SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS
Area e aura archeologica fra mito e storia
Il sito, scoperto nel 1969, su cui oggi è in costruzione il Parco Archeologico
Scrive Silio Italico:
“Ercole
affrontò le vette inviolate:
Fu il primo. Gli dei vedono stupiti
Come
fende nubi, fracassa alture,
Doma
possente rupi mai battute“.
Vagava da oriente a occidente cercando fra i ghiacciai la via per
i Giardini del Tramonto, dove le Esperidi avrebbero custodito gelosamente i
propri frutti (forse delle arance).
O
forse faceva il tragitto opposto, portando verso il piano una mandria di buoi,
un po’ come oggi si fa in Valle d'Aosta durante la “désarpa” (i suoi però doveva averli
rubati a un esseraccio con 3 teste 3 busti 6 braccia dalle parti delle Canarie
o giù di lì).
Mah, fatto sta che:
“Verrai
anche fino alle schiere dei Liguri
Che
ignorano la paura, lo so bene,
E
tu li combatterai, ma per quanto
Bellicoso
e impetuoso, patirai”.
Questo,
secondo il grande Eschilo, aveva profetizzato lo stesso Prometeo al nostro
eroe, che lo aveva appena liberato.
E
sempre in cerca di agrumi, Ercole si sarebbe poi diretto alla volta di Genova o
Marsiglia, lasciando in Valle uno di cui si fidava, Statiello o Statelio o
Statielo, il cui figlio, Cordelio o Cordelo, avrebbe fondato Cordelia o
Cordella o Cordela, città madre di Aosta - e un popolo di figli, i Salassi,
probabile fusione di Liguri e Celti, prima armati di bronzo, poi di ferro.
E
se risali 5.000 anni indietro la lingua di asfalto di Via
Saint-Martin-de-Corléans fino alle pendici di Regione Chabloz, dietro la chiesa
del santo, dentro lo scavo archeologico, nei resti di pietra, in 12 pozzi,
nell’impronta lasciata da 22 pali di legno, nella cenere di crani bovini
bruciati troverai la conferma storica di una migrazione ancestrale
dall’Anatolia, dal Caucaso.
La
stessa via degli Argonauti di Ercole a ritroso. La stessa semina di denti degli
eroi, degli agricoltori, dei draghi che stanno a guardia dei fiumi, come le
lastre di pietra, da Gilgamesh sumero ai monumentali guerrieri qui onorati in
più di 40 stele antropomorfe, scolpiti con vesti e borsette raffinate proprio
sotto Via Parigi.
Frammento
dopo frammento, tessera dopo tessera, come per il mosaico della Cattedrale: lì
sono rappresentati e li devi risalire: il Tigri, l’Eufrate, seguire l’antica
“Tabula Peutingeriana”, spingerti oltre la Galazia, la terra dei Galli in
Turchia, fino alle coste del Mar Nero: “”Thalassa“! “Salassa“! Il mare! Il
mare!”.
E’
proprio lì, sull’ultimo brandello di Anatolia della “Tabula”, su quella copia
medievale di cartina stradale romana, che sta scritta la distanza per un’altra
città, anche se il nome è quasi lo stesso: Cordìle.
Scritto
con la “i“ al posto della “i greca”, la “y“, che in greco si legge quasi “u”:
mùgghio notturno, abisso del Caos primigenio - e poi voce, parola, pronuncia.
Pronunce che cambiano, come i nomi. I nomi segreti che si davano alle antiche
città, ad Aosta come a Roma - e guai a rivelarli! Il nome aveva - e ha - un
senso profondo, una sua potenza evocativa, una magia: esserne privati significa
assenza di identità, di presenza qui e ora, restare un numero in attesa di
essere zero, come ad Auschwitz.
Ma
noi non ci faremo prendere dal panico, non precipiteremo, costruiremo intorno
alla voragine tutto un recinto di “i”
facendo finta di niente. Facendo
ordine, insomma.
Dicevo:
c’è scritto “lontana… 16 miglia” da Trapezunte, cioè Trebisonda, oggi Trabzon,
e rischi davvero la trebisonda se cerchi Cordìle su un’altra cartina, perché
pare svanita nel nulla, forse distrutta a colpi di “mazza“, divorata da una
specie di “lucertola d’acqua” diventata gigante, sepolta sotto un tumulo a
forma di “gobba“, “bendata” agli occhi degli uomini da qualche dio - tutta roba
che in greco si scrive uguale - magari durante una danza orgiastica, il
“cordàce” della Lidia, Anatolia che si affacciava sull’Egeo, proprio sopra la
Caria, dov’era Mileto, patria della filosofia, della geografia, di quei coloni
che fondarono prima Sinope e poi Trapezunte.
Qui
alla mia epoca stava attraccata la flotta romana sul Mar Nero, i nuovi
Argonauti.
Qui
faceva il suo ingresso nel nostro impero quella “Via della Seta” che univa con
filo esile e tenace Sinae Metropolis, Sera Metropolis (Luoyang, Xi’an), la
terra dei Seri alla nostra epidermide di senatori.
Si
dilapidavano fortune pur di imbozzolarsi in abiti di seta (anche perché il
governo tassava al 12,5% tutto quel bendiddio appena metteva piede alla
frontiera). Come non fosse bastato il numero quasi infinito di intermediari!
Quante volte abbiamo cercato un contatto diretto coi Cinesi! E loro lo stesso.
E per un pelo non ci siamo incontrati.
Nel
97 d.C. il generale Ban Chao aveva raggiunto il Caspio e spedito un suo
ufficiale, Gan Ying, alla nostra ricerca. Ma i Parti - come poi i Persiani -
avevano impedito l’incontro e lo credo bene: andava contro i loro interessi!
Quando
fummo noi a raggiungere quello strano mare che è un lago, erano ormai passati
quasi 20 anni e il petrolio in fiamme di
Baku, se mai vi fosse riuscito, avrebbe illuminato la sponda opposta deserta: i
Cinesi se n’erano andati e l’assetto geopolitico dell’Asia centrale era di
nuovo in subbuglio (ce ne saremmo accorti qualche decennio dopo). E il prezzo
della seta, al contrario del Caspio, sempre più salato.
E
così, come due amanti innamorati di un sogno, abbiamo vicendevolmente
continuato a idealizzare le nostre lontananze. Per loro “Ta-Ch’in”, cioè
l’Occidente, era una specie di Bengodi. Per noi viaggiare verso Oriente
rappresentava una specie di processione verso l’armonia, verso popoli sempre
più saggi, fino ai Bramini dell’India e ai Seri taciturni, i più sereni di
tutti.
E’
sempre meglio confinare la virtù ai limiti del mondo. O in un altro. Da questo,
il profumo della santità. Da quello, l’aroma delle spezie: assafetida,
spigonardo, zenzero e pepe, pepe, pepe lungo, pepe nero, soprattutto pepe. Lo
ripeteva fino alla nausea il gastronomo più esperto dell’impero, Apicio:
“Cospargi di pepe e servi”. Tutto: dallo struzzo lesso al cocomero bollito con
le cervella, ai sedani imbevuti nel latte e cotti al forno.
Tutto.
Anche la “cordùla“, pesce imparentato non solo con le sarde, disliscato e
imbottito di grani di pepe, cumino, menta, noci e miele: cucito e cotto al
vapore. Se arrostita, invece, abbinare a salsa con levistico, semi di sedano,
menta, dattero cariota, miele, ruta, aceto, vino, olio. E pepe.
Come
pepe sulle castagne cucinate a mo’ di lenticchie, con erbe aromatiche, miele,
aceto e olio verde.
Voi
in Valle non lo mettete sulla minestra di castagne. Però lo aggiungete alla
zuppa “mitonata” o a quella di Valpelline o al “civét” di camoscio, al vitello
“fricandeau“.
Che
viaggio fa il pepe dall’India!
Tratto da Il Dittico di Aosta di Luca Traini
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