venerdì 17 maggio 2024

FABBRICHE DI SOGNI Il mio intervento al Festival della Meraviglia

 

Il nostro aprirci sul mondo con le nuove tecnologie è sempre più a tempo (una constatazione, non una sentenza senza appello): cronografie in progressiva accelerazione da riportare sullo schermo di un iPhone, di un PC e, in ultima analisi, su una antica tabula cerata o una vecchia lavagna - gli antenati del tablet - dove scienza, filosofia e arte devono avere senza sosta a portata di mano un cancellino per prevedere a priori o comprendere a posteriori un’incalzante abitudine alla “meraviglia” che rischia di sminuire la formidabile portata di questo termine.

Questo in sintesi il contenuto dell’intervento che proporrò - in dialogo con Giulio Rossini, critico cinematografico e fondatore di Filmstudio 90 -  sabato 18 maggio alle 15.30 nell’ambito del Festival della Meraviglia a Laveno-Mombello (di cui ho già scritto a proposito della Società Ceramica Italiana e del MIDeC), durante l’incontro Fabbriche dei sogni presso Villa De Angeli Frua, sede del Municipio.


Infatti sulle sponde del Lago Maggiore nel weekend lungo del 17-18-19 maggio (ma mostre ed eventi proseguiranno fino al 2 giugno) si terrà la seconda edizione del Festival della Meraviglia. Un Festival che ha come fil rouge il “Dialogo” come mezzo per riflettere sul tema della Meraviglia. Nel corso dei tre giorni infatti, tanti professionisti noti ed emergenti si confronteranno “a-tu-per-tu” col pubblico, in un dialogo aperto, spontaneo e interdisciplinare, tra ecologia, imprenditoria, filosofia, scienza ed arte. “Perché la Meraviglia, lo stupore sia per il 'bello' che per il 'brutto', è alla base di una riflessione su come vogliamo vivere in questo mondo: sia tra di noi, sia insieme a tutti gli altri abitanti del pianeta, viventi e non viventi” sostiene Frank Raes, presidente dell'associazione Casanova che ha ideato il Festival e fondatore del Museum of Anthropocene Technology.


La sede del Museo (fotografia di Debora Ferrari)

Alla meraviglia collegata alle nuove tecnologie avevo già dedicato buona parte del mio intervento Un problema di connessioni alla IULM di Milano del 2 ottobre del 2009, che ripropongo in quanto le sue tesi sono state riprese e approfondite - insieme a numerosi altri saggi, testi teatrali, poesie e racconti - nel mio libro La nostra civiltà è un sogno ad angolo retto di prossima pubblicazione per TraRari TIPI:

Il cammino scolpito più di 3.000.000 di anni fa nel deserto di Laetoli, in Tanzania (memoria di interazione fra viaggio di Australopithecus Afarensis, terra riarsa, cenere vulcanica e pioggia) porta fino in Patagonia, alle mani dipinte con lo sputo nella Cueva del las Manos durante l'ultima glaciazione. Il chopper dell'Homo Habilis prima di diventare mouse deve far premere le cinque dita contro una parete perché lì, dietro quella specie di schermo, c'è la presa di corrente della realtà: ciò che siamo soliti chiamare "meraviglia".

Ogni nuova interazione con la realtà suscita meraviglia. È la ricerca del contatto con realtà sempre nuove e perciò meravigliose che spinge a "navigare" con nuovi meravigliosi strumenti - il PC è solo l'ultimo della serie - per cercare di riprodurre su uno schermo (vuoi la pietra della Cueva, la Stele di Rosetta, un codice amanuense o le tv a polittico di Nam June Paik, i desktop), su uno specchio simbolico in termini di cifre, parole, immagini, l'interfaccia in continua metamorfosi del nostro mondo.


Il 25 maggio, inoltre, ci sarà una presentazione particolare: Atlante delle architetture e dei paesaggi in provincia di Varese dal 1945 a oggi, Silvana Editoriale, a cura di Luciano Crespi, con passeggiata a Laveno insieme ad alcuni architetti per leggere le opere edificate nella cittadina lacustre. Un libro con 200 luoghi censiti e capitoli dedicati alle grandi firme che esce dagli stereotipi dei manuali di architettura per entrare, sempre con grande scientificità, nell’ambito della valorizzazione territoriale, perché anche capire dove abitiamo può a volte meravigliarci. I luoghi dell’arte e della cultura e le schede relative sono stati curati da Debora Ferrari, con cui organizzo mostre di arte contemporanea e dirigo NEOLUDICA Game Art Gallery dal 2008. Il mio nome figura nel testo fra i ringraziamenti per alcuni particolari apporti.

Il meraviglioso è sempre bello, anzi, solo il meraviglioso è bello scriveva André Breton.

Lo riscopriremo nel meraviglioso contesto letterale e naturale del Lago Maggiore.

Luca Traini

mercoledì 15 maggio 2024

JEAN FOUQUET E FRANÇOIS VILLON

 Dal dramma al romanzo teatrale (1992-2010) Frammenti


L'incontro con Enguerrand Quarton: il quadro della situazione

Commento musicale Jacob SenlechesLa Harpe de melodie 


Il genio del pittore, di cui restano solo pochissime opere certe, vola talmente alto da perdere di vista la vita dell’uomo senza data di nascita o morte. Il successo dell’artista scomparve presto, come il poco tempo che gli fu concesso per produrre capolavori. E il volto dell’uomo forse è nascosto nella piccola folla al riparo del manto della Vergine della Misericordia.
Nel mio dramma immaginai un incontro, ad Avignone nel 1466, fra il poeta in esilio e l’artista prima che se ne perdessero le tracce: avevano condiviso il mecenatismo malinconico del re senzaregno, Renato d’Angiò.

VILLON
Perdonatemi, ci siamo già visti?

QUARTON
Vi perdono. Quando eravate ladro mi avete rubato qualcosa. E, quando poeta, restituito altro.

VILLON
Maestro, ho preso solo qualche spina del vostro Cristo morto senza saperlo, quando ero carcerato. E da poeta mai coronato, so bene anch’io cosa significa essere due in uno. Ma voi l’avete perfettamente rappresentato, quando avete fatto Dio a nostra somiglianza in due persone.

QUARTON
Teniamo ancora in equilibrio quella colomba fra le labbra: ogni parola è preziosa.

(Il banditore annuncia tempo di peste. Il pittore e il poeta svaniscono in silenzio).


Alla corte di Renato d'Angiò: pastorale senza lieto fine

Commento musicale Johannes SusayProphilias


Secondo alcune interpretazioni il poeta avrebbe cercato fortuna (senza trovarla) anche alla corte di Renato d'Angiò, forse ad Angers, nel castello dove il re senza regno era nato.
Quel mondo fatato ormai è solo un ricordo, mentre in carcere, a Meungattende di essere impiccato.

VILLON
E da re Renato, che re non è mai stato, ci sono mai stato? E quando è stato che abbiamo poetato e fatto versi come agnelli o vitelli sgozzati per farne pergamene?
Ricordo un castello fatato illuminato a giorno dagli incendi dei soldati.
Re di un regno che non c’era,
A furia di cercarlo hanno messo a ferro e fuoco tutta la scacchiera.


Il caso vuole che re Luigi XI passi per Meung e, in suo onore, qualche prigioniero, se non ha esagerato, venga graziato e liberato.
Un volta tanto la fortuna è dalla parte di Villon, che ringrazia a modo suo.

Questo è un vero re anche se pura prosa per quanto è brutto!
Col suo grande naso ha fiutato sottoterra e sentito il tartufo che marciva in galera: quanto è brutto, quanto è buono anche lui!
Lui mi salva e tu mi hai condannato, re e non re, poeta angelicato: che contraddizione fare versi!
Pastore di greggi armati che brucano fino all’ultima radice, amante di pastorelle smorfiose per cui preda e imbratta pergamene, avvinto da catene di cartone che dice d’oro, d’Amore: ma liberarsi da catene vere, arrugginite, tu non lo sai, no, tu non sai quant’è bello!


Meung: Prigioniero del Romanzo della Rosa, prigioniero delle sue spine

Commento musicale Jehan Vaillant, Par maintes foys



"Echo parlant quant  bruyt on maine
Dessus riviere ou sus estan,
Qui beaulté ot trop plus qu'humaine"

"Eco parlante quando vaga
Un frastuono su fiume o stagno,
Che bellezza ebbe più che umana"

Ironia della storia, Villon viene arrestato e incarcerato a Meung-sur-Loire, la città di Jean, il poeta della parte più cruda del "Roman de la Rose", traduttore della "Consolazione della filosofia" di Boezio e dell'"Arte della guerra" di Vegezio. 
Il prigioniero dialoga con la sua ombra nella quasi totale oscurità del carcere, in uno stato fra la veglia e il sonno.


JEAN DE MEUNG
Eccoti in catene proprio nella mia città
Dopo le rose eccoti le mie spine
Hai ucciso un prete?
Allora te lo sei cercato questo amore claustrale
Sei solo come un cane?
Ti do in pasto la mia traduzione della “Consolazione”

Abbaia Boezio
Forse chi ha fiuto capirà

VILLON
Nessuna consolazione
Solo spine
Prigioniero sottoterra
Come una cattiva coscienza
Come parole che devono restare strozzate in gola
Meglio se in riva alla Loira
Meglio sotto
Come i pesci

Lascio la voce al barcaiolo al mercante al pescatore
A quel fesso di amante che trasporta sulle acque la sua bella
Se solo riesce a spiccicare qualcosa

[…]

JEAN DE MEUNG
Per i carcerieri e gli amanti
Ho tradotto in francese anche l’Arte Militare di Vegezio

Dopo aver militarizzato l’amore
Ho tradotto in robuste catene francesi anche lui

VILLON
Uno che scrive d’amore traduce un testo di strategia militare
Siamo alle solite
Ma in galera mi sarebbe stato utile in entrambi i casi
Di giorno lo stratega
Per cercare una via di fuga
Di notte il teorico dell’amore
Perché in gattabuia ti resta solo quella
La teoria

Però in mezzo a tutto quell’orrore
Bisognava anche cercare di dormire.


Jean Fouquet e François Villon: il pittore e il poeta a corte, in sogno 

Commento musicale Gilles BinchoisAdieu, jusques je vous revoye

Villon

Jean, Jean Fouquet, tu che hai “fou” e sei “folle” a inizio cognome e ti acquieti nella seconda parte, tu hai illustrato in miniature d’incanto i tristi casi di uomini e donne del sommo Boccaccio, puoi allora capire quello che dice san Paolo ai Corinzi, e a noi tutti che danziamo prede della grande ragnatela dell’arte: “Quello che è folle per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti”.

Fouquet

Il poeta fa sua la follia dei santi o è l’uomo che cerca solo una scusa per i suoi crimini? Ti sei convertito sulla via di Damasco o in qualche trivio di Parigi? E qual è la prospettiva giusta che unisce queste due maschere? Io l’ho imparata in Italia, da Beato Angelico. Geometria. E matematica dell’anima. 1+1 deve risultare 1. Che singolarità sei tu, che dormi, sogni e mi compari di punto in bianco qui a corte, come un’epifania da un tendaggio spalancato, come amano farsi ritrarre i sovrani? Allora, monarca solo dei tuoi sogni, cosa vuoi che ti dipinga dei re: i crimini o la loro capacità di guarire le scrofole?

Coro dei cortigiani

Fate passare i malati di scrofole! Fate passare solo i malati che vuole il re!

Villon

Io vorrei un ritratto senza denti, dopo che me li hanno strappati uno a uno come alla tua santa Apollonia, mentre sorrido a bocca chiusa di fronte agli orrori della mia epoca, finalmente innocente. Perché io ho pagato le mie colpe invece loro - tu i nomi li sai perché li hai ritratti - nascondono dietro labbra serrate, impassibili, i denti cariati e sporchi con cui rimasticano le loro vittime.

Fouquet

François, sei proprio un illuso. Sei a corte e pensi di essere ancora nel tuo letto. Io sono il pittore del re, e se vuole dipingo anche la sua amante morta nei panni della Madonna. Diciamo che cerco di vedere il lato migliore in quest’epoca triste, perché abbiamo uno straccio di pace, come quello che uso per cancellare una sbavatura, pulire sommariamente le mani. Almeno la Guerra dei Cent’Anni è finita, questi despoti imparentati incestuosamente fra  loro non giocano più ai grandi massacri. Solo piccoli crimini, quelli abituali. Quelli per il mio straccio.

Villon

La pietra, quella fatale che il tuo santo Stefano regge in equilibrio perfetto sul libro sacro, gioiello dalle tante facce che risplendono taglienti, dimmi: Etienne Chevalier, tesoriere dei nostri re, ha trafugato anche quella dal tesoro dei nostri sovrani?

Coro dei cortigiani

Il pittore, il pittore di corte ora deve pensare solo alle miniature.

Fouquet

Li senti? Se non comprendi, che razza di poeta sei? Ti sembra che i cortigiani abbiano sempre voglia di recitare pregando se il sangue cola dalla testa di un santo e rischia di sporcargli l’abito della festa? Mica vestono tutti i giorni il rosso dei cherubini. Parla del passato piuttosto, meglio se remoto, stendi i tuoi colori per il presente e lascia il disegno d’insieme per il futuro, se capirà, se avrà tempo di capire.

Villon

“Fugit irreparabile tempus”: questo è Virgilio, me l’hanno insegnato a scuola. La scusa principe per cui è sempre emergenza, mai tempo di riflettere, solo di agire. E chi pensa non lo permette, quindi va eliminato. Ho cercato anch’io di seguire l’esempio, nel mio piccolo, uccidendo, rubando, e in grande non me l’hanno perdonato. Tranne quando stavo per essere impiccato e un figlio che aspettava solo crepasse il padre è diventato re e mi ha graziato. Quando si dice il culo, che mi ha salvato, non ha pesato sul corpo lasciato libero di ballare nel vuoto con una corda al collo. Di questo gioco fra legge fisica e morale ho scritto anche in una quartina.

Coro dei cortigiani

Luigi XI concede la grazia ai poeti, purché facciano perdere in silenzio le loro tracce lasciando spazio alla sua prosa.

Fouquet

Ascoltali bene ancora, poeta: giocano se stessi come pedine su una scacchiera, non sono stupidi. Devi contemplare l’essenza vegetativa di questa specie di esseri umani: non è il saggio splendore delle piante - queste s’innalzano verso il cielo - ma la bassa furbizia di chi cerca di affondare radici taglienti, come la mia pietra, nel timore quotidiano che l’avvento di qualcuno li possa sradicare o quanto meno, di norma, potare uno di quei loro rami troppo carichi di spine. Lo sanno, meglio, lo sentono come animali da caccia che siamo creature in esilio, su una tavola, su una tela, su una pagina bianca.

Villon

Io vorrei fuggire nelle Fiandre. Ma ci sono poeti? O è meglio di no? E i duchi di Borgogna? Dove mi conducono? L’Italia, l’Italia, dove forse sono già stato, a cercare un’altra prospettiva, se non come poeta almeno come semplice essere umano, uno che vuole solo vivere tra qualcosa di bello. E magari, confidando per l’ultima volta nella metrica dei tempi, tornare un giorno a Parigi, come te a corte, ma all’osteria “La mula”, finalmente sterile, a raccontare semplicemente cosa c’è fuori. Senza più scrivere, per carità, senza vergare pergamene di agnello sgozzato.

Coro dei cortigiani

Il nostro nemico è la Borgogna: accettiamo qualsiasi delinquente tra le nostre fila pur di farla a pezzi.

Fouquet

Uomo, poeta, artista, perenne ubriaco, cattivo soldato, svegliati, tanto a Parigi non tornerai. Di te, François - non parlo di Villon -  se ancora una volta non vorrai avere le mani sporche di sangue, dovrà perdersi ogni traccia. Le impronte del mio cammino io le tengo serrate come un gregge in uno stazzo, nel passato. Nelle Fiandre Van Eyck, Claus Sluter in Borgogna, Beato Angelico in Italia: tutte sezioni di un’unica prospettiva qui e ora, nei mei occhi. Ma il punto di fuga lo tengo ben stretto, in segreto.

Claus Sluter, Pozzo dei profeti, Certosa di Champmol, Digione, in https://lucatraini.blogspot.com/2018/01/non-solo-machiavelli-e-guicciardini-le.html

Villon

Parole sante, per chi non è mai finito in galera. Io dormo, ma il mio cuore veglia, e domani dovrò uscire dalle porte di Parigi bandito per dieci anni, come una bestia braccata. In exitu Israel de Aegypto cantavano gli antichi. E non c’è nuova polifonia che possa salvarmi.

Coro dei cortigiani

Silenzio! Silenzio! Il re vuole ascoltare in pace la Messa in qualsiasi modo del signor Johannes Ockeghem!

Villon

Un altro Giovanni, come te. E io in esilio nel deserto come il santo, come il popolo d’Israele.

Fouquet

Voce che griderai per l’ultima volta nel deserto affollato delle strade di Parigi, alla fine del sogno voglio rivelarti un’ultima cosa. Un progetto che mi è stato commissionato dal più ambizioso dei vassalli del re, Giacomo d’Armagnac: illustrare le Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio. Bella scommessa per me, singolare scelta la sua. Un messaggio segreto ai borgognoni, agli inglesi? Come Giuseppe tradì i suoi per diventare Flavio, forse lui tradirà il re? Ma che razza di diavolo si può celare nell’arte? Quanto splendore devo aggiungere per evitare l’ombra?

Coro dei cortigiani

Ricordate, sudditi, ricordate: Giobbe pazientò quant’era giusto accasciato nella sua montagnola di merda, ma il re, con la stessa grazia divina, preferirà sempre il trono più elegante. Confitemur: giorno verrà che anche d’Armagnac finirà decapitato e diseredato. Parola del nostro signore, Luigi.

Villon

Ora sì che li sento, grande miniatore: tutti felici se avranno più spazio per sgomitare. E tu che farai? Illustrerai soltanto i soliti Davide e Salomone? Il tomo di quel grande traditore è più grande di una forma di formaggio ma, attento, il suo sapore è amaro. Quando l’antica monarchia si spacca in due come te la caverai con i grandi re del regno d’Israele, uno più peccatore degli altri? Sceglierai solo quelli che si salvano del piccolo regno di Giuda? Basta una semplice pestilenza a fare la storia e gli Assiri fanno a pezzi la torta più grande mentre ci restano secchi quando cercano di azzannare un  boccone più piccolo.

Fouquet

Fare e disfare. Nel mio piccolo farò quanto in grande hanno disegnato e disegnano i re della dolce Francia, scampati a un pesce più piccolo, ma famelico, come il regno inglese. E poiché loro dicono di discendere dai troiani come i romani, io prenderò di mira solo i romani perdenti come Pompeo, anche se cari al nostro Petrarca, a Boccaccio e alla nostalgia degli Italiani che ho visitato, così fieri delle loro piccole, fragili paci. Celando ancora una volta le mie inquietudini. Come l’autoritratto che ho voluto dai contorni dorati mentre emerge dal nero, cosciente di quanto sia apparente, oscuro. Fissalo bene: ho dipinto volto, abito, cappello e nome in oro sfidando la tenebra.

Coro dei cortigiani

Autorità! Autorità di Parigi, cosa aspettate a svegliare quest’uomo che dorme e si diceva poeta?

Villon

Un poeta è sempre sveglio, signori, specie se sogna. Villon è sempre stato sveglio. E tu? Tu, François?


Pace fatta con Parigi?

Commento musicale Josquin DesprezQui habitat


L'uomo François Villon, prima ancora che il poeta, dopo tante traversìe, volle fare pace con la sua città, Parigi.

VILLON
Ci siamo lasciati così male, mia città. Ora invece te lo dico col cuore e in bel latino: “Ave atque vale”, “Addio e stammi bene, curati”.  E tu non dici niente? Devo fingere una brezza per credere che tu mi accarezzi?
Così sia, Parigi Lutezia nata dal fango, come è scritto nel Libro che sia stato per l’uomo: abbiamo ancora bisogno di carezze, come i bambini, come i cani.
Eh sì, che mi hai grattato via come la rogna. Come un cane rognoso mi hai sbattuto fuori di casa.

E poi io - io – sono guarito perché mi è apparsa la Poesia. Veniva dalla taverna del “Cavallo bianco” a quella de “L’asino a strisce”, dove dormivo ubriaco fradicio. Mi diede una tale sberla con quelle candide manine, che ancora mi sembra di sentire un giglio rovente sulla guancia destra.
Strabuzzo gli occhi e ti vedo un viso così dolce - la Bellezza, quella vera, lo sai, ferisce – “Tu dormi” scandì sorridente “ma io, il tuo cuore, veglio”.

Fu allora che Dama Memoria venne dall’osteria “La mula”. Fissai anche lei un po’ demente, anche lei ridente. Che pure mi mollò un ceffone. Lo stesso bruciore sulla guancia sinistra. E la stessa allegria in quest’altra donna alle parole: “Ho reciso il filo della tua vita passata, come una tessitrice”.
E tutt’e due insieme, a me ardente, finalmente sveglio e sorridente: “Godi, figlio nostro, nella tua nuova adolescenza!”.

E svanirono. E mi svegliai di nuovo. Sono sveglio, attento, mi guardo tutt’attorno - dove sono? – in cerca di un po’ di vento.
Parigi, tu lo sai, si dice che il lupo vive di vento. E io lo attendo, per avere in cambio la tua carezza: alita dal tuo fango un po’ di rezzo!


Nota I nomi delle taverne tratti dalla XII strofa del “Lascito”; “Io dormo, ma il mio cuore veglia”, qui rivisitato come gli altri brani biblici, è da Isaia; Dama Memoria è la personificazione del trattato citato nella strofa XXXVI del “Lascito”; “Hai reciso il filo della mia vita come un tessitore” è preso da Giobbe e già citato nel “Testamento” alla XXVIII strofa come “Godi, figlio mio, nella tua adolescenza”, tratto dall’Ecclesiaste, nella XXVII; il detto popolare “Il lupo vive di vento” è nella strofa II del “Lascito”.


Arazzi politici, danze selvagge, re folli

Commento musicale Pierre de La RueAutant en emporte le vent 

“Negli Arazzi di Alessandro Magno,seguendo l’interpretazione di Aby Warburg, vediamo ritratti nei panni di immaginari soldati macedoni il duca di Borgogna Carlo il Temerario e il suo esercito. La lotta contro gli ‘uomini selvaggi’, aggiungo io, è quella contro i francesi, rappresentati alla luce del Ballo degli Ardenti narrato da Jean Froissart. Nel 1393, infatti,quattro danzatori vestiti da ‘sauvages’ che si esibivano col re Carlo VI (che già mostrava segni di squilibrio mentale) erano finiti bruciati vivi nell’incendio provocato da una torcia portata dal fratello del re, Luigi d’Orléans”.

Così raccontavo nel mio corso Alessandro Magno e la sua leggenda (1996). Un arazzo in apparenza esotico, ma concretamente politico. Una danza per esorcizzare aspetti “selvaggi” e “demoniaci” mentre la “civiltà” era in preda alla follia non solo del re, ma delle atrocità della Guerra dei Cento Anni.

Raffinatezza e ferocia che mi avevano già attratto e disgustato nel '92, quando avevo scritto e rappresentato parte del mio dramma: 

VILLON

Tutta questa raffinata nostalgia

Trasudava di vernice fresca.

Dopo i tornei, i balli e i canti

Sarebbe venuta la macelleria.

Poi la noia,

La muffa

E ancora la nostalgia


Luca Traini

venerdì 10 maggio 2024

L’ARTE SVELATA Un libro di grande interesse con un mio contributo

 L’ARTE SVELATA NEL PALAZZO DELLA QUESTURA DI VARESE

Un libro di grande interesse con un mio contributo

Sono molto contento di presentare un testo importante per la storia della mia città, Varese, spesso sottovalutata. Un lavoro ricco di preziosi contributi - curato da una rinomata critica d’arte come Serena Contini e dall’assessore alla cultura Enzo R. Laforgia, stimato professore e storico di professione - a cui ho avuto il piacere e l’onore di partecipare con un mio saggio. Un gradito ritorno all’attività per cui mi ero laureato: lo studio della storia contemporanea (dopo un lungo flirt con quella tardoantica e altomedievale).

Il fatto poi che la pubblicazione esca nel centesimo anniversario del martirio di  Giacomo Matteotti, gigante della vera Politica, trovo aggiunga significato particolare al mio saggio.

Il capitolo di cui mi sono occupato s’intitola Case del Fascio: una dimora, un partito ed è dedicato, oltre che alle tipologie architettoniche e funzionali di queste strutture disseminate per tutta la penisola, soprattutto alla comparazione - e al relativo stravolgimento - di edifici, organizzazione politica ed elementi simbolici socialisti (fascio littorio in primis) operato da Mussolini in qualità di ex dirigente del PSI.

Innanzitutto la trasformazione del fascismo da movimento a partito nel 1921, sul modello di quello socialista (primo esempio in Italia mutuato dalla SPD tedesca), con la differenza della base sociale di consenso (la piccola borghesia cittadina, seguita dalla grande borghesia agraria, infine quella industriale, unite da un’implacabile opposizione contro le conquiste degli operai delle grandi fabbriche e delle cooperative contadine durante il Biennio Rosso), della rapida eliminazione di ogni pubblica dialettica interna e dell’affermazione di stampo autoritario e militaresco del leader.


Sul rapporto tra fascismo e industriali vedi  l'esempio con la Società Ceramica Italiana di Laveno

A seguire, il passaggio dai “covi” dei Fasci Italiani di Combattimento alle Case del Fascio del Partito Nazionale Fascista al potere, della dittatura consolidata e tendenzialmente totalitaria (non fosse stato per la presenza della monarchia e della chiesa cattolica, comunque dal ‘22 e dal ‘29 esplicitamente conniventi). Anche qui il prototipo materiale - non i contenuti, perché il socialismo della Seconda Internazionale era sostanzialmente di natura libertaria e ben inserito nei pur carenti sistemi democratici liberali dell’epoca - era la Casa del Popolo.

Cito dal mio testo: “Prototipo sovvertito alla luce di una nuova visione militarista dell’agire politico, frutto delle esperienze di Mussolini come soldato volontario al fronte, e della guerra scatenata contro gli ex compagni marxisti con la benedizione dei vari governi borghesi postbellici e la loro volontà, poi frustrata dalla monarchia, di usare il fascismo solo come strumento per cancellare le conquiste operaie del Biennio Rosso (1919-20). Le Case del Popolo dei partiti socialisti della Seconda Internazionale si presentavano  generalmente come uno spazio teso a inserirsi in modo pacifico e condiviso nel contesto abitativo, evidenziando elementi libertari e solidali che si esplicavano in centri di funzionamento di cooperative di lavoro e consumo e nell’offerta di servizi assistenziali, mutualistici, culturali e ricreativi. La Casa del Fascio - denominata altresì Casa Littoria o Casa del Littorio, così come Palazzo del Littorio o Palazzo Littorio nei centri urbani importanti - era invece in primo luogo sede di partito, di un partito dittatoriale tendenzialmente totalitario che aveva assunto fin dalla fondazione la violenza organizzata come carattere distintivo e che tendeva a imporre i propri spazi di rappresentanza come caserme, anche se in forma rinnovata, in analogia e competizione con le precedenti strutture monumentali del potere statale e di quello ecclesiastico”.


Terzo punto: un approfondimento sull’appropriazione del fascio littorio da parte del regime fascista. Da simbolo di riscatto plebeo nell’antichità, di rivoluzione repubblicana contro la monarchia assolutista nella Rivoluzione Francese, di rivoluzione proletaria come completamento della precedente nel socialismo del XIX secolo a vera e propria spada di Damocle pendente da ogni edificio pubblico sulla testa degli italiani (stile minaccia alla condanna per decimazione del nostro esercito durante la prima guerra mondiale).

Infatti scrivo: “Costante fondamentale proprio la presenza del fascio littorio, questo sì elemento standard per tutto il Ventennio. C’è da sottolineare che il recupero emblematico di quest’arma simbolica di origine etrusca, divenuta poi caratteristica della cultura latina e in origine portata da littori appartenenti alla plebe, era anche un’eredità della Rivoluzione Francese - sormontata da un berretto frigio, come ancora presente nello stemma di Cuba, o privo dello stesso ma sempre emblema dell’unità democratica della nazione tuttora presentato e spiegato nel sito ufficiale dell’Eliseo - e Mussolini, ben al corrente di questo, l’aveva riutilizzata proprio per sottolineare, in concorrenza coi socialisti (specie quelli appartenenti all’ala riformista), l’aspetto ‘rivoluzionario’ del suo partito. Come denominazione e rimando simbolico all’unione delle classi popolari in lotta viene fatta propria già nel 1871 dal Fascio Operaio fondato a Bologna (affiliato alla Prima Internazionale con tanto di adesione di Giuseppe Garibaldi), l’anno seguente da un’analoga associazione fiorentina, in seguito diventa titolo dell’organo di stampa milanese del Partito Operaio Italiano (1883-1890), tra i fondatori del PSI nel 1892, e assurge a notorietà nazionale soprattutto con le lotte di contadini, minatori e operai dei Fasci Siciliani fra il 1892 e il 1894, represse nel sangue dal governo Crispi (un modello per il primo Mussolini al governo, insieme alla retorica ruralista). Vocabolo ripescato nel 1914 per dare un’idea di compattezza anche ai Fasci d’Azione Rivoluzionaria, composti dalla corrente dei Sindacalisti Rivoluzionari capeggiata da Alceste De Ambris e da ex socialisti come il futuro Duce (che ne pubblicò il manifesto nel suo nuovo quotidiano «Il Popolo d’Italia»), favorevoli all’ingresso del Regno nella Prima Guerra Mondiale e bacino di raccolta per il successivo movimento dei Fasci Italiani di Combattimento, fondato da Mussolini il 23 marzo 1919, non a caso nella sala riunioni del Circolo dell’Alleanza industriale e commerciale in piazza San Sepolcro a Milano, e precursore del PNF”.


Dalla mia nota n.8: "Come si può desumere anche dalle pagine finali di Plutarco dedicate alla biografia di Romolo,
dove lega la creazione dei littori da parte del primo re di Roma alla fase più ‘tirannica’ - nel senso greco di signoria
basata sul consenso dei ceti popolari in funzione anti aristocratica - della sua monarchia”
(Plutarco, Vite parallele, Vita di Romolo, 26, Torino, Einaudi, 1958). 

Intorno a questi tre punti cardine ruota la mia analisi sugli aspetti fattivi, estetici e organizzativi delle Case del Fascio, soprattutto su quelle circa 5.000 (su un totale di quasi 11.000) che furono costruite ex novo. In sintesi, se durante gli anni ’20 l’eclettismo di forme e contenuti che caratterizzava il partito finì per riflettersi anche su queste costruzioni, in un dibattito interno che potremmo riassumere come scontro fra “tradizione” e “modernismo”, negli anni ’30 fu quest’ultima tendenza ad avere la meglio (prima dei convulsi ripensamenti dovuti all’abbraccio fatale col nazismo e il suo tetro “classicismo”).

Il Palazzo Littorio di Varese inaugurato nel 1933, pregevole opera dell’architetto Mario Loreti, si può ben inserire nella corrente modernista (così come gli affreschi all’interno di Giuseppe Montanari e, soprattutto, il bellissimo Sacrario opera di Guido Andlovitz, non proprio entusiasta che il fascismo avesse tolto la “t” troppo slava dal suo cognome). Oggi è la sede della Questura di una Repubblica che ha per fondamento la democrazia forgiata ad arte dalla nostra Costituzione antifascista.

Un architetto romano, un pittore marchigiano, un ceramista triestino… Come ha scritto bene Enzo R. Laforgia, il fascismo varesino fu soprattutto un fenomeno di importazione. Fra primi responsabili di questo poco auspicabile radicamento un personaggio che avevo incontrato durante gli studi universitari, nella mia tesi preparatoria alla laurea - parliamo del lontano 1992 - dedicata alle varie interpretazioni del fascismo da parte delle formazioni politiche che vi si opponevano (data la novità del fenomeno, bisogna dirlo, quasi tutte carenti). Era nientedimeno che il fratello di Antonio Gramsci, Mario, che aveva contribuito a formare il Fascio di Varese. Qualche anno fa gli hanno dedicato un libro, ma all’epoca avevo scovato giusto scovato una nota alla quarantacinquesima delle Lettere dal carcere (29 agosto 1927): “Carissima Tania, giovedì ho avuto il colloquio con mio fratello Mario, che mi ha rassicurato sulle tue condizioni. Ero talmente sovraeccitato per la mancanza di tue notizie, che dopo il colloquio e la scarica nervosa da esso determinata, mi sono sentito male: non ho dormito tutta la notte e devo aver avuto un po' di febbre. Tuttavia non so spiegarmi la mancanza di tue lettere. Mario mi ha detto d'averti invitato a passare qualche giorno a Varese in casa sua. Perché non accetti? ? Il caldo ormai è passato, tuttavia la campagna deve essere ancora gradevole e la regione dei laghi lombardi è degna di essere vista. Mio fratello è un buon ragazzo e sono sicuro che tu ti troverai à ton aise in casa sua. […] potresti ancora fare qualche bella passeggiata; Varese stesso possiede un lago, e delle colline molto belle”.

Sandro Pertini ricorda l'amicizia con Antonio Gramsci in carcere

Io amo profondamente la bellezza della mia città e della sua provincia, ma si tratta sempre di una provincia non a caso istituita proprio nel 1927 e quel vecchio innesto dispotico sulla “città-giardino” e macchie circostanti ha lasciato radici profonde, sfoggiando imperterrito ancora oggi ombre particolarmente nere su tutto il territorio: ce l’ha ben dimostrato il recentissimo documentario-inchiesta apparso su La7.

Per questo, più efficace di una “cancel culture” che tende a eliminare in modo semplicistico una pubblica memoria (con tutti i rischi futuri che ne conseguono), reputo necessario anche per questo monumento dal tragico passato un processo di musealizzazione in grado di contestualizzarlo a fondo con le opportune avvertenze.

Le stesse che ho voluto esplicare a conclusione del mio lavoro: “Non stupisce quindi la polemica lanciata sul New Yorker del 5 ottobre 2017 da Ruth Ben-Ghiat, docente di Storia e Italianistica alla New York University, col suo articolo Why Are So Many Fascist Monuments Still Standing in Italy?. Si tratta di una domanda a cui è bene rispondere in modo razionale, senza farsi prendere dall’emotività, e a cui non basta la giustificazione estetica della grande arte. […] Per la nostra visione democratica del mondo è di fondamentale importanza prendere atto anche del lato oscuro, nero dell’arte quando questa si pone al servizio di una dittatura, di qualsiasi dittatura. Nel caso del fascismo abbiamo chiari i contenuti della sua politica, fondati in primo luogo sull’avversione nei confronti di qualsiasi diversità e su un continuo stato di belligeranza nei confronti di presunti nemici interni ed esterni, modello negativo per tanti, troppi regimi simili che funestarono l’Europa durante tutto il Ventennio. È un dovere degli storici rendere partecipi a chiare lettere di questi aspetti i cittadini della nostra democrazia, che non sono più sudditi di monarchie o regimi, perché ci pensino due volte quando passano accanto o prendono in considerazione certi monumenti e il volume di cui fa parte questo saggio, con le sue analisi precise e aggiornate, è certo un ottimo contributo per comprendere le diverse prospettive di questa complessa eredità”.