Plutarco
è un mio contatto dal 1980. Le sue Vite
parallele, uno dei primi acquisti di libri senza immagini quando, terminata
prematuramente la carriera di atleta (lungo, triplo e 110 ostacoli), tolto il
gesso dell’ultima frattura decisi di balzare nell’agone intellettuale. Tre
meravigliosi Oscar Classici Mondadori a prezzo popolare (non a caso pubblicati
negli anni ’70). 46 eroi a 4000 lire, meno di 100 a testa scolpita (46 Vite
così oggi non le puoi avere neanche remainder). Letteralmente da divorare. Peccato
solo la rilegatura da quattro soldi (una pennellata di colla e via),
immediatamente devastata. Fortuna in casa c’era ancora il mastice del nonno quando
lavorava le scarpe a Porto Sant’Elpidio: mastice doc per unire cultura d’élite
a masse popolari (era la stagione dell’egemonia culturale del PCI). Comunque
che contrasto fra il mio ambiente e quello di tutti quei busti paludati! Ma
come li rendeva vivi in quel profluvio di pagine lo scrittore greco! Plutarco
di Cheronea era quel vecchio barbogio ritratto subito dopo la copertina,
asciugamano in testa e mano sulla tempia: una signora emicrania dopo 1438
pagine.
Erano
i primi mesi di liceo classico, una noiosissima quarta ginnasio (conquista
eroica per mia madre, ma l’avrei capito solo al terzo anno). La prima lettura
dei tre meravigliosi mattoni fu rovinata dalla splendida introduzione del
grande Carlo Carena (anche sua la traduzione), dove si raccontava di come
questo placido nonnetto facesse frustare i suoi schiavi – e io, date le
origini, mi immaginavo uno di loro - con implacabile impassibilità. Era così:
questo signore coltissimo, curiosissimo, magari non originalissimo - ora
platonico ora scettico ora pitagorico ora stoico - non si incazzava mai. Però
la servitù la faceva frustare lo stesso, magari continuando pacatamente a
discutere con la vittima in un dialogo tra sordi. Come Platone o i nuovi
padroni della Grecia, i romani, se uno schiavo non ripuliva a dovere il vomito
dopo i loro simposi.
Avevo
già compreso il lato oscuro della forza dei classici greco-latini e, partendo
da questo cono d’ombra, dall’università in poi ho sempre cercato con fatica di
contestualizzare il dato storico. Ma nella prima lettura, nonostante anche
l’immane sforzo dello scrittore – filosofo, politico, ambasciatore culturale e
poi sacerdote nella congrega misteriosofico-politica del tempio di Apollo a
Delfi – rivolto a dare concretezza a un trait d’union fra le vecchie classi
dirigenti greche e quelle nuove romane piazzando ogni volta un personaggio delle
prime con uno delle seconde, ebbene la mia fu una questione di scelte tranchant.
Temistocle
e Pericle sì, Catone no, Crasso assolutamente no (Volume 1). Lisandro e Silla no
per carità, Pelopida e Timoleonte sì, Alessandro va bene ma con riserva, Cesare
no anche se aveva narrato le sue macellerie con stile perfetto (Volume 2).
Volume 3: Sertorio certo che sì (ci scrissi anche un dramma trent’anni fa e
prima o poi lo riprenderò), Eumene però, Focione bel problema, Gaio Mario sì di
massima, i Gracchi sì convinto (specie Gaio).
Sia
ben chiaro: non mi rimprovero queste ingenuità da minorenne. Sono rimaste come
radiazione di fondo quando sfoglio, sfascio e riempio continuamente di note i
miei classici.
Poi
nel corso degli anni ’80 ci sarebbe stata la sbornia della pubblicazione a
pezzetti di quanto era passato alla storia come corpus dei Moralia plutarchei (alcuni neanche suoi o solo attribuiti). Roba da
snob e per snob - la colpa non era di Plutarco - e ancora oggi li digerisco a
forza. Peggio poi le citazioni da cioccolatini sparse in manualetti per
professionisti o sofisti di vario genere - ve le evito – revival scipito di vetusti
frasari da eruditi.
Lette
e rilette, le Vite valgono per la
qualità con cui furono scolpite dallo scrittore, per la fortuna che il genere
biografico avrebbe avuto da allora ispirando narratori e drammaturghi –
Machiavelli, Montaigne, Shakespeare, Corneille, Racine fino a Goethe e ad
Alfieri - fino a quando nel XIX secolo non se ne cominciò a sentire i limiti:
zero accenni a quelle che oggi sono le fondamentali analisi del contesto
economico e sociale - parlava a chi se la passava bene come lui - problemi in
fatto di cronologia quando non di geografia, scarsa comprensione delle
tematiche militari. Valgono quindi per il grande piacere della lettura e, in
particolare, per l’eredità etica - e politica - del progetto di unire i popoli
facendo leva sulle comunanze della tradizione senza trascurare le differenze. Come
ha ben sottolineato Françoise Frazier: “Plutarco ci ricorda che l’ideale antico
non separava il sapere dalla vita”. L’impegno in prima persona per un fine
sociale e multiculturale, questa oggi è la parte del lascito più importante, da
rivisitare e rielaborare. L’autore, pur essendo greco, non aveva snobbato il
nuovo dirompente impatto della cultura latina, anzi, aveva cercato di farlo
proprio, studiando il latino – anche se a tarda età e in modo imperfetto - e
anticipando tentativi di sintesi che si sarebbero concretizzati – anche se
sempre parzialmente – solo in epoca tardoantica o nel medioevo (ma l’osmosi
sarebbe giunta solo in età moderna col meraviglioso fraintendimento di un indifferenziato
lascito greco-romano da parte di Umanesimo e primo Rinascimento).
Plutarco
muore quando Adriano è ancora vivo. Nientemeno che l’imperatore di Roma si era
mosso dall’Urbe, non per fare guerra ma per visitare in pellegrinaggio una
patria dell’anima che sentiva più sua, la Grecia sempre ideale degli scrittori.
Si era fatto pure crescere la barba come un antico filosofo. Un nuovo, maturo
Apollo, dopo l’amore smisurato, dionisiaco di Nerone negli anni della
giovinezza dello scrittore delle Vite.
E in vecchiaia Adriano lo avrebbe anche nominato procuratore. Tutto sarebbe
filato liscio o quasi nel secolo d’oro delle classi dirigenti civili, degli
Antonini.
Poi
sarebbe arrivata la peste con la riscossa dei popoli ai confini, i “barbari”.
Il
silenzio che regna a Delfi non è ancora scosso dai terribili massacri alle
frontiere quando un altro imperatore romano, un altro barbuto, questa volta
filosofo tout court - anche grazie a un ex schiavo, greco, filosofo (forse
ancora con le tracce della frusta), Epitteto – predilige scrivere in greco, ma
solo A sé stesso. Nessuna nuova
carica con Marco Aurelio, se non in battaglia, e nuove parole per una speranza
diversa: “Bisogna partire con rassegnazione, come l'oliva matura cade
benedicendo la terra che l’ha nutrita e rende grazie all'albero che l'ha
prodotta”.
Questione di biologia, di
politica, come per l’uomo
di Cheronea, questa volta impassibile nella tomba.
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