domenica 7 dicembre 2014

ARGONAUTI AD AOSTA

 
SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS
Area e aura archeologica fra mito e storia

Il sito, scoperto nel 1969, su cui oggi è in costruzione il Parco Archeologico

Scrive Silio Italico:
“Ercole affrontò le vette inviolate:
 Fu il primo. Gli dei vedono stupiti
Come fende nubi, fracassa alture,
Doma possente rupi mai battute“.
Vagava da oriente a occidente cercando fra i ghiacciai la via per i Giardini del Tramonto, dove le Esperidi avrebbero custodito gelosamente i propri frutti (forse delle arance).
O forse faceva il tragitto opposto, portando verso il piano una mandria di buoi, un po’ come oggi si fa in Valle d'Aosta durante la “désarpa” (i suoi però doveva averli rubati a un esseraccio con 3 teste 3 busti 6 braccia dalle parti delle Canarie o giù di lì).
Mah, fatto sta che:
“Verrai anche fino alle schiere dei Liguri
Che ignorano la paura, lo so bene,
E tu li combatterai, ma per quanto
Bellicoso e impetuoso, patirai”.
Questo, secondo il grande Eschilo, aveva profetizzato lo stesso Prometeo al nostro eroe, che lo aveva appena liberato.
E sempre in cerca di agrumi, Ercole si sarebbe poi diretto alla volta di Genova o Marsiglia, lasciando in Valle uno di cui si fidava, Statiello o Statelio o Statielo, il cui figlio, Cordelio o Cordelo, avrebbe fondato Cordelia o Cordella o Cordela, città madre di Aosta - e un popolo di figli, i Salassi, probabile fusione di Liguri e Celti, prima armati di bronzo, poi di ferro.
E se risali 5.000 anni indietro la lingua di asfalto di Via Saint-Martin-de-Corléans fino alle pendici di Regione Chabloz, dietro la chiesa del santo, dentro lo scavo archeologico, nei resti di pietra, in 12 pozzi, nell’impronta lasciata da 22 pali di legno, nella cenere di crani bovini bruciati troverai la conferma storica di una migrazione ancestrale dall’Anatolia, dal Caucaso.
La stessa via degli Argonauti di Ercole a ritroso. La stessa semina di denti degli eroi, degli agricoltori, dei draghi che stanno a guardia dei fiumi, come le lastre di pietra, da Gilgamesh sumero ai monumentali guerrieri qui onorati in più di 40 stele antropomorfe, scolpiti con vesti e borsette raffinate proprio sotto Via Parigi.



Frammento dopo frammento, tessera dopo tessera, come per il mosaico della Cattedrale: lì sono rappresentati e li devi risalire: il Tigri, l’Eufrate, seguire l’antica “Tabula Peutingeriana”, spingerti oltre la Galazia, la terra dei Galli in Turchia, fino alle coste del Mar Nero: “”Thalassa“! “Salassa“! Il mare! Il mare!”.
E’ proprio lì, sull’ultimo brandello di Anatolia della “Tabula”, su quella copia medievale di cartina stradale romana, che sta scritta la distanza per un’altra città, anche se il nome è quasi lo stesso: Cordìle.


Scritto con la “i“ al posto della “i greca”, la “y“, che in greco si legge quasi “u”: mùgghio notturno, abisso del Caos primigenio - e poi voce, parola, pronuncia. Pronunce che cambiano, come i nomi. I nomi segreti che si davano alle antiche città, ad Aosta come a Roma - e guai a rivelarli! Il nome aveva - e ha - un senso profondo, una sua potenza evocativa, una magia: esserne privati significa assenza di identità, di presenza qui e ora, restare un numero in attesa di essere zero, come ad Auschwitz.
Ma noi non ci faremo prendere dal panico, non precipiteremo, costruiremo intorno alla voragine tutto un recinto di “i”  facendo finta di niente.  Facendo ordine, insomma.
Dicevo: c’è scritto “lontana… 16 miglia” da Trapezunte, cioè Trebisonda, oggi Trabzon, e rischi davvero la trebisonda se cerchi Cordìle su un’altra cartina, perché pare svanita nel nulla, forse distrutta a colpi di “mazza“, divorata da una specie di “lucertola d’acqua” diventata gigante, sepolta sotto un tumulo a forma di “gobba“, “bendata” agli occhi degli uomini da qualche dio - tutta roba che in greco si scrive uguale - magari durante una danza orgiastica, il “cordàce” della Lidia, Anatolia che si affacciava sull’Egeo, proprio sopra la Caria, dov’era Mileto, patria della filosofia, della geografia, di quei coloni che fondarono prima Sinope e poi Trapezunte.
Qui alla mia epoca stava attraccata la flotta romana sul Mar Nero, i nuovi Argonauti.

File:058 Conrad Cichorius, Die Reliefs der Traianssäule, Tafel LVIII.jpg

Qui faceva il suo ingresso nel nostro impero quella “Via della Seta” che univa con filo esile e tenace Sinae Metropolis, Sera Metropolis (Luoyang, Xi’an), la terra dei Seri alla nostra epidermide di senatori.
Si dilapidavano fortune pur di imbozzolarsi in abiti di seta (anche perché il governo tassava al 12,5% tutto quel bendiddio appena metteva piede alla frontiera). Come non fosse bastato il numero quasi infinito di intermediari! Quante volte abbiamo cercato un contatto diretto coi Cinesi! E loro lo stesso. E per un pelo non ci siamo incontrati.
Nel 97 d.C. il generale Ban Chao aveva raggiunto il Caspio e spedito un suo ufficiale, Gan Ying, alla nostra ricerca. Ma i Parti - come poi i Persiani - avevano impedito l’incontro e lo credo bene: andava contro i loro interessi!
Quando fummo noi a raggiungere quello strano mare che è un lago, erano ormai passati quasi 20  anni e il petrolio in fiamme di Baku, se mai vi fosse riuscito, avrebbe illuminato la sponda opposta deserta: i Cinesi se n’erano andati e l’assetto geopolitico dell’Asia centrale era di nuovo in subbuglio (ce ne saremmo accorti qualche decennio dopo). E il prezzo della seta, al contrario del Caspio, sempre più salato.
E così, come due amanti innamorati di un sogno, abbiamo vicendevolmente continuato a idealizzare le nostre lontananze. Per loro “Ta-Ch’in”, cioè l’Occidente, era una specie di Bengodi. Per noi viaggiare verso Oriente rappresentava una specie di processione verso l’armonia, verso popoli sempre più saggi, fino ai Bramini dell’India e ai Seri taciturni, i più sereni di tutti.
 
 
 
E’ sempre meglio confinare la virtù ai limiti del mondo. O in un altro. Da questo, il profumo della santità. Da quello, l’aroma delle spezie: assafetida, spigonardo, zenzero e pepe, pepe, pepe lungo, pepe nero, soprattutto pepe. Lo ripeteva fino alla nausea il gastronomo più esperto dell’impero, Apicio: “Cospargi di pepe e servi”. Tutto: dallo struzzo lesso al cocomero bollito con le cervella, ai sedani imbevuti nel latte e cotti al forno.
Tutto. Anche la “cordùla“, pesce imparentato non solo con le sarde, disliscato e imbottito di grani di pepe, cumino, menta, noci e miele: cucito e cotto al vapore. Se arrostita, invece, abbinare a salsa con levistico, semi di sedano, menta, dattero cariota, miele, ruta, aceto, vino, olio. E pepe.
Come pepe sulle castagne cucinate a mo’ di lenticchie, con erbe aromatiche, miele, aceto e olio verde.
Voi in Valle non lo mettete sulla minestra di castagne. Però lo aggiungete alla zuppa “mitonata” o a quella di Valpelline o al “civét” di camoscio, al vitello “fricandeau“.
Che viaggio fa il pepe dall’India!
Lo stesso che fece il dio Dioniso, Bacco. E infatti col pepe ci aromatizzavamo anche il vino. Chissà che non venisse dalle vostre parti quel “vino delle Alpi” per cui andava matto Cesare. Non ce n’è uno che si chiama “Sangue dei Salassi”, “Sang des Salasses”? Ce lo vedo bene Dioniso con le baccanti trai filari di uva “petit rouge”! Che pasteggia a castagne ed “Enfer” sdraiato sul suo letto d’osso, oggi al Museo Archeologico Regionale.




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