austero astringente che tiene la bocca asciutta
e tignela di rosso come se si sputasse sangue. Pigliano costoro una foglia di
quest’erba e ci impiastrano un poco di gesso spento che domandano cianamé e
pigliano un pezzo di quel frutto che chiamano arecca e, fatto un gran boccone
di tutto, se ‘l mettono in bocca e fanno tutto il giorno questo verso”.
Avventure geopolitiche
Eppure la costante attenzione a quanto lo circonda
sembra non bastare più. I progetti per il viaggio di ritorno svaniscono uno
dietro l’altro. Ormai è uno sradicato. Fra le righe spira un’aria di naufragio.
Per questo è forte la sintonia con avventure e disavventure di altri viaggiatori
che incontra, spediti come lui alla volta del quasi ignoto e, diversamente dal
suo destino, latori di complesse missioni diplomatiche. Si tratta di personaggi
che si rifanno in qualche modo a Firenze e, soprattutto, alla cerchia del
cardinale Ferdinando de’ Medici, collaboratore di spicco della visione strategica
di papa Gregorio XIII: prendere contatti con due imperi, quello cristiano di
Etiopia e quello della dinastia safavide persiana, musulmana sciita, in
funzione antiturca (il sultano degli Ottomani era capo supremo dell’Islam
sunnita). Corollario prezioso di questa politica estera quella culturale, che
prevedeva la ricerca di antichi manoscritti della Bibbia per la Typographia
Medicea linguarum externarum del
cardinale, diretta da un altro formidabile viaggiatore erudito come Giovanni
Battista Raimondi, il cui fine, anche questo irrealizzato, era la pubblicazione
di una Bibbia poliglotta nelle sei lingue principali del cristianesimo
orientale: siriaco, armeno, copto, etiope liturgico, arabo e persiano.
I personaggi in questione sono altri due Giovanni
Battisti, rispettivamente Britti e Vecchietti, entrambi nativi di Cosenza (ma
il secondo di nobile famiglia di origine fiorentina) e, come il Sassetti,
singolari figure di una tardo umanesimo sballottato da nuove correnti transoceaniche.
Il primo viene spedito per cercare un contatto diretto
col negus di Etiopia, all’epoca Sarsa Denghel (ma ancora chiamato Prete Gianni
in Europa come ai tempi di Marco Polo). Una vecchia tentazione, visto che ci
avevano già provato i Bizantini all’epoca di Giustiniano spedendo Nonnoso nel
Regno di Axum per chiedere un’alleanza antipersiana (vedi In Biblioteca con Fozio, in Etiopia con Nonnoso).
In Biblioteca con Fozio, in Etiopia con Nonnoso
La strada
scelta dal Britti è tuttavia la peggiore: invece della circumnavigazione
dell’Africa, il passaggio via terra fino a Bassora (un bel rischio per quella
che in fondo era una spia) e poi dal Golfo Persico alla volta di Massaua,
nell’odierna Eritrea. L’operazione non va in porto a causa di un attacco di pirati
da cui il Britti e alcuni marinai si salvano a stento. Scrive il Sassetti:
“Ferito in sei parti, rimasto come morto nella sentina del naviglio… andò a
discrizion del vento e del mare cinque o sei giorni, vivendo a guisa di sorcio…
Condusselo Nostro Signore ad un’isola di Arabi, detta Serri (l’odierna isola
iraniana di Sirri), dove dal Seque (governatore) furono egli e i compagni ben
visti e ricevuti, provveduti d’alcuni tappeti e altre cose necessarie per
rivestirsi”. E il Nostro sottolinea questa generosità da parte di un infedele,
che sosteneva di non poter “far morire coloro che Iddio voleva che mangiassero
delle minestre”, rispetto all’atteggiamento micragnoso che Giovanni Battista
avrebbe trovato presso i cattolicissimi portoghesi nella successiva tappa a
Hormuz. L’isola di Hormuz (anch’essa oggi parte dell’Iran), chiave di volta per
l’ingresso nel Golfo Persico, era infatti controllata dai portoghesi fin dal
1507, aveva resistito a un lungo assedio ottomano nel 1550 e sarebbe caduta in
mano persiana (grazie all’aiuto inglese) solo nel 1662. Da qui approda a Goa
nel 1585: “Venne qua d’Ormus Giovan Battista Britti… miracolosamente”. In modo
meno miracoloso è costretto a restare bloccato un anno a causa dell’ostilità
dei Gesuiti, che non avevano gradito di essere stati estromessi dalla missione
in Etiopia. I suoi progetti sembra fossero di ripartire alla volta della
colonia portoghese di Diu, nell’India occidentale, e da lì verso il Mar Rosso o
il porto di Malindi (Kenya). Ma di questo nuovo azzardo, come della sua vita, a
questo punto si perde ogni traccia.
Il secondo è anche lui un personaggio da film (e il
cinema italiano purtroppo è sempre restio a cercarsi eroi poco noti in casa).
Del Vecchietti figura inoltre, unico caso, un’intera lettera (la trentesima)
nell’epistolario di Filippo, inserita fin dalla prima edizione Le Monnier del
1855. Un altro finito in condizioni precarie a Hormuz, “lasciata la Persia tra
disagi, pericoli e spese”. La sua missione nell’impero safavide, dopo il
passaggio in Egitto per stringere relazioni col patriarca copto di Alessandria,
era capitata nel caotico momento di passaggio fra il regno di Mohammad Khodabanda e quello di suo figlio
Abbas il Grande. Dal primo, quasi cieco e più raffinato poeta che politico, era
riuscito a ottenere una lettera per il nuovo papa Sisto V. Un successo pagato a
caro prezzo: “Ammalato… senza un soldo… ringrazio però Dio che mi trovo in un
paese di Cristiani; e se bene non ci conosco persona alcuna, ho pur trovato un
mercante amico del signor Filippo Sassetti, il quale mi si è offerto. Non so
però quanto questa proferta si estenda ancora: pure credo non mi lascerà
mancare comodità fino in Goa, dov’è detto Sassetti”. Era comunque riuscito a
salvare “una ragionevole quantità di libri”, antichi codici nelle varie lingue
mediorientali per la biblioteca del cardinale. Una vera delizia, anche più dei
frutti esotici, per il Nostro, che ancora nel gennaio del 1588 parla del suo
compagno di accademie sul punto di ripartire dall’India: “Il signor
Giambattista Vecchietti, che qua si ritrova… passò d’Egitto in Soria (Siria), e
per l’Armenia n’andò in Persia, con più felice successo di quell’altro
gentiluomo (il Britti) che il signor Cardinale de’ Medici mandava in Etiopia… e
viensene adesso, e, conducendolo Nostro Signore a salvamento, darà nuovi
particolari di quelle terre e costumi di quelle genti, ché, per essersi fatto
padrone di quella lingua, lo potrà fare molto più a pieno di me”.
Non sarà
certo l’ultima missione del Vecchietti, che continuerà a fare la spola fra
Occidente e Oriente e a creare in Roma un circolo intellettuale in cui
incontrerà, nel segno del neoplatonismo del conterraneo Bernardino Telesio,
personaggi del calibro del Tasso, di Gabriello Chiabrera e, di sfuggita, il giovane Tommaso Campanella. In compagnia del fratello Girolamo, altro infaticabile
viaggiatore (era stato lui a recuperare il più antico manoscritto del Libro dei re di Firdusi, oggi alla Biblioteca
Nazionale di Firenze), nel 1600 raggiungerà quasi cinquantenne ancora una volta
la corte di Abbas il Grande, spingendosi poi nel 1603 fino ad Agra, capitale imperatore
moghul Akbar, che, nel segno ecumenico della ricerca di una sua personale religione
per unire tutte le fedi dell’India, anche se sempre di matrice fondante
islamica, richiederà copie del Pentateuco, dei Vangeli e
dei Salmi. Il
Vecchietti sopravviverà inoltre ai pirati barbareschi che, quasi alla fine del
viaggio di ritorno e per ben due volte, lo faranno per prigioniero e schiavo.
Riscattato, morirà nel suo letto a Napoli alla fine del 1619.
Vent’anni prima, giunta a Firenze la notizia della morte del Sassetti, era
stato proprio lui, l’8 febbraio 1590, a tenerne l’elogio funebre all’Accademia
Fiorentina.
Sic
transit. Un transire che non era approdato nemmeno ai cinquant’anni.
Prosa a poesia
Commento musicale Filipe de Magalhães, Commissa mea pavesco
Le peripezie commerciali del nostro prosatore
ricordano le traversie militari di un poeta come Luís de Camões, il Virgilio portoghese delle Lusiadi. E li accomuna la cattiva sorte:
“Nel mar
tanto tormento e tanto danno
e la morte
vicina ad ogni passo:
in terra
tanta ostilità ed inganno,
tante
contrarietà, tanto sconquasso!” (Lusiadi
I, 106, trad. Riccardo Averini, Mursia).
Come scrive alla sorella, Sassetti è diventato “uomo fantastico e di poca conversazione”. Meglio allora
fantasticare, far sognare, piuttosto che il mercante fallito, l’umanista
assetato di sempre nuovi orizzonti.
Ancora Camões:
“Vedi su
vaste zone i differenti
Nomi di
mille genti sconosciute.” (Lusiadi X, 126)
Ancora il
cardinale Ferdinando de’ Medici, destinatario della lettera XXVII, 10 febbraio
1586: “Se Iddio mi darà vita, partirmi di qua dentro di due anni e mezzo per
ritornarmene a casa. Ma nel ritorno vorrei concedere al senso la sperienza di
quello che ci è di rimanente;” - è Ulisse, l’Ulisse dell’amato Dante che parla
in lui: “d’i nostri sensi ch’è del rimanente/ non vogliate negar l'esperïenza” -
“però che partirsi di qui senza vedere Malacca, Molucche e la Cina mi parrebbe
che fusse d’una cena molto splendida non gustarne se non el pane che si mangia
comunemente ogni giorno. El desiderio mio, pertanto, sarebbe… d’intendere…
qualche cosa con più fondamento di quello che io veggo non sapersene per le
relazioni che hanno datone altri… Dalla Cina vorrei passare a Manila… e perché
di detto luogo va ciascuno anno una nave per Nuova Spagna (America), vorrei là
passare a vedere quell’altre Indie, e fatta quivi stanza di due anni,
tornarmene alle nostre parti: corso di tempo tutto di 7 o 8 anni… se Nostro
Signore Iddio non disporrà altra cosa, ancora io sia già di 46 anni e di
statura di corpo che amerebbe meglio el riposo che pensieri di nuovi travagli.
Ma considerando quanto diletto mi abbia recato el vedere questa parte, mi
determino di antiporre questo gusto ad ogni maggior quiete”.
Speranze,
illusioni, ma sempre in grande stile, lucide, a occhi bene aperti: “Da Malacca
per il Levante (i portoghesi) abitano
un’isola che è nella foce del rio della Cina, che si chiama Macao, e vi
sta un vescovo, ma non vi è altra fortezza: ché il re della Cina non è un
coglione, e due o tre volte ha minacciato di cacciarnegli… Nel Giapan non hanno
niente se non amistà: là comandano i padri Gesuiti, fanno le guerre, e pongono
i re in istato, e altre cose. La fede di quell’isola è di Gentili (pagani),
tutta bestialità. La gente è acutissima, bene inclinata, con molto onore, e,
come dicono i Portoghesi, tratao verdade”.
Macao non tornerà cinese che
nel 1999 e i giapponesi, forse perché “acutissimi” - ma solo più di cinquant’anni
dopo (grazie a discordie fra i vari ordini religiosi cattolici e al
fondamentale aiuto militare dei protestanti olandesi) - eviteranno lo stesso
destino delle Filippine.
Paure o
chimere che fossero, questi erano i dati di fatto della geopolitica cattolica
della fine del XVI secolo.
Altro dato
concreto: l’uomo muore. Una banale malattia, una delle tante, compagne di
viaggio di colonizzatori e colonizzati, chiude a quegli occhi ogni nuova
prospettiva oceanica il 3 settembre 1588. Da soli quattro mesi era padre di un
figlio avuto da una schiava dal nome soave, Grazia Bengala. E dopo Assetato e
Grazia ancora un nome inappagato, per il figlio: Ventura. Morirà a soli due
anni e anche della madre schiava rimasta
schiava si perderà ogni traccia.
“Gli anni
stan declinando: la stagione
che mi
sovrasta è già l’autunno triste:
mi
raffredda del Fato l’avversione;
l’ingegno
non si esalta e non persiste,
e per di
più m’avvia la delusione
verso
l’oblio di ciò che al mondo esiste” (Lusiadi, X, 9).
Approdi contemporanei
Nehru libera una colomba a metà anni '50, Indira Gandhi nel 1967 e il primo satellite indiano (Aryabhata) lanciato nel 1975
Ho ripreso in mano la mia vecchia cara edizione
Universale Einaudi DOC 1961 dopo la rilettura di Una civiltà ferita: l’India di Naipaul. Come lui sono stato sempre attratto più dalla storia che dalla spiritualità o, peggio, dall’esotismo
dell’India. È in un simile contesto che, usando le parole di Sassetti, “mi
maraviglio della maraviglia” di realtà fisica e politica del subcontinente
asiatico. È in questa prospettiva che apprezzo personaggi come il Mahatma
Gandhi, Jawaharlal Nehru o sua figlia Indira Gandhi - formidabile protagonista del libro di Naipul durante il discutibile ma
certamente coraggioso Stato di Emergenza del 1975: ne riparleremo - piuttosto
che certe passioni per la religione induista decontestualizzata o, peggio, per
il suo surrogato oggi al potere.
“Il dharma è creativo o paralizzante a
seconda del tipo di civiltà, a seconda di quel che ci si aspetta dagli uomini.
Non può essere altrimenti. La qualità di una fede non è una costante, dipende
dalla qualità degli uomini che la professano.” (V. S. Naipaul, Una civiltà ferita: l’India, trad.
Marcella Dellatorre, Adelphi, 1997).
È stato
certamente creativo per l’attuale primo ministro del Portogallo, il socialista António Costa, premier dal 2015, originario proprio di Goa (una bella rivincita per l’ex
colonia). Il padre infatti, lo scrittore portoghese-mozambicano Orlando da Costa, era di padre indiano e madre francese (oltre che cugino del poeta
rivoluzionario ed ex governatore della Banca del Mozambico Sérgio Vieira).
Con la moglie Maria Antónia Palla,
tuttora vivente e infaticabile attivista per i diritti delle donne, un ottimo esempio
di coppia combattente contro il regime salazarista e ogni sorta di razzismo,
passato e presente.
Simbiosi e sintesi che faccio mie anche se
avrebbe fatto rizzare qualche capello al Sassetti. Ma io scrivo oggi e ammiro
la sua esperienza proprio perché la inserisco in un contesto storico preciso, alieno
come sono da ogni nostalgia passatista. Perciò consiglio in aggiunta di fare bene
attenzione a non reppresentarselo come nell’immagine della pur buona pagina
di Wikipedia (anche se consiglio quella della Treccani). L’uomo che vedete nel quadro di un bravo pittore polacco attivo
in Olanda come Krzysztof Lubieniecki,
nonostante il suo abituale e pregevole realismo, è tutto di fantasia. Dal parruccone in giù veste una moda posteriore di un secolo alla sua morte, quando lo stesso Granducato si avviava a una mesta
decadenza.
Di Filippo Sassetti non resta alcun ritratto
contemporaneo. Eppure l’uomo è lì, sempre inquieto fra righe d’inchiostro e poi caratteri a stampa. Il mercante nato morto per la sua epoca, l’umanista
ancora vivo per noi.
Luca Traini