venerdì 8 gennaio 2021

LA FILOSOFIA DI BERKELEY E LA REALTÀ VIRTUALE


Ho ripreso in mano la filosofia impalpabile di Berkeley, così remota dal mio pensiero, mentre riflettevo sulla Realtà Virtuale per Neoludica. Le realtà smaterializzate in cui stiamo fluttuando vedo spesso assumere le maschere, le interfacce del suo “essere è essere percepito” così come l’energia della realitas entitiva di Giordano Bruno o dell’existiturire di Leibniz. Dietro lo schermo del computer avverto con forza sempre aumentata tutta quella serie di “realtà che hanno sete di esistere” (Gadamer) e che, nell’essere percepite come reali, mettono in gioco – in video-gioco – tutta la loro potenza.

Lo schermo delle nostre rappresentazioni ci separa davvero – verrebbe voglia di dire “ci protegge” – da esse? Quanto è sempre più forte oggi il desiderio di feedback con le nostre immagini? Somigliamo sempre di più ai nostri avatar, che sembrano vivere una vita migliore di quella concreta e sono oggetto di tanto amore e cura continua. Perché di norma vogliamo essere percepiti meglio di quello che crediamo di essere e questa percezione di noi che tanto desideriamo si sta trasformando progressivamente o esponenzialmente nel nostro essere. La comunità degli internauti è sempre più berkeleyana.


Berkeley e il suo entourage (The Bermuda Group) in un dipinto di J. Smybert (dal 1728 al 1739)

Dopotutto lo stesso filosofo dalla sua Irlanda cercò di navigare alla volta delle Bermuda - suggerito dalla Tempesta shakespeariana? - per sperimentarvi la costruzione di un’università (parliamo del 1728) e, anche se non le raggiunse, restò nel Rhode Island a cercare di concretizzare i suoi ideali fino al 1731, trapiantando filosofia e forse architettura palladiana per i futuri Stati Uniti.
Questo tentativo di approdo all’essere che è tale in quanto percepito mi rammenta, inoltre, il nostro rapporto con la diversa dimensione del mondo quantistico, che sembra emergere ed essere compresa solo in presenza della percezione di un osservatore. Questa rappresentazione del mondo remoto e presente dei quanti condiziona ogni giorno di più, consciamente o meno, l’approccio con le nostre realtà empiriche, ogni volta conquistate a fatica (e non abbiamo ancora fatto davvero i conti con la relatività di Einstein), quanto se non più della Rivoluzione Copernicana di mezzo millennio fa.
Tutte queste considerazioni affiorano dalla lettura di Siris, ovvero, “Catena”, il libro a me più caro di Berkeley, così ingenuo in apparenza e in realtà sottilissimo, che avvinghia progressivamente il lettore passando da una prima parte estremamente colorita e pragmatica, direi quasi teatrale, a una seconda dove tutto sfuma dietro il sipario nell’invisibile.



Delle 160 pagine dell’edizione UTET più di un terzo sono dedicate a quella che il filosofo considerava una grande invenzione medica, l’”acqua di catrame”, panacea di più o meno tutti i mali e con cui curava, letteralmente a secchiate, famiglia, amici e bisognosi (Berkeley, oltre che uomo generoso, era anche vescovo anglicano). Questo favoloso intruglio - basato su un distillato di pino composto da una parte resinosa e una acida, mescolato e poi lasciato riposare in abbondante acqua - aveva avuto origine nel Nuovo Mondo a lui così caro, in Carolina del Sud (probabilmente escogitato dai nativi americani e poi fatto proprio dai coloni per combattere un’epidemia di vaiolo nel 1739), ebbe un discreto successo nel Secolo dei Lumi per essere poi discreditato nell’Ottocento. Cosi Charles Dickens ricordava per l’ultima volta trionfi e aromi di un beverone definito da qualcuno “dio potabile”: ”Si riponeva una fiducia proporzionale al suo sapore nauseabondo. Nel migliore dei casi, mi veniva somministrata una tale quantità di questo elisir – un rimedio di prima qualità – che ero ben consapevole di andarmene in giro puzzando come uno steccato nuovo” (cito dall’ottima introduzione della curatrice Silvia Parigi).


William Hogarth (1697-1764), Operazione in un ospedale

Vuotato il secchio, ha inizio una progressiva, martellante smaterializzazione dei componenti dell’”acqua di catrame” come di tutti gli elementi dei tre regni della fisica. Prima è l’“aria”, per come era intesa all’epoca (non una sostanza chimica, ma un mezzo dove le diverse sostanze terrestri emettevano e disperdevano le loro particelle): “Si può dire che l’aria è il seminario dei minerali e dei metalli, oltre che dei vegetali.”. “Seminario”, naturalmente, anche in termini ecclesiastici. “Aria” in cui sarebbe stato presente e diffuso “uno spirito latente e vivificante… necessario tanto ai vegetali quanto agli animali”. Di scienza come la intendiamo oggi c’è ben poco, ma quel “latente” è un aggettivo che mi perseguita quando ho a che fare con i mondi virtuali così come quando mi capita di affrontare l’uni/multiverso quantistico.


La casa di Berkeley fotografata nella seconda metà del XIX secolo da J. A. Williams

Il bello della lettura di Berkeley è che queste esalazioni metafisiche emanano spesso da un contesto descrittivo di schietto naturalismo settecentesco (pensiamo anche all’incantevole contesto del giardino nell’aria frizzante dell’alba dei Tre dialoghi tra Hylas e Philonous). Certo, c’è anche la traccia delle splendide ambientazioni paesaggistiche dei dialoghi platonici, ma la concretezza di certi dettagli è notevole e l’amore per le bellezze della natura assoluto, specie quando attinge dai suoi due viaggi in Italia (la nostra penisola gli era rimasta nel cuore). Berkeley non è solo importante filosofo ma anche fine e appassionato scrittore (come d’altronde un altro grande isolano amante del Bel Paese che tratterò, Charles Babbage, l’inventore del computer, le cui Memorie sono un modello di stile). Infinite citazioni di classici e contemporanei vanno di pari passo con le sue vicende personali in Irlanda o vicino alla Grotta del Cane a Napoli.



Certo, a volte nei confronti della sua filosofia mi verrebbe da fare come Samuel Johnson (il letterato inglese, non il filosofo americano), quando prese a calci una pietra davanti al suo biografo James Boswell, altro dei miei prediletti, affermando che non era necessario altro per confutare l’immaterialismo. Magari fosse così facile! Mi sento in realtà – ma quale? - come Bertrand Russell, che sente questa smaterializzazione come “istintivamente ripugnante”, ma non riesce a intravvedere il modo per confutarla.
D’altro canto proprio il verbo “confutare” ha radici che rimandano a “fonte”, “vaso per acqua” e “versare”. Versare argomenti contro i versamenti di acqua di catrame: quale la cura giusta? “Cura” altro bel termine complesso. E molto probabilmente è proprio la complessità del pensiero da salvare, specie oggi, di fronte a tutte le facili, opportunistiche semplificazioni. Quanto abbiamo davanti e/o siamo dentro è in continua, sfuggente – struggente - definizione.


Risultati immagini per mario savio berkeley free speech movement
Mario Savio e gli altri leader del Free Speech Movement (da www.fsm-a.org). Le marce di protesta per la libertà di parola sortite dall’università dedicata a Berkeley, l’eredità migliore del filosofo. Niente a che vedere con la retorica demagogica delle fake news di Trump, così micidiale per la democrazia, ma serio messaggio di pace e vero confronto, esempio sempre valido, soprattutto in un’epoca di social che devono essere socialmente utili.

Allora mi pare giusto concludere con una frase di chi, proprio nell’università americana dedicata a Berkeley, sottolineò con la sua lotta pacifica quella libertà di confronto che è sempre uno dei beni più preziosi per mettere in connessione i diversi sentire degli esseri umani : “Per me la libertà di parola è qualcosa che rappresenta la dignità stessa di ciò che è un essere umano... È la cosa che ci pone appena al di sotto degli angeli” (1964). L’ultima parola sarebbe piaciuta al vescovo filosofo. Io preferisco il cognome di chi l’ha detta: Mario Savio.

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