Ovvero quando la politica non finisce ma
inizia in canzone. Quando l’ideologia del dispotismo illuminato prende forma e
si distende in arie: dalla corte degli Asburgo, passando per Haydn e Mozart,
fino al Sanremo di una volta. Un amore critico nato nei primi anni di
università. Prima le parole e poi la musica, questo il suo programma, la sua
utopia in versi che erano già musica (e lo sono ancora). Una breve pausa durata
l’arco della sua tirannia gentile, falsariga di una finzione di teatro greco
mai tragedia, con l’Arcadia dei finti re pastori al posto della democratica
Atene. Lieto fine sempre, ma definitivo ancora prima della morte dell’autore
(con Vittorio Alfieri che, dietro le quinte, lo fissa in tralice mentre si
genuflette all’imperatrice Maria Teresa). Nel mio dramma I re pastori c’è
un dialogo fra la sovrana, il ministro Kaunitz e il Nostro, poeta cesareo a
Vienna dal 1729 al 1782.
Buio. Dei servitori in livrea entrano in scena e accendono dei candelieri.
La luce man mano illumina la presenza dei tre personaggi immobili come statue
che prendono vita. L’inizio dell’aria “Aer tranquillo e dì sereni” da “Il re
pastore” di Metastasio nella versione di Mozart accompagna i loro gesti.
Poi la musica svanisce e i servitori escono.
Kaunitz
La grazia dei versi che Metastasio
elargisce ai suoi compositori e quindi al pubblico sta alla grazia che voi
concedete ai vostri sudditi. È un’equazione degna di Leibniz, non trovate,
maestà? Che le riforme siano reali anche nel senso di sovrane, una concessione
e non un diritto come sembrano sostenere certi francesi. Ma, si sa, in quanto
all’opera e anche alla musica in Francia sono rimasti piuttosto indietro.
Maria Teresa
Lo dico spesso a mia figlia Maria
Antonietta che devono trovare anche un compositore come si deve. Ma il re suo
marito sembra più interessato agli orologi. Quelli si fermano e li si può
ricaricare, ma l’orologio della storia non si ferma mai. Dovrebbe appassionarsi
ai metronomi. Ricorda quando le spedimmo il nostro migliore musicista, il
signor Gluck?
Kaunitz
Lo ricordo bene: era il 1774 ed erano
ancora principi. E la principessa era particolarmente contenta di rivedere il
suo vecchio maestro di musica. Si impegnò non poco per l’allestimento di una
sua opera e, se non sbaglio, fu presente tutta la famiglia reale al successo
della rappresentazione. Una prima.
Maria Teresa
Peccato sia stata l’ultima di Luigi XV.
Caso vuole che di lì a qualche giorno il re sia finito preda del vaiolo durante
una partita di caccia.
Kaunitz
E’ vero: morì pochi giorni dopo. Però
vostra figlia divenne regina. E… Perdonatemi, maestà, non ricordo il titolo
dell’opera.
Maria Teresa
Ifigenia in Aulide.
Kaunitz
Ah.
Maria Teresa
Già. Il sacrificio della figlia di un
re, che solo i trucchi della poesia e del teatro hanno saputo rendere meno
orrendo. Mi chiedo se non sarebbe stato meglio allestire un’altra messinscena
con i tempi che corrono. Lei che ne dice, poeta?
Metastasio
Io, maestà, avrei scelto Le
cinesi. Lo stesso Gluck, se ricordate, le aveva messe in musica nel ’54. E’
vero che erano passati vent’anni, ma la moda per le cineserie non è mai
passata.
Maria Teresa
Mi chiedo perché non abbiamo insistito…
Un viaggio ai confini del mondo è un’ottima distrazione.
Kaunitz
O Il re pastore, meglio
ancora. Stesso compositore, stessa musica. E questa moda spero non passi mai.
Metastasio
“Sollevar gli oppressi,
Render felici i regni,
Coronar la virtù.
A fabbricarvi il trono
La mia fortuna impegno;
Ed a tanta virtù non manca un regno”.
Maria Teresa
Versi sublimi!
Kaunitz
E di meravigliosa utilità.
Maria Teresa
Ma questi francesi adesso si sono
intestarditi a volere sempre una prima.
Si bloccano come automi o le statue di
prima. I servitori tornano in scena, questa volta senza musica, e spengono le
luci con una fretta che contrasta col fare compassato dell’inizio.
Voce fuoriscena
Anche l’Arcadia aveva i suoi problemi. I
bravi pastori, forse cercando una pecora uscita dal gregge, avevano trovato chi
dice un teschio chi sostiene una tomba. La morte, con tutto quello che ne
consegue, era quindi già lì.
Atlas
Ufo Robot, alias Goldrake, alias rappresentazione iconica del boom dell’industria
dell’acciaio nipponico, sbarca in Italia il 4 aprile 1978, quando il Giappone
riesce ancora a mantenere ritmi di crescita economica sostenuta e il nostro
Paese è in piena crisi con l’inflazione che balla intorno al 12% (mancano anche
le monete, noi ragazzini facciamo incetta di miniassegni come di gettoni del
telefono) e, soprattutto, in pieno incubo sequestro Aldo Moro. Per
quelli come me, che erano alle porte dell’adolescenza e ancora risentivano dell’aspetto tetro degli anni precedenti (stragi fasciste e terrorismo
di estrema sinistra), l’apparizione di un nuovo supereroe nel magico contenitore
di rifugio della tv in bianco e nero, come i sogni, fu come un raggio di sole (sarà stata anche la
bandiera del Sol Levante). Uno dei pochi ricordi belli che ho del mio primo
anno al Nord, in quella periferia culturale che era Induno Olona, dove come
tutti gli immigrati non mi trovavo affatto bene e sarei tornato più volte con
piacere solo molti anni dopo, abitando a Varese.
Precursori animati
Ma
torniamo alle animazioni. È vero che qualche mese prima era arrivata sugli
schermi Heidi del grande Miyazaki, ma
l’epoca di mettere i nomi dei disegnatori sarebbe arrivata solo negli anni ’90
insieme alla definitiva consacrazione del fumetto come arte. E poi era un “cartone animato da femmine” che
aveva di attraente solo la sigla cantata da Elisabetta Viviani, di cui eravamo
tutti innamorati (non solo Gianni Rivera). Anni prima ancora era stata la volta
di Vicky il Vichingo, ma che fosse giapponese non l’aveva capito nessuno. Così
come non sapevo che la serie televisiva anni ‘70 del mio amato Calimero – ma
anche Barbapapà! - fosse frutto della collaborazione con la mitica Toei
Animation di Tokyo, me lo ha rivelato di recente l’amico ed esperto Daniele Bernalda.
Io e l'esperto di manga Daniele Bernalda, relatori all'incontro Il giorno in cui arrivarono Heidi e Goldrake
Alla
RAI, oltre i classici americani (ma non i Disney, che si vedevano solo al
cinema), per un certo periodo erano stati familiari all’ora di pranzo i cartoni
animati dell’Est Europa, specie quelli che venivano dall’Ungheria del “comunismo
al gulash” di János Kádár come la tenera serie Gustavo. Ma non erano mancati al pomeriggio della “TV dei ragazzi”
anche splendidi lungometraggi dell’animazione sovietica. Tutto nella norma
prima dell’avanzata elettorale del PCI alle amministrative del ’75 e alle
politiche del ’76… C’era stata poi la novità dei “fumetti in TV” prima con Gulp! e soprattutto con SuperGulp!, trasmessi in un più
difficile orario serale dopo cena. Entusiasmo, ma anche una certa iniziale
delusione per la scoperta che alcuni comics erano italiani, specie Alan Ford,
anche se lo trasmettevano insieme all’Uomo Ragno. Gli pseudonimi usati dagli
autori ci avevano fregato come i nostri genitori all’epoca degli “spaghetti
western”. Non sapevamo che anche tutto Topolino era disegnato da italiani:
c’era solo la firma Walt Disney, quindi doveva averli fatti lui, come ci
confermavano con un certo fastidio gli adulti quando li interrogavamo su questi
prodotti accessori. Italiano era il fumetto verosimile stile neorinascimentale
come Tex, con l’eccezione di Bruno Bozzetto e della Linea della pubblicità
della Lagostina. In tutta questa realtà, anche animata, in tumultuoso
cambiamento irrompono i manga con i loro occhi enormi da arte altomedievale… Ma
non dovevano essere a mandorla? Non erano giapponesi come il saggio Ten nel
Nick Carter di Bonvi? E poi in quelle animazioni “caricaturali” si moriva pure!
Non ci si era abituati: la morte era prevista per il naturalismo dei fumetti
western. Willy Coyote o Paperino non morivano mai. Ci sarà pure stata una
coazione a ripetere – sadica – del dolore, ma resistevano a tutto: investimenti
di treni sbucati da chissà dove o esplosioni che li carbonizzavano,
momentaneamente. Ci aveva già pensato Alan Forda sconvolgermi con omicidi ineluttabili nell’estate del ’77, ma quello,
avevo poi pensato, era un giornaletto. Alla televisione
pubblica…
Il Sol Levante e il Bel Paese
Il
Giappone si presentava con prodotti all’apparenza immortali: era il mio
registratore per cassette Hitachi, erano le radio a transistor, era per tutti
nuove tecnologie ormai assolutamente affidabili (altro che la “robaccia giapponese
da quattro soldi” di Woody Allen ne Il dormiglione). Era Giacomo Agostini passato dalla MV Agusta alla
Yamaha nel ’74 (iniziava allora il dominio anche nelle grandi cilindrate).
Erano i samurai (sandali compresi, incompreso invece il ruolo dei “ronin”,
samurai senza padrone, nelle rivolte pro e contro la dinastia Meiji e la
partecipazione ai primi movimenti socialisti nell’arcipelago) e le arti
marziali di cui si aprivano scuole dappertutto: karate e, soprattutto, judo, di
cui ero una giovane promessa (non mantenuta). È vero che il cinese Bruce Lee
era stato più forte, però era morto. Il presidente Mao suscitava decisamente
più simpatie dell’imperatore Hirohito, quello della Seconda Guerra Mondiale che
poi sembrava una mummia, ma, politica a parte, di prodotti cinesi allora
c’erano solo certi pentolini di metallo per il the o il latte a colazione e dei
violini a basso costo -una delle poche cose occidentali permesse dalla
Rivoluzione Culturale - tipo quello che torturai in quattro inutili anni al
liceo musicale di Fermo. Quanto all’arte, giusto il cinema. Per i cinefili (ero ancora lontano dal diventarlo) i vari Kurosawa, Mizoguchi, Ozu e Ōshimaerano già un mito. Per gli altri invece o i mostri (Godzilla e affini visti in
tv già rovinatissimi). O il porno, almeno quello presunto tale, quei manifesti
da brivido dei cinema a luci rosse con L’impero
dei sensi di Oshima (terzo elemento
della triade proibitissima – paura e censura - insieme a Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e a Salò di Pasolini). Che poi quanto presentato come porno fosse
politico lo sapevano nelle grandi città o in cittadine “rosse”, come Porto Sant’Elpidio
nelle Marche, da cui venivo e dove anche quell’altra parola, Zengakuren (il movimento studentesco
protagonista del ’68 Giapponese) l’avevo sentita e ricordata perché era strana
(e prima del liceo l’avrei confusa con Zenga portiere della mia Inter, di
tutt’altra vena ideologica). In compenso iniziai a interessarmi all’arte di
Utamaro – e quindi anche a quella degli altri grandi del “Mondo fluttuante”
(Ukiyo-e), Hokusai chiaramente compreso con la Grande Onda e i primi Manga in
assoluto (1814) – dopo aver visto nell’’82 l’accattivante locandina de Il mondo di Utamaro di Jissōji, buon
remake softcore del capolavoro di Mizoguchi Utamaro e le sue cinque mogli (1946).
Letteratura,
tranne il primo Nobel a un giapponese nel ’68, Yasunari Kawabata, nome difficile
da ricordare (e che avrei amato solo venti anni dopo), zero. Per i più,
sottoscritto incluso, si ripartirà dagli anni ’80 con la riscoperta di Mishima
e i postumi della visione di Stefania Sandrelli nel film di Tinto Brass La chiave, tratto dall’omonimo
romanzo di Tanizachi. Molto più tardi
avrei letto quel gioiello devastante de Lo
squalificato di Osamu Dazai, storia di un fumettista stile Kitazawa Rakuten (il vero creatore del
manga moderno a inizi ‘900), ma in versione autodistruttiva. Sia Dazai,
rivoluzionario bello e dannato, che la sua opera sono tuttora rivisitati da
manga e anime.
Infine,
di musica giapponese doc neanche a parlarne, ma direttori d’orchestra di musica
classica occidentale sì: Seiji Ozawa, la mia Sagra della primavera di Stravinskij preferita, comprata l’anno
dopo il mio addio ai manga, il 1980.
Sì,
c’era questo che piaceva del Giappone, che tutto sommato ci assomigliava nella
vita quotidiana, non era solo una questione politica per “gruppuscoli” come la
Cina maoista. Dell’Asia orientale – guerra e dopoguerra in Vietnam e Cambogia e
continui rivolgimenti del partito comunista cinese a parte - si sapeva poco,
tranne la tecnologia, meno apprezzata, di Taiwan; che c’era la Malesia, ma era
ancora quella di Salgari e Kabir Bedi; che Kabir Bedi era indiano come il
Mahatma Gandhi e Indira Gandhi, che però non erano parenti e poi quello era un
subcontinente; il nord siberiano infine era tutto Unione Sovietica, e quindi
Europa. Ecco, i paesi comunisti si vestivano più o meno come noi, soprattutto i
leader. Mai però quanto i giapponesi. E soprattutto i giapponesi europeizzati
dei manga: la moda del futuro.
E
poi, imperatore a parte, qualche nome dei loro primi ministri, il cui numero,
come quello dei governi, faceva a gara in quantità coi nostri (“governi
balneari” compresi), era noto: Eisaku Satōperché aveva vinto il Premio Nobel
per la Pace firmando il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, Tanaka perché
era finito in mezzo a mondiali di ping pong, Nixon e Mao riconoscendo la Cina
comunista ed era finito nello Scandalo Lockheed in compagnia di un po’ di
nostri politici, Takeo Miki perché suonava bene per noi bambini e poi Nakasone,
prima per il nome e poi per quella sciagurata visita (prima e non ultima
purtroppo) al santuario Yasukuni, luogo di culto dei nazionalisti, dove si
onorano i morti in diversi conflitti bellici fra ‘8 e ‘900, ma anche non pochi
criminali di guerra.
Il 4
aprile 1978 era premier Takeo Fukuda che, come in uno scontro fra eroi manga,
finì per pestarsi a fine anno col suo successore Masayoshi Ōhira durante le
prime primarie del partito liberaldemocratico…
Fukuda con Andreotti, Carter, Helmut Schmidt e Giscard d'Estaing al G7 di Bonn del luglio 1978
I due volti della medaglia: G7 e terrorismi
Ma
eccoli qua i nostri due Stati, entrati a far parte del G7 dalla metà degli anni
’70: il Giappone tre anni prima di Atlas Ufo Robot alla RAI, l’Italia due. Una
cauta, tranquilla amicizia, giusto per far dimenticare gli orrori totalitari
del Patto Tripartito con la Germania nazista del 1940 e la devastante sconfitta
nella Seconda Guerra Mondiale. Lo spirito olimpico di Roma 1960 e Tokyo ’64 li
ha pubblicamente e definitivamente purificati. Due belle feste e buoni rapporti
di vicinanza-lontananza cercando il più possibile di esorcizzare ed emarginare
i rigurgiti dittatoriali del passato. Dopotutto li accomuna l’appartenere alla
sfera di influenza americana e il predominio politico ultradecennale di un
mastodontico partito di centro (la “Balena bianca” democristiana e la “Balena
gialla” del Partito Liberal Democratico ancora oggi al potere, con vice e primi
ministri cristiani anche cattolici – l’ultimo, Tarō Asō, vice primo ministro
appassionato di manga con ShinzōAbe e fra i papabili alla sua successione). Di
diverso c’era che in Italia la DC di Moro aveva momentaneamente messo in
soffitta il vessillo anticomunista per dar vita, nel ’76, a un governo
monocolore di “non sfiducia” con l’astensione del partito comunista, presieduto
da Andreotti (proprio lui), e, proprio nel ’78, a un governo, sempre monocolore
ma di “solidarietà nazionale”, col sostegno esterno del PCI, presieduto da
Andreotti (sempre lui). Il 16 marzo 1978, un’ora prima del dibattito sulla
fiducia avvenivano il rapimento di Aldo Moro e il massacro della sua scorta da
parte delle Brigate Rosse.
Dagli
anni dell’acciaio a quelli di piombo. E il terrorismo non era certo
un’esclusiva italiana. Il Giappone aveva sperimentato quello di estrema destra
con due tentati golpe e relativi omicidi di primi ministri, in carica o ex, già
negli anni ’30. Colpi di stato falliti, certo, ma che avevano spostato l’asse
del governo su posizioni sempre più nazional-imperialiste (la sanguinaria
invasione della Cina avviene proprio l’anno dopo l’ultimo putsch, nel ’37).
Il tentato golpe organizzato da estrema destra e ufficiali ultranazionalisti della marina nel 1932, costato la vita al premier Inukai
Nel
1960 – guarda caso quasi in contemporanea, poco dopo i rigurgiti neofascisti in
Italia sotto il governo Tambroni – l’omicidio in diretta televisiva del leader
socialista Inejirō Asanuma da parte dell’ultranazionalista Otoya Yamagughi, poi
suicida in carcere.
Ma
è nel 1972, col Paese ancora sotto i riflettori per le Olimpiadi invernali di
Sapporo (quasi un presagio di quello che accadrà a Monaco), che, sempre in
diretta tv, la polizia assalta un villino sul Monte Asama dove si sono
rifugiati i terroristi della Rengo
Sakigun, l’Armata Rossa Unita, dopo aver torturato e ucciso quattordici
compagni epurati. Negli stessi anni si verrà formando, non in terra nipponica
ma nel Libano prossimo alla guerra civile, l’Armata Rossa Giapponese che, in
sinergia con i gruppi più estremi della guerriglia palestinese, si renderà
protagonista di una lunga serie di sanguinosi attenti, compresa la bomba al
circolo ricreativo delle truppe statunitensi USO a Napoli nel 1988 (una strage:
cinque morti di cui quattro semplici passanti italiani, e quindici feriti).
L’autore Junzō Okudaira non è mai stato catturato (potrebbe essere in Libano
come in Corea del Nord). Verrà sgominata solo agli inizi del nuovo secolo, in
un Giappone ben diverso, che vede la Cina sostituirsi come “tigre rampante”
dell’economia mondiale.
Scena di devastazione dell'attentato a Napoli
Su
tutta questa storia rimando al film United
Red Army di quel particolarissimo
regista che è stato KōjiWakamatsu (scomparso nel 2012, già co-regista di un documentario sullo stesso tema nel '71, produttore dell’Impero dei sensi e autore anche di un lungometraggio sulla
morte di Mishima).
La
grande scalata come superpotenza economica, infatti, era durata fino alla metà
degli anni ’80 quando, seconda solo agli Stati Uniti, lo scoppio della “bolla speculativa”
aveva segnato l’inizio della recessione. Il Giappone avrebbe poi consolidato le
sue posizioni ma senza più ritrovare, neppure alla lontana, quegli indici di
crescita (la stessa cosa era già successa all’Italia dopo il “boom economico”).
Degli ultimi anni la timida ripresa dell’economia con il conservatore Shinzō Abe, dopo una breve e sfortunata esperienza della sinistra al governo, proprio
in questi giorni dimissionario. Politica che però si è unita a recrudescenze
nazionaliste, in parallelo al formidabile boom cinese (nazionalista anche lui,
dietro il paravento comunista), e ha portato al ritorno di revanscismi e negazionismi
su orrori del passato bellico nipponico (dal Massacro di Nanchino del ’37
all’uso massiccio di “donne di conforto”, soprattutto cinesi, filippine e coreane costrette a diventare
schiave prostitute per i soldati) sponsorizzati soprattutto dall’ex ministra
della difesa Tomomi Inada (affiliata alla lobby revisionista Nippon Kaigi e
fattasi fotografare col segretario del partito nazista giapponese), costretta
alle dimissioni nel 2017 per un scandalo di insabbiamento sull’uso di forze di
pace nipponiche in Sud Sudan.
Peace & love
Ma torniamo a immagini
più pacifiche: quelle dei sempre cordiali incontri fra politici italiani e
nipponici:
1961
Leone, allora solo innocuo presidente della Camera, brinda col presidente della
Commissione Esteri giapponese;
1967
Il presidente della Repubblica Saragat fra l'ex premier nipponico Nobusuke
Kishi (nonno di Shinzō Abe) e l'ambasciatore Shigeru Yosano;
1973
Andreotti, presidente del consiglio per la seconda volta, al pranzo offerto
dalla moglie del premier giapponese Tanaka (altro divo della politica
spregiudicato ed esperto di processi come lui);
1986
Il presidente del consiglio Craxi con l'omologo Nakasone;
2019
Conte e Abe a Roma (parata di bisillabi);
1969 Il nostro indimenticabile
Sandro Pertini, allora solo presidente della Camera, riceve l'ambasciatore
giapponese.
RAI, reazioni e autocritica
Ma è
grazie a una funzionaria della RAI appena riformata, Nicoletta Artom, che
dobbiamo l’ingresso di Atlas Ufo Robot nei nostri schermi. La scelta è frutto
della sua scoperta della serie al Mifed di Milano nel ’77. Scelta che
susciterà tanto entusiasmo fra i giovani quanto accese polemiche con i
genitori. Ricordo un dibattito accesissimo a scuola durante la mia terza media
(a Varese) con l’intervento risolutivo di un bocciato a favore dei manga che
trascina con se l’approvazione di tutta la classe. L’astuta professoressa di
italiano, contraria senza essere pasdaran, rinviò il seguito della discussione
a data da destinarsi…
Ci
pensò la buonanima di Enzo Tortora a rinfocolare la controversia in tv con la
puntata de L’altra campana del 18
aprile 1980, quando invitò una rappresentanza dì 600 genitori di Imola che si
erano schierati contro la “violenza” di Goldrake e la sua riproduzione
esponenziale nei disegni dei figli (nella media di pregevole fattura). Una
battaglia inutile come quella dei 600 di Balaklava, ma che scatenò una rivolta
anche all’interno della mia famiglia. Chi era contrario doveva spegnere le luci
di casa e mio fratello, che non aveva ancora dieci anni, le tentò tutte per
fermare mia madre e il sottoscritto, che di anni ne aveva già quattordici,
poteva guardare certi film vietati e rinnegava quella macelleria di rottami
ferrosi per bambini… Che tradimento!
E
soprattutto che ignoranza! Rimediata solo all’università quando, venuto a
conoscenza dei rapporti fra arte giapponese e occidentale, soprattutto
italiana, scoprii che quelle animazioni erano frutto di un interscambio
culturale fra popoli che datava da secoli.
L’arcipelago incontra l’Occidente: vele e cannoni, religione e arte
Carta del mondo di Martin Behaim (1492, riproduzione del 1887)
Citato
come “Cipango” o “Zipangu” da Marco Polo, cercato e non trovato da Cristoforo
Colombo, il Giappone viene raggiunto dai portoghesi nel 1543 mentre si trova nel
bel mezzo di una profonda crisi politica, Periodo Sengoku (o “degli stati
belligeranti”), spezzettato in numerosi potentati dai signori della guerra, i
“daimyō” che rendono impossibile un controllo effettivo da parte shogunato degli Ashikaga. Qualcosa di simile
all’anarchia feudale post carolingia. Quello che non era riuscito alle flotte
di Kublai Khan con le invasioni del 1274 e del 1281 - spazzate via da tifoni
provvidenziali ribattezzati “kamikaze” o “venti divini” (termine che forse ci
dice qualcosa…) – riesce in modo pacifico ai lusitani, che raggiungono l’isola
più meridionale dell’arcipelago, Kyushu, e ne approfittano per fare incetta di
schiavi (specie di sesso femminile) e mettere sul mercato la loro merce più
appetibile: gli archibugi. A quei tempi è sempre difficile dire se arrivino
prima i missionari o i fucili. In questo caso sembra questi ultimi, perché il
“colonnello” dei Gesuiti Francesco Saverio approda a Kagoshima solo il 15 agosto
del 1549.
Arte Nanban, Prete con due bambini (1600 c.a)
Ma il grosso del lavoro lo farà soprattutto il suo successore, il missionario abruzzese
Alessandro Valignano, apprendendo il giapponese e cercando una sintesi fra le
due culture col Cerimoniale per i missionari in Giappone. Non a caso era stato proprio lui a
istruire al rispetto della cultura locale il grande Matteo Ricci per il suo
viaggio in Cina (col successo che sappiamo). Diversi i daimyō del sud che si
convertono. Fra questi i più noti: ŌmuraSumitada (battezzato Bartolomeo; Ōtomo Sōrin(battezzato Francesco) e Arima Harunobu (battezzato Protasio, cresimato
Giovanni).
Foglio informativo tedesco del 1586 con ritratti i componenti dell'Ambasciata Tenshō
È su ispirazione del Valignano e della sua predicazione
rivolta all’incontro fra i popoli che nel 1582 parte alla volta dell’Europa la
prima missione (“Ambasciata Tenshō”) di giovani dignitari nipponici. Culminerà
nell’incontro con papa Gregorio XIII (quello della riforma del calendario) il
23 marzo 1585. Del capo delegazione ItōMancio è rimasto anche un bellissimo
ritratto attribuito a Domenico Tintoretto, esposto anche nella sua città di
origine, Miyazaki (quando si dice il nome…), nel 2016, per il 150° dell’inizio
delle relazioni diplomatiche italo-nipponiche.
Domenico Tintoretto, Ritratto di ItōMancio (1585)
In una lettera del 1585 di Filippo
Sassetti - intellettuale a Firenze e, con meno fortuna, mercante nella colonia
portoghese di Goa in India (ne parlerò in un prossimo post) – si dà quasi per
scontato che il “Giapan” diventerà cattolico: “Là comandano i padri Gesuiti,
fanno la guerra, e pongono i re in istato e altre cose”. Sappiamo che non sarà
così e la reazione anti cristiana alla lunga, specie dopo la rabbia accumulata
coi due falliti tentativi di invadere la Corea nel 1592 e 1596, avrà la
meglio con la restaurazione dello shogunato da parte di Tokugawa Ieyasu, del
figlio Hidetada e del nipote Iemitsu, che attueranno una spietata repressione
della religione di Roma (grazie anche all’appoggio dei nuovi signori dei mari
olandesi, vedi il bombardamento del castello di Hara nel 1637). Nel 1641 col
decreto shogunale “sakoku” l’arcipelago viene chiuso agli stranieri con le
parziali eccezioni dei porti di Nagasaki (per il commercio con olandesi e
cinesi) e di Tsushima (riservato ai mercanti coreani).
Arte Nanban, Paravento con i re d'Occidente idealizzati (1611-14)
Riaperture, traumi,
ricomposizioni
Termina
così anche quella prima influenza diretta dell’arte europea che aveva dato vita
all’Arte Nanban. Non parliamo di capolavori, ma di opere di raffinata fattura,
soprattutto paraventi che avevano per soggetto personaggi occidentali, sospesi
fra l’estetica della Scuola Tosa (di più marcata impronta nazionale) e la Scuola Kanō(di rinnovata influenza cinese), che entrambe le sopravvivranno. Una
pittura che mi ha sempre appassionato e commosso proprio perché tentativo di
simbiosi, anche se irrealizzata, fra due mondi. Narrazioni sognanti capaci di
far dimenticare per attimi preziosi i reciproci orrori del primo incontro.
Arte Nanban, L'Occidente come oasi di pace (1600 c.a)
Ma
il successivo, purtroppo, sarà ancora, per dirla alla Carlo Cipolla, all’insegna
di “vele e cannoni”. Con l’aggiunta del vapore. Dove non erano riusciti i tentativi russi della fine del XVIII secolo e le provocazioni inglesi d'inizio Ottocento riesce la minaccia della
nuova flotta americana del commodoro Perry (1852-54). Si profila un nuovo incubo alla Kublai
Khan, aggiornato con le Guerre dell’Oppio che stanno trasformando la Cina de facto in una nuova colonia
britannica. Crollato il sogno dell’isolamento, il Giappone dello shogunato
Tokugawa cerca di reagire iniziando a riformare la struttura dell’esercito con
l’aiuto dei francesi e firmando tutta una serie di trattati commerciali il cui
aspetto svantaggioso, tuttavia, fa presagire il peggio.
E infatti, dopo
sanguinosi rivolgimenti interni, l’era degli shogun finirà. La nuova dinastia
di imperatori Meiji, rappresentata dall’imperatore Mutsuhito, prenderà in
mano la situazione nel 1868 e deciderà l’inevitabile: l’occidentalizzazione
dell’arcipelago per resistere alle brame coloniali dell’Occidente. Per fare
questo occorrerà riformare tutto l’apparato economico e dar vita a una
rivoluzione industriale autoctona capace di fornire le basi strutturali alla
nuova potenza dell’impero nipponico. Il surplus agricolo per effettuare questo
balzo, come ha scritto il mio caro Claudio Zanier nel suo memorabile Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Dalla fine del XVI alla fine
del XIX secolo, era già a disposizione e il nuovo governo Meiji interverrà
subito a riorganizzare in modo organico l’amministrazione del settore primario.
Il
decollo dell’economia nipponica, anche se pagato a livello sociale a carissimo
prezzo - e su questo rimando all’antologia
curata da Alfio Aloisi L’internazionalismo
in Giappone (1897-1930) - è uno dei “miracoli”
della Seconda Rivoluzione Industriale e fa il paio con l’Italia quanto a
intervento dello stato, produzione a fini bellici, nazionalismo aggressivo e
progetti di espansione coloniale (a farne le spese saranno in primis Cina e
Corea).
Nel
1871 parte la seconda grande missione giapponese in Europa, la Missione Iwakura,
che non durerà più di otto anni come l’Ambasciata Tenshō ma meno di due e non avrà
più come fine l’incontro con un papa non più re ma chiuso fra le mura di San
Pietro, bensì uno studio approfondito dei vari tipi di potere in Europa e Stati
Uniti e la revisione dei trattati ineguali del periodo precedente.
Giapponismo e occidentalizzazione
1905: La grande onda di Hokusai rivisitata per la copertina dello spartito dell'opera di Debussy, grande appassionato di arte giapponese.
E
mentre il Giappone si occidentalizza l’arte europea, dopo le varie mode
cinesi, è attratta dal “Giapponismo” sull’onda della diffusione e dello studio della
meravigliose stampe Ukiyo-e, quel Sol
Levante d’antan che si desidera diverso, luogo di fuga dal lato oscuro dell’industrializzazione (proprio mentre si sta omologando): pensiamo solo a certi quadri di Van Gogh. Forse,
ancora senza esserne coscienti, s’intravvede nei capolavori di Utamaro, Hokusai
e Hiroshige anche quel tocco occidentale nell’anatomia dei corpi che era frutto
delle traduzioni in giapponese, dal 1720 in poi, delle opere scientifiche
olandesi (i “Rangaku”). E proprio la raccolta di “disegni burleschi”, ovvero Manga,
di Hokusai, nel 1814, a segnare l’inizio del successo del termine che poi
sfocerà nel fumetto e nella sua animazione. Edmond de Goncourt, storico e
letterato a tutto tondo, dedicherà a Utamaro e Hokusai, rispettivamente nel
1891 e nel 1896, i primi fondamentali studi sull’arte giapponese.
"Rangaku" del 1808 con la traduzione di un trattato del medico olandese Blankaart a opera di Udagawa Genshin
Tutto
questo mentre l’imperatore e il suo entourage cercano di liberarsi dall’immaginario
esotico-erotico (fatale a tante civiltà extraeuropee) e dall’etica da casta dei
samurai (ridotti a “ronin”, guerrieri senza padrone, invano ribelli contro il
nuovo potere), rimodellando l’esercito sul modello prima francese e poi
prussiano, accentrando il potere amministrativo e riformando in toto il sistema
scolastico. Nel 1889 si arriva anche a una Costituzione, gentilmente concessa
dal mikado come 41 anni prima lo Statuto da re Carlo Alberto, con un diritto al
voto (censitario) riservato per una sola Camera su due (quella Bassa) a una
ristrettissima parte della popolazione (maschile): poco più dell’1% (peggio
ancora del 2,2% dell’Italia prima della riforma De Pretis del 1882).
Ma è soprattutto nei
primi tempi del cambiamento, prima della reazione tradizionalista degli anni
’80 dell’Ottocento, che le mode occidentali trovano un successo incontrastato. È
l’epoca d’oro degli "Oyatoi Gaikokujin", i consulenti
stranieri chiamati a modernizzare a tutto campo l’arcipelago.
Il ruolo dell’Italia per una nuova
rappresentazione del mondo
Lo
si vede bene anche in campo artistico. Cercando di svecchiare l’estetica
tradizionale vengono invitati maestri d’arte dall’estero e, cosa fondamentale
per noi, soprattutto dall’Italia. È infatti dall’incontro di uno degli
esponenti della Missione Iwakura, ItōIrobumi (fra i primi a studiare in un’università inglese nel 1863, più volte
ministro e primo ministro)con Alessandro Fè d'Ostiani, ambasciatore
italiano in Giappone dal 1870 al 1877, che vengono poste le basi della Scuola
Tecnica di Belle Arti di Tokyo. La fondazione è del 1876, come parte del
Collegio Imperiale di Ingegneria, il che ne qualifica subito l’aspetto
strumentale finalizzato più alle arti applicate da commercializzare che alle
belle arti in senso stretto. D’altro canto l’Arte Nanban di tre secoli prima
non era stata un’estetica da paraventi? Fatto sta che la Scuola diventa un
crogiolo di nuove forme dove a guidare l’altoforno sono quasi sempre artisti
italiani, certo non geniali ma di grande professionalità.
Felice Beato, Samurai del clan Satsuma durante la Guerra Boshin (1868-69)
Il genio era arrivato
prima, nel 1863, in campo fotografico, con i bellissimi scatti di quel
personaggio particolarissimo a metà strada fra l’artista, l’avventuriero e
l’affarista che risponde al nome (altrettanto particolare) di Felice Beato, formidabile
reporter fra Crimea, India, Cina, Giappone (fino al 1884), Sudan e Birmania. Ora invece l’istituzione prevedeva insegnanti regolari e senza troppi grilli per la testa.
I nomi dei direttori scolastici sono noti a chi conosce i flussi più tranquilli
della nostra arte del XIX secolo sia che si parli di Antonio Fontanesi (esperto
paesaggista) o di Prospero Ferretti (emiliano come il primo e interessato anche
all’astronomia).
Antonio Fontanesi con i suoi studenti in una foto del 1878
Lo stesso dicasi per i docenti del Bel Paese: dai corsi
preparatori dell’architetto milanese Giovanni Vincenzo Cappelletti (proposto
nientedimeno che dal ministro dell’istruzione Bonghi) a quelli di disegno e
pittura di Achille Sangiovanni (che introduce lo studio del nudo). C’è poi
l’interessante esperienza dello sculture Vincenzo Ragusa, che oltre alla
docenza ha lasciato un’affascinante eredità di ritratti di giapponesi
dell’epoca, spesso gente comune (un'altra piccola rivoluzione). Così come la sua
storia d’amore con la modella, l’artista Kiyohara O' Tama, che si traferisce con
lui a Palermo e lo sposa diventando un’interessante pittrice di realtà
siciliane.
Kiyohara O' Tama, La notte dell'Ascensione o La benedizione degli animali (1891)
A loro, proprio l’anno scorso, nel Palazzo Reale di Palermo, è stata
dedicata la mostra O’TAMA.
Migrazione di stili. Infine il caso dell’incisore Edoardo Chiossone, direttore
dell'Officina Carte e Valori del Ministero delle Finanze giapponese dal 1875 al
1891, l’artefice della prima banconota del Sol Levante (1877). C’è ritratta la
leggendaria imperatrice Jingū, ma il valore è nella nuova valuta dello yen,
introdotto dalla legge monetaria su base decimale del 1871.
Ma la sua opera non si
limita alle centinaia di lastre per banconote, francobolli, titoli di
stato e bolli di monopolio (basterebbe
già questo), l’artista esegue tutta una serie di dipinti e incisioni che
ritraggono l’establishment del Sol Levante: dalla coppia imperiale ai
cortigiani, dagli statisti ai militari d’alto rango. Solo per fare un esempio,
l’incisione che raffigura l’imperatore Mutsuhito su tutti i libri di scuola è
opera sua. Quando muore, nel 1898, viene sepolto nel cimitero più importante
del Paese, quello di Aoyama, oggi anche meta di attrazione turistica. L’anno
successivo, per volontà testamentaria, approda in quella Genova dove si era
diplomato professore di disegno e di pittura la sua enorme collezione di più di
15.000 “antichità” giapponesi, imballate in un centinaio di casse. Scrivo
"antichità" fra virgolette perché non si trattava solo di oggetti
antichi tout court, ma sentiti tali, anche se di fabbricazione recente, da chi
voleva o poteva disfarsene per “occidentalizzarsi” oppure si trovava nella
necessità di venderli per evitare la rovina economica, com’era il caso di clan
aristocratici esclusi dal nuovo corso della politici Meiji. Forniranno la base
di quello che oggi è uno dei più prestigiosi musei al riguardo: il Museo d’Arte
Orientale “Edoardo Chiossone” in Villetta Di Negro, a Genova (il primo realizzato
a spese di una pubblica amministrazione nel dopoguerra).
Due Scuole per una nuova “tradizione”
Nella
fotocomposizione opere di particolare bellezza di alcuni artisti giapponesi ispirati dall'arte europea e appartenenti allo Stile Yōga. A partire da sinistra in alto: Kume Keiikiro ritratto da Kuroda Seiki, un paesaggio di Koyama
Shōtarō, una foto di Okada Saburōsuke in studio; un autoritratto di
Kuroda Seiki, un quadro
di pescatori di Kawamura Kiyoo, un ritratto di Okada Saburōsuke; tre splendide
opere di Shigeru Aoki, lo Schiele nipponico (il mio preferito)
La Scuola Tecnica di
Belle Arti di Tokio chiude i battenti nel 1883, sempre più contestata da un
movimento di rinascita dell’arte “tradizionale” nipponica. Anche qui uso le
virgolette perché questa reazione avviene soprattutto sulla base di una
sollecitazione esterna (gli studi dell’orientalista americano Ernest Francisco
Fenollosa). Quando si parla di “ritorno alla tradizione” bisognerebbe sempre
avere presente l’opera fondamentale curata dal grande Eric Hobsbawm e da
Terence Ranger L’invenzione della tradizione (1983), perché quanto
pretende di presentarsi come “tradizionale” è sempre frutto di rielaborazioni –
se non di vere e proprie falsificazioni – che si attuano alla luce dei
cambiamenti intervenuti, assolutamente presenti anche se tenuti sotto silenzio.
Lo stile di questo
ritorno a convenzioni, tecniche e materiali del “bel tempo che fu” è passato
alla storia come Stile Nihonga e ha prodotto o rimesso in campo, è bene dirlo,
fior d’artisti come Kanō Hōgai, Tomioka Tessai, Hishida Shunsō, Takeuchi Seihō
o Kokei Kobayashi (il Matisse giapponese) - giusto per fare qualche nome – e
gode ancora di buona salute. Non ha potuto fare a meno, tuttavia, di
prospettiva e ombreggiatura, che tradizionali non erano. Si trattava piuttosto
di frutti raccolti dalle produzioni della scuola europea, che aveva dato vita a sua
volta allo Stile Yōga. Pitture a olio, acquerelli, pastelli, litografie e
incisioni che caratterizzano il passaggio fra Otto e Novecento nell’arcipelago.
Opera soprattutto di artisti – e la cosa non stupisce – originari dell’isola di
Kyushu, come Kuroda Seiki o l’ancor più noto Fujishima Takeji, la cui Reminiscenza
dell'era Tenpyō (1902) rappresenta l’immaginario femminile di un’epoca fra
storia e leggenda (l’VIII secolo) aggiornato secondo i crismi dell’Art Nouveau.
Una delle sintesi: il Manga contemporaneo
Ed eccoci arrivati al
momento risolutivo del nostro discorso. Si è partiti dal fatidico 4 aprile 1978
per fare un balzo indietro nei secoli, prima all’Arte Nanban e poi agli stili Nihonga
e Yōga, sviluppatisi in reazione o continuità con la breve ma intensa esperienza della
Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo. Ebbene, come i Manga di Hokusai
erano figli di secoli di sperimentazione estetica locale arricchita
dall’apporto dei “Rangaku” olandesi, così anche i manga contemporanei sono
frutto dell’osmosi fra arte occidentale e rielaborazione autoctona. L’artista
che rappresenta perfettamente questo punto di incontro è il creatore del
fumetto manga contemporaneo: Kitazawa Rakuten. Formatosi sullo studio degli
stili Nihonga e Yōga, dopo un apprendistato sulla rivista inglese Box of
Curios (1895) sotto la guida di Frank Arthur Nankivell (futuro
caricaturista della rivista america Puck), sempre attento agli sviluppi
dei comics Made in USA, nel 1899 si trasferisce al quotidiano Jiji Shimpo
di Fukuzawa Yukichi, intellettuale e
imprenditore tra i fondatori del Giappone moderno. Cura la pagina domenicale a
fumetti Jiji Manga (eccolo qui il termine come lo conosciamo oggi,
finalmente sdoganato). È il trampolino di lancio per una rivista tutta sua, Tokyo
Puck, fondata non a caso nel 1905, l’anno in cui il Sol Levante trionfa
nella guerra russo-giapponese ponendosi in prima fila fra le potenze mondiali.
Nel 1929 il suo geniale apporto a questa nuova arte di massa viene riconosciuto
anche in Europa, in Francia, dove riceve la Legion d’Onore. Dieci anni dopo
la sua morte, nel 1966, la sua casa nella città di Saitama viene trasformata in quello che oggi è il Museo Municipale del Manga.
Il suo lavoro influenzerà
professionisti del calibro di Okamoto Ippei, Oten Shimokawa e, soprattutto,
Osamu Tezuka, il primo grande disegnatore di manga a livello internazionale,
definito anche “manga no kamisama” o “dio del manga”. È lui il creatore del
tratto distintivo dei nuovi comics e cartoni animati giapponesi (le famose
“anime”): i grandi occhi, che stupirono bambini e adolescenti italiani
quarant’anni fa e che invece derivavano da fumetti che conoscevamo benissimo
come Topolino o Betty Boop. E pensare che Tezuka, da ragazzo, era
stato colpito da una grave forma di micosi che aveva rischiato di paralizzargli
entrambe le braccia! Si era laureato in medicina come ringraziamento per i
medici che l’avevano curato e per curare gli altri, specie dopo la visione degli
orrori provocati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Soltanto la
genialità del suo disegno lo portò a continuare in campo artistico: quanto
prodotto da quelle mani quasi miracolate avrebbe curato, appassionato e
sollevato in maniera diversa gli esseri umani. Fra i tanti personaggi usciti
dalla sua penna nel 1952 decolla Astro Boy, il primo manga di carattere
fantascientifico capace di riscuotere un immenso successo a livello mondiale.
Successo che dura ancora oggi (anche perché il tema della robotica, trattato in
modo originale e profondo, è quanto mai attuale).
È il nonno sempre giovane di Goldrake
e di tutti i robot della Toei Animation che l’hanno seguito a schiera sui
nostri teleschermi, compresi Mazinga Zeta e Il Grande Mazinga,
usciti prima di Atlas Ufo Robot in Giappone e invece comparsi da noi dopo.
Creando non pochi problemi di interpretazione. E c’era pure quella storia dei Micenei diventati cyborg a causa di un cataclisma che li aveva
costretti a vivere sottoterra e a riemergere in forma di cattivi combattuti da Mazinga
Z e dal Grande Mazinga, guidati da Alcor, che quindi non era lo
sfigato numero due di Actarus, ma un protagonista che era passato anche sotto
altri nomi come Koji Kabuto e Ryu…
Verrebbe voglia di dire con Mishima che la
memoria è Lo specchio degli inganni.
E invece, forse, tutto torna. Un
arco di mezzo millennio per scoprire dietro un’animazione tante anime culturali
che danno la visione migliore di un incontro fra i popoli.
Notte inoltrata, un
orario impossibile per il ragazzino del ’78, tempo ideale per condividere questo
ennesimo turbinio di immagini e pensieri a cui ho cercato di dare un senso. Prima
che svaniscano nel sonno, prima di un risveglio in cui passino la consegna ad
altri personaggi, immagini, storie, assaporo ancora una volta dalle Memorie
poetiche della mia amata Murasaki Shikibu questi versi che dedico a chi mi
leggerà: