#IoRestoaCasa ma viaggio
nella storia delle civiltà
africane. Primo amore: il Regno del Congo (oggi soprattutto Angola del nord), conosciuto da
piccolo nella meravigliosa enciclopedia I
Popoli della Terra, da ragazzo su Africa di Hosea Jaffe, quindi nei libri del grande Basil Davidson e nel
saggio letto e riletto di Randles. Fino alla recentissima biografia dello
storico del Congo Brazzaville A.
F. Nganga su Dom Henrique Ne Kinu a Mvemba (1495-1531), consacrato da vescovo della diocesi di Utica
(odierna Tunisia) nel 1518 da papa
Leone X Medici e caso unico fino a Joseph Kiwanuka, vescovo di Masaka
(Uganda) nel 1939.
Henrique, figlio del grande re
(“manikongo”) Dom Afonso I (Mani Sunda) e nipote di João I (Nzinga a
Nkuwu), che aveva scelto di convertirsi (spontaneamente) al cristianesimo dopo l’incontro – è bene
sottolinearlo: alla pari – con navigatori e stato portoghese. Sarebbe stato
bello vedere il vescovo Henrique partecipare al Concilio di Trento. Purtroppo
morì a soli 36 anni nel 1531, quando le
nuove strategie pastorali avevano già iniziato a emarginare gli africani
dal sacerdozio.
Il rapporto con la Chiesa di Roma fu comunque più proficuo che col Portogallo. D’altro canto la
scelta di diventare cristiani era stata anche, se non soprattutto, politica.
C’era tutta la magia di nuove tecnologie e prodotti che approdavano dall’oceano,
un tempo ritenuto sfera del sacro, dimora degli spiriti di antenati che si
incarnavano in corpi bianchi... E non mi riferisco solo alle armi arrivate con Vele e cannoni (titolo di un libro
fondamentale di Carlo M. Cipolla), ma anche a strumenti altrettanto formidabili
come libri e scrittura. Afonso I, un gigante della politica dell’epoca, si
dedicò subito anima e corpo alla fondazione di scuole per i figli della classe
dirigente e, contrariamente all’Europa, l’insegnamento fu aperto anche alle donne
(una delle sue sorelle fu apprezzata professoressa). Il corpo docente era però
principalmente composto da religiosi europei e continua era la richiesta di
nuovi maestri per avere classi meno numerose (proposta lungimirante sempre
valida, anche da noi, oggi). Tuttavia, col passare degli anni, appelli come
questo e altri finalizzati a un maggior apporto di specialisti nei campi delle
più diverse tecnologie rimasero lettera morta alla corte lusitana. In un’Europa
che ancora non aveva elaborato teorie di superiorità culturale, ma soltanto
cultuale, si faceva strada il timore per la grande intraprendenza del manikongo
e del suo popolo. Come ha sottolineato Randles: “Le lettere di Dom Afonso
mettono in luce la delusione di un uomo che aveva aderito di tutto cuore alla
civiltà europea, che credeva ancora alla buona fede e alla generosità di suo
‘fratello’ – è la parola da lui usata
nel rivolgersi al re del Portogallo – ma che si trovava profondamente sorpreso
e rattristato dal comportamento interessato, disinvolto, vedi insolente, dei
portoghesi residenti in Congo”.
Afonso I, in una lettera del 1516
al re del Portogallo Manuel I, era stato descritto in termini entusiasti:
“Sembra che non sia un uomo bensì un angelo […] conosce meglio di noi i Profeti
e il Vangelo e tutte le vite dei santi e tutte le cose di nostra Santa Madre
Chiesa […] poiché non fa che studiare e spesse volte gli succede di
addormentarsi sui suoi libri e sovente dimentica di mangiare e bere per parlare
delle cose di Nostro Signore”.
I resti della Cattedrale di São Salvador (foto di Madjey Fernandez, 2013)
Soltanto dieci anni dopo il re
congolese già denunciava con forza il coinvolgimento dei portoghesi nella
tratta degli schiavi, anche a danno dei suoi sudditi: “Ogni giorno gli schiavisti rapiscono membri del Nostro popolo, figli di
questa terra, figli dei Nostri nobili e vassalli, persino persone della Nostra famiglia.
[…] Necessitiamo nel Nostro regno solo di sacerdoti e insegnanti, non di mercanti, a
meno che non siano di vino e di farina per il Nostro popolo. È Nostra volontà
che questo regno non sia luogo di commercio o trasporto degli schiavi”.
Arrivati al 1540, poi, sono certe
le trame dei lusitani dietro il tentativo di assassinare il loro ex “angelo”
mentre assiste a una funzione religiosa. Dato che, come in massima parte dei
regni africani, non era prevista la successione dinastica e ogni passaggio di
poteri avveniva in modo convulso, il re intravvede forte il rischio che, con la
sua scomparsa, “possano imporre un re di loro scelta”.
Infatti alla sua morte, nel 1543, il
Congo piomba nel caos: lotte di successione si alternano a regni brevi e deboli.
Il tutto aggravato dal trauma dell’invasione particolarmente feroce di un
popolo nomade (e cannibale) di recente costituzione: gli Jaga. Soltanto l’aiuto
di un forte contingente portoghese permette al re Alvaro I, nel 1571, di
evitare il peggio. Il prezzo da pagare è il via libera all’occupazione lusitana
della provincia di Angola, dove viene fondata la città di Luanda, avamposto
della futura colonizzazione. Il regno inoltre è preda anche di continue spinte
centrifughe da parte dei governatori delle province, una specie di feudalizzazione
riconosciuta dal potere centrale con l’attribuzione di nuovi titoli nobiliari
di stampo europeo come “conte”, “duca”, “marchese”. Nei tre quadri attribuiti
al pittore olandese Albert Eckhout (1610-1665) o, più di recente, ai
contemporanei artisti tedeschi Jaspar e Jeronimus Beckx troviamo al centro
proprio il cugino di uno di questi nuovi “conti”, quello della provincia del
Soyo: Dom Miguel De Castro, ambasciatore
in Olanda nel 1643, fra i servitori Diego Bemba e Pedro Sunda (e ritratti e
psicologie di questi ultimi due, fa piacere dirlo, sono di livello decisamente
superiore).
Alle continue pretese di Lisbona Alvaro
I cerca un contraltare nella Chiesa, ribattezzando São Salvador la capitale Mbanza Congo (oggi Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO) e chiedendone il
riconoscimento come diocesi. Una consacrazione che arriverà non solo col
ritardo di un quarto di secolo (1596), ma che vedrà i vescovi, questa volta
tutti rigidamente europei, che preferiranno risiedere, guarda caso, a Luanda,
rifiutandosi per di più di consacrare sacerdoti indigeni (condotta riprovevole
che provocherà proteste sempre più diffuse che sfoceranno a inizio XVIII secolo
nell’eroica rivolta di Kimpa Vita, battezzata Dona Beatrix, la Giovanna d’Arco
del Congo).
Era finita da un pezzo la
“fratellanza” che si scambiavano per via epistolare Afonso e Manuel. Anche se
ne I Lusiadi di Luís de Camões leggiamo ancora “Il gran
regno del Congo ivi si estende,/ cui demmo già la religion di Cristo” (V, 13),
si diffonde sempre più tra i portoghesi in Africa l’idea che in fondo i
congolesi non siano altro che “pagani” come le altre popolazioni (la scusa era
soprattutto la persistente pratica della poligamia). Eccoli allora preferire i
cannibali Jaga come compagni di caccia di nuovi schiavi, il cui traffico
aumenta in modo esponenziale. Altro che stereotipi da certo vecchio cinema
esotico, si tratta di una triste abitudine, quella di usare popolazioni
divenute particolarmente feroci e bellicose per tutta una serie di circostanze
contro altre più pacifiche, in particolare nomadi contro sedentari, che poi
diventerà tipica di tutte le potenze coloniali e di certi loro apprendisti
locali dopo l’indipendenza (parlo del buon numero di dittatori sanguinari coccolati
soprattutto dagli occidentali nella seconda metà del ‘900 e oltre).
Non che i regimi politici africani
originali fossero esenti da forme consolidate e spesso estreme di violenza,
tutt’altro, ma l’apocalisse provocata nell’Africa Nera dagli europei finisce
per metterle in secondo piano. Il rapporto vantaggi-svantaggi nell’arco dei
secoli finisce per pendere sempre più verso il basso. Ma la resistenza è
tenace. “Kulula mpanda”, “Togliere questa maledizione”, pregava il manikongo
quando veniva incoronato e non saranno poche le volte che i congolesi
vinceranno in battaglia portoghesi e cannibali. E’ il caso del re Pedro II e,
soprattutto, dell’indomabile Nzinga (o Anna I), regina dei limitrofi stati di
Ndongo e Matamba, certo feroce e spietata ma contro nemici feroci e spietati,
oggi eroina del moderno stato angolano. L’arrivo degli olandesi, infine,
permette a un altro grande congolese, Garcia II (re dal 1641 al 1661), di
ribaltare le alleanze (prima schierandosi con gli stessi olandesi e poi con gli
spagnoli) e di assicurare al proprio dominio gli ultimi anni di grandezza. Le
ragioni del suo risentimento contro i portoghesi (esclusi i gesuiti, che
avevano ripetutamente condannato le scorrerie dei loro connazionali) è ben
chiarito da una lettera del 1643: “Il materiale di scambio (dei portoghesi)
sono degli schiavi, che non sono né oro né tessuto, bensì esseri umani. […] La
nostra ingenuità ha consentito l’apparizione di tanti mali nei nostri regni […]
L’imparità di armi ci ha fatto perdere tutto, poiché di fronte alla forza non
c’è diritto che tenga. […] La mia volontà è che le mie terre siano
indipendenti. E’ mia ferma intenzione, e dovessi anche rimanere fulminato, morirò
per liberare ciò che mi appartiene”.
Ancora una volta si ricerca l’aiuto
della chiesa cattolica. Già nel 1604 c’era stata la coraggiosa ambasceria
guidata da Manuel Ne Vunda, inviato da Alvaro II presso la Santa Sede.
Raggiunta a ranghi decimati, dopo mille peripezie, solo nel 1608. Giusto in
tempo perché il delegato, ormai in agonia, morisse dopo aver ricevuto la visita
di papa Paolo V al capezzale. Successivamente ritratto in un busto scolpito da
Stefano Maderno (con l’aiuto dell’artista Francesco Caporale), in un quadro di Raffaello Schiaminossi e in un affresco
del Taschi nella Sala dei Corazzieri al Quirinale, il nunzio fu sepolto nella
basilica di Santa Maria Maggiore. Risultati pratici oltre la gloria: nessuno.
Per questo Garcia II ci riprova, nel 1648, spedendo una missione di frati
cappuccini, ormai presenza maggioritaria in Congo, alla volta di papa Innocenzo
X, perché avvalli con un decreto la sua fondamentale riforma della successione
al regno in senso dinastico. Il papa non trova il coraggio di contrastare gli
interessi dei portoghesi, ben felici di approfittare degli interregni caotici
della monarchia elettiva, e si limita a spedire una corona dorata alla volta di
São Salvador. La profonda delusione del
sovrano, anche se alla lunga non minerà la sua fiducia (tutto sommato ben
riposta) nei cappuccini, diventa però esemplare del senso di rabbia e abbandono
a se stessi dei congolesi di fronte alle continue provocazioni dei portoghesi
di Luanda.
Albert Eckhout, Ritratto di Garcia II (1641)
Dopo la morte di Garcia II la
situazione precipita e si giunge allo scontro, che avviene a Ulanga, presso
Ambuila, il 29 ottobre 1665. La battaglia è durissima (nell’esercito congolese
combattono anche diversi europei residenti a São Salvador), ma alla fine l’artiglieria portoghese ha la meglio. Per il
Congo è una catastrofe: muoiono il re Antonio I, quattrocento nobili e cinquemila
sudditi. Orrore nell’orrore: la testa del re viene portata in trionfo a Luanda. Il
regno non viene invaso solo per l’opposizione della corona portoghese, spesso
in contrasto con la condotta avventuristica dei coloni d’oltremare e all’epoca
stremata dalla “Guerra di restaurazione” con la Spagna (che terminerà solo nel
1668).
Tuttavia il 1665 rappresenta un
punto di non ritorno per il regno africano. La crisi diventa irreversibile. Anche
se agli inizi del XVIII secolo Pedro IV riesce a ristabilire una qualche forma
di autorità, lo stato è ormai una pallida ombra del passato. Occorreranno,
però, ancora più di due secoli prima che i portoghesi dichiarino il controllo
di tutto l’odierno Angola, agli inizi del ‘900. Perché, è bene ribadirlo,
nonostante gli orrori dello schiavismo e le nefandezze della successiva
ideologia razzista, le potenze coloniali europee riusciranno a superare i
possedimenti costieri e a occupare i territori interni dell’Africa solo a
Seconda Rivoluzione Industriale avanzata. La resistenza degli africani fu lunga
e tenace.
Il regno viene formalmente abolito nel 1914. L’ultimo a dichiararsi re
del Congo muore nel 1958, quando ormai la lotta di liberazione è da tempo in
ben altre mani. Una libertà pagata a carissimo prezzo e con enorme coraggio.
Com’è scritto, scolpito nella poesia Sanguinanti e germoglianti del primo
presidente dell’Angola libero (dal 1975 al ’79), Agostinho Neto.
“Noi
Dell’Africa immensa
Al di là del tradimento degli uomini
Attraverso foreste maestose invincibili
Attraverso il fluire della vita
Ansiosa veemente copiosa nei fiumi ruggenti
Per il suono armonioso di marimbe in sordina
Per gli sguardi gioventù delle folle
Folle di braccia di ansia di speranza”.
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