Nel 1840 il Re Carlo Alberto invitò gli scienziati italiani a convegno nella sua capitale.
A richiesta del suo più dotato analista, portai con me i progetti della Macchina Analitica.
Questi furono esaminati a fondo e la loro precisione conosciuta dai più eccellenti figli d'Italia.
Sono debitore verso il Re, vostro padre, per il primo riconoscimento pubblico e ufficiale
di questa invenzione.Sono felice a questo punto di esprimere il mio profondo senso di cortesia
a suo figlio, il Sovrano dell'Italia unita, il Paese di Archimede e Galileo.
Charles Babbage, professore di matematica a
Cambridge nella cattedra che era stata di Newton e sarebbe diventata di
Hawking, in un dagherrotipo del 1847, fra i ritratti del suo amico, il re di Sardegna
Carlo Alberto, e del figlio, Vittorio Emanuele II re d’Italia, cui dedicò le
memorie. La sua Macchina Analitica fra queste e il romanzo che l’ha fatto
diventare anche eroe del cyberpunk. Sopra, le Notazioni di Luigi Menabrea sull’invenzione, pubblicate due anni
dopo averlo conosciuto al secondo di quei Congressi degli Scienziati Italiani
così importanti per il nostro Risorgimento, quello di Torino (1840),
organizzato dall’astronomo Giovanni Plana, inventore a sua volta di un altro
antenato, più remoto, del nostro computer: il Calendario Meccanico Universale. Fra
il suo ritratto di militare che, caso eccezionale per un grande scienziato
(innovatore), sarebbe diventato presidente del consiglio (ma conservatore).
E Ada Lovelace (madrina di Neoludica),
altro genio della scienza inglese dell’Ottocento, di cui vediamo le annotazioni
che la portarono a teorizzare l’antenato del software.
“Fu durante le riunioni al congresso di Torino che
il mio assai stimato amico, il signor Menabrea, raccolse materiale per quella
lucida e ammirabile descrizione che pubblicò nella Bibliotèque Universelle di Ginevra, nell’ottobre del 1842. […] La
compianta contessa di Lovelace mi informò che aveva tradotto le memorie di
Menabrea. […] Allora suggerii che aggiungesse qualche annotazione alle memorie
di Menabrea, un’idea che immediatamente fece sua. Noi discutemmo insieme sulle
varie illustrazioni che si potevano introdurre; io ne suggerii alcune, ma la
scelta fu interamente della contessa. Così fu anche il lavoro algebrico sui
differenti problemi […]. Tale lavoro ella mi inviò per una correzione, avendo
scoperto un grave errore che avevo commesso nel procedimento. Le annotazioni
della contessa di Lovelace permettono di allungare di circa 3 volte la
lunghezza della memoria originale. L’autrice è entrata con competenza in quasi
tutte le questioni più difficili e astratte riferite alla Macchina Analitica.” (C.
Babbage, Passaggi dalla vita di uno
scienziato, introduzione di Vittorio Marchis, a cura di Andrea Villa, UTET, 2007).
Quello che stupisce un italiano della vita di
Babbage non è tanto l’amore verso il nostro Paese, caratteristico di tanti
intellettuali inglesi – dal Medioevo con l’ammirazione di Chaucer per
Boccaccio, al Rinascimento col petrarchismo di Philip Sidney fino ad arrivare
alle visite in massa al nostro patrimonio artistico durante il Gran Tour -
quanto la comprensione e il successo di pubblico informato per la sua
tecnologia visionaria nella nostra penisola (che tuttavia non aveva i mezzi
economici per metterla in pratica). In patria, nella patria della Prima
Rivoluzione Industriale al gran galoppo verso la Seconda, Babbage ebbe un successo
riconosciuto soprattutto in gioventù e come accademico: “Tenni l’incarico della
cattedra di Newton per pochi anni, e ancora provo profonda gratitudine per l’onore
che l’Università mi ha conferito – il solo onore che ho mai ricevuto nel mio
Paese”. Il tanto decantato pragmatismo isolano e, giusto per fare un esempio,
quello dei commissari della Grande Esposizione di Londra del 1862 relegò la sua
Macchina Analitica “in un piccolo buco in un angolo scuro, dove poteva essere
vista, con grande difficoltà, da sei persone alla volta” (cosa tristissima, ve
lo dice un esperto in fatto di fiere). Il tutto in un clima di favoritismi e
spese inutili (e forse questo ci ricorda qualcosa). Alla faccia della generosità
e del grande desiderio di creare e condividere un linguaggio universale che
aveva caratterizzato l’attività dell’uomo di scienza fin da quando era ragazzo
e si appassionava allo studio delle Istituzioni
analitiche della nostra Maria Gaetana Agnesi.
Si consolerà citando il poema di Byron, padre
fugace di Ada Lovelace, La profezia di
Dante: “L’uomo è ingiusto e il tempo è galantomo”. Babbage infatti fu uomo
poliedrico e di grandi letture, non solo in campo scientifico. Amante dell’arte
(il padre aveva una piccola collezione) e della musica, soprattutto per organo
(erano gli anni della riscoperta di Bach da parte di Mendelssohn). La sua
sensibilità, connotata da un cristianesimo decisamente progressista, lo portò a
riconoscere in grande anticipo sui tempi anche l’intelligenza degli animali,
anzi, la loro esistenza intellettuale: “L’uomo possiede sorgenti di conoscenza
attraverso i sensi. Egli personalmente pensa a se stesso come la più alta opera
dell’Architetto Altissimo; ma è possibile che sia la più bassa. Se altri
animali possiedono sensi di una natura differente dalla nostra, sarebbe
possibile che noi fossimo appena a conoscenza del fatto. Già quegli animali,
avendo altre forme di informazione e di piacere potrebbero, sebbene sdegnati da
noi, provar piacere di un’esistenza corporea e anche intellettuale, assai più
elevata della nostra”.
Non potevo non inserire il mio adorato Elvis
Fu anche, da bravo inglese, un appassionato
sportivo: “Ero assai appassionato di sport nautici, non della fatica manuale
del canottaggio, ma della più intellettuale arte del veleggiare”. D’altronde la
sfida canonica fra canottieri di Cambridge e Oxford sarebbe iniziata ben dopo i
suoi studi universitari.
Ma, tornando all’Italia, sono memorabili le pagine
dei suoi incontri con Carlo Alberto, che si dimostrava molto meno “re tentenna”
in campo scientifico di quanto non lo fosse in politica. Nacque una sincera
amicizia che riuscì a vincere la timidezza di entrambi, specie quella
patologica del monarca (“sperimentai su me stesso la miseria di quella
afflizione – la timidezza – e provai come assai più doloroso può
inevitabilmente diventare quando ciò tocca in sorte a una persona posta nel
rango più elevato”). Con quel re “notevolmente alto”, sempre vestito da
militare e con “una tale espressione di contegno” discusse approfonditamente
soprattutto sulle prime applicazioni dell’elettricità e sul telegrafo elettrico,
suscitando uno dei rari momenti di entusiasmo mai provati dal sovrano. Con i
suoi strumenti scientifici Babbage riuscì anche ad appassionare i giovani
principi. Ancora più simpatico-simpatetico il secondo incontro, quando il
matematico recò in dono alla regina un ritratto in seta di Jacquard (il cui
telaio meccanico fu grande fonte di ispirazione per le prime macchine
computazionali). L’apertura della scatola provocò volo e caduta di un “mucchio
di fogli di carta argentata della più eterea apparenza”. Segue la scena dell’inglese
e dell’italiano in ginocchio a raccogliere quegli “angeli caduti”: “Sentii un
ostacolo che si presentò al mio piede sinistro. Guardandomi con attenzione
percepii che il calcagno di sua maestà era entrato in contatto con il dito del
piede dello scienziato. Un sorriso comico e gentile si irradiò sul volto del
re, mentre un incontenibile ma non irriverente sorriso illuminava io mio
volto. Una volta che l’intera armata di
farfalle fu infine catturata e l’incisione rimessa a posto, il re iniziò una
conversazione con me intorno a vari soggetti. Il processo di produzione del
vino divenne allora soggetto”. Sarà stato un caso? Fatto sta che una settimana
dopo il buongustaio Charles era a Racconigi a seguire le procedure di vendemmia
in “uno dei più bei domini reali”. In procinto di ripartire alla volta di
Ginevra un amico ben inserito a corte gli rammentò l’eccezionalità dell’accoglienza
del sovrano: “Il re ha fatto per te tre cose, che sono inusuali. Ha stretto la
tua mano. Ti ha chiesto di stare seduto durante l’udienza. Ti ha permesso di
fare un regalo alla regina. Quest’ultima è la più insolita di tutte”.
Ma nel cuore di Babbage non restò solo l’esperienza
piemontese. Visitò con grande piacere e soddisfazione anche Bologna, Firenze e
Roma (del resto amava molto viaggiare e visitò Parigi, Vienna e Berlino
spingendosi fino a Mosca). Nel Regno delle Due Sicilie, poi, dopo essere stato
suggestionato dall’analogia fra un vaso sanguigno e “la superficie che a quel
tempo formava il fondo del grande cratere del Vesuvio”, trova a Pozzuoli il suo
monumento d’arte d’elezione, che lo spinge a pubblicare uno studio sul
bradisismo, Observations on the Temple of
Serapis at Pozzuoli: “Durante un parte della mia permanenza a Napoli la mia
attenzione fu concentrata su quella che nella mia opinione è la più notevole
costruzione sulla faccia della terra, il Tempio di Serapide a Pozzuoli. […] Il
risultato di questa perizia mi condusse negli anni seguenti a spiegare i vari
innalzamenti e depressioni di parte della superficie della terra, in diversi
periodi di tempo, con una teoria che ho chiamato la teoria delle superfici
isotermiche terrestri”.
Di particolare interesse per noi di Neoludica (parlo
dei me e della co-curatrice Debora Ferrari), quando abbiamo portato la nostra mostra alla Biennale di Venezia, il paragrafo che segue questa teoria geologica,
dedicato ai Giochi di abilità: “Presto
arrivai alla dimostrazione che ogni gioco di abilità è suscettibile di essere
giocato da un automa”. Ci sarebbe piaciuto avere al nostro fianco il grande
scienziato che aveva profetizzato una macchina per giocare a Tris (computer
costruito proprio nei laboratori dell’Università di Cambridge nel 1952) e certo
gli avremmo dedicato molto più spazio che all’Expo del 1862.
Dopotutto era stato anche tra i primi ad usare il
termine “avatar” in un racconto-visione presente nelle memorie e aveva in mente
progetti che oggi definiremmo multimediali per teatro e danza.
Insomma, idea e invenzione di una grande Macchina in
grado di connettere intelligenza umana e artificiale in vista di una più ampia
e poliedrica visione della realtà non potevano che sorgere da un ingegno, da un
genio eclettico tutt’altro che macchinoso, ma tecnologico nel senso profondo
del termine.