venerdì 10 maggio 2024

L’ARTE SVELATA Un libro di grande interesse con un mio contributo

 L’ARTE SVELATA NEL PALAZZO DELLA QUESTURA DI VARESE

Un libro di grande interesse con un mio contributo

Sono molto contento di presentare un testo importante per la storia della mia città, Varese, spesso sottovalutata. Un lavoro ricco di preziosi contributi - curato da una rinomata critica d’arte come Serena Contini e dall’assessore alla cultura Enzo R. Laforgia, stimato professore e storico di professione - a cui ho avuto il piacere e l’onore di partecipare con un mio saggio. Un gradito ritorno all’attività per cui mi ero laureato: lo studio della storia contemporanea (dopo un lungo flirt con quella tardoantica e altomedievale).

Il fatto poi che la pubblicazione esca nel centesimo anniversario del martirio di  Giacomo Matteotti, gigante della vera Politica, trovo aggiunga significato particolare al mio saggio.

Il capitolo di cui mi sono occupato s’intitola Case del Fascio: una dimora, un partito ed è dedicato, oltre che alle tipologie architettoniche e funzionali di queste strutture disseminate per tutta la penisola, soprattutto alla comparazione - e al relativo stravolgimento - di edifici, organizzazione politica ed elementi simbolici socialisti (fascio littorio in primis) operato da Mussolini in qualità di ex dirigente del PSI.

Innanzitutto la trasformazione del fascismo da movimento a partito nel 1921, sul modello di quello socialista (primo esempio in Italia mutuato dalla SPD tedesca), con la differenza della base sociale di consenso (la piccola borghesia cittadina, seguita dalla grande borghesia agraria, infine quella industriale, unite da un’implacabile opposizione contro le conquiste degli operai delle grandi fabbriche e delle cooperative contadine durante il Biennio Rosso), della rapida eliminazione di ogni pubblica dialettica interna e dell’affermazione di stampo autoritario e militaresco del leader.


Sul rapporto tra fascismo e industriali vedi  l'esempio con la Società Ceramica Italiana di Laveno

A seguire, il passaggio dai “covi” dei Fasci Italiani di Combattimento alle Case del Fascio del Partito Nazionale Fascista al potere, della dittatura consolidata e tendenzialmente totalitaria (non fosse stato per la presenza della monarchia e della chiesa cattolica, comunque dal ‘22 e dal ‘29 esplicitamente conniventi). Anche qui il prototipo materiale - non i contenuti, perché il socialismo della Seconda Internazionale era sostanzialmente di natura libertaria e ben inserito nei pur carenti sistemi democratici liberali dell’epoca - era la Casa del Popolo.

Cito dal mio testo: “Prototipo sovvertito alla luce di una nuova visione militarista dell’agire politico, frutto delle esperienze di Mussolini come soldato volontario al fronte, e della guerra scatenata contro gli ex compagni marxisti con la benedizione dei vari governi borghesi postbellici e la loro volontà, poi frustrata dalla monarchia, di usare il fascismo solo come strumento per cancellare le conquiste operaie del Biennio Rosso (1919-20). Le Case del Popolo dei partiti socialisti della Seconda Internazionale si presentavano  generalmente come uno spazio teso a inserirsi in modo pacifico e condiviso nel contesto abitativo, evidenziando elementi libertari e solidali che si esplicavano in centri di funzionamento di cooperative di lavoro e consumo e nell’offerta di servizi assistenziali, mutualistici, culturali e ricreativi. La Casa del Fascio - denominata altresì Casa Littoria o Casa del Littorio, così come Palazzo del Littorio o Palazzo Littorio nei centri urbani importanti - era invece in primo luogo sede di partito, di un partito dittatoriale tendenzialmente totalitario che aveva assunto fin dalla fondazione la violenza organizzata come carattere distintivo e che tendeva a imporre i propri spazi di rappresentanza come caserme, anche se in forma rinnovata, in analogia e competizione con le precedenti strutture monumentali del potere statale e di quello ecclesiastico”.


Terzo punto: un approfondimento sull’appropriazione del fascio littorio da parte del regime fascista. Da simbolo di riscatto plebeo nell’antichità, di rivoluzione repubblicana contro la monarchia assolutista nella Rivoluzione Francese, di rivoluzione proletaria come completamento della precedente nel socialismo del XIX secolo a vera e propria spada di Damocle pendente da ogni edificio pubblico sulla testa degli italiani (stile minaccia alla condanna per decimazione del nostro esercito durante la prima guerra mondiale).

Infatti scrivo: “Costante fondamentale proprio la presenza del fascio littorio, questo sì elemento standard per tutto il Ventennio. C’è da sottolineare che il recupero emblematico di quest’arma simbolica di origine etrusca, divenuta poi caratteristica della cultura latina e in origine portata da littori appartenenti alla plebe, era anche un’eredità della Rivoluzione Francese - sormontata da un berretto frigio, come ancora presente nello stemma di Cuba, o privo dello stesso ma sempre emblema dell’unità democratica della nazione tuttora presentato e spiegato nel sito ufficiale dell’Eliseo - e Mussolini, ben al corrente di questo, l’aveva riutilizzata proprio per sottolineare, in concorrenza coi socialisti (specie quelli appartenenti all’ala riformista), l’aspetto ‘rivoluzionario’ del suo partito. Come denominazione e rimando simbolico all’unione delle classi popolari in lotta viene fatta propria già nel 1871 dal Fascio Operaio fondato a Bologna (affiliato alla Prima Internazionale con tanto di adesione di Giuseppe Garibaldi), l’anno seguente da un’analoga associazione fiorentina, in seguito diventa titolo dell’organo di stampa milanese del Partito Operaio Italiano (1883-1890), tra i fondatori del PSI nel 1892, e assurge a notorietà nazionale soprattutto con le lotte di contadini, minatori e operai dei Fasci Siciliani fra il 1892 e il 1894, represse nel sangue dal governo Crispi (un modello per il primo Mussolini al governo, insieme alla retorica ruralista). Vocabolo ripescato nel 1914 per dare un’idea di compattezza anche ai Fasci d’Azione Rivoluzionaria, composti dalla corrente dei Sindacalisti Rivoluzionari capeggiata da Alceste De Ambris e da ex socialisti come il futuro Duce (che ne pubblicò il manifesto nel suo nuovo quotidiano «Il Popolo d’Italia»), favorevoli all’ingresso del Regno nella Prima Guerra Mondiale e bacino di raccolta per il successivo movimento dei Fasci Italiani di Combattimento, fondato da Mussolini il 23 marzo 1919, non a caso nella sala riunioni del Circolo dell’Alleanza industriale e commerciale in piazza San Sepolcro a Milano, e precursore del PNF”.


Dalla mia nota n.8: "Come si può desumere anche dalle pagine finali di Plutarco dedicate alla biografia di Romolo,
dove lega la creazione dei littori da parte del primo re di Roma alla fase più ‘tirannica’ - nel senso greco di signoria
basata sul consenso dei ceti popolari in funzione anti aristocratica - della sua monarchia”
(Plutarco, Vite parallele, Vita di Romolo, 26, Torino, Einaudi, 1958). 

Intorno a questi tre punti cardine ruota la mia analisi sugli aspetti fattivi, estetici e organizzativi delle Case del Fascio, soprattutto su quelle circa 5.000 (su un totale di quasi 11.000) che furono costruite ex novo. In sintesi, se durante gli anni ’20 l’eclettismo di forme e contenuti che caratterizzava il partito finì per riflettersi anche su queste costruzioni, in un dibattito interno che potremmo riassumere come scontro fra “tradizione” e “modernismo”, negli anni ’30 fu quest’ultima tendenza ad avere la meglio (prima dei convulsi ripensamenti dovuti all’abbraccio fatale col nazismo e il suo tetro “classicismo”).

Il Palazzo Littorio di Varese inaugurato nel 1933, pregevole opera dell’architetto Mario Loreti, si può ben inserire nella corrente modernista (così come gli affreschi all’interno di Giuseppe Montanari e, soprattutto, il bellissimo Sacrario opera di Guido Andlovitz, non proprio entusiasta che il fascismo avesse tolto la “t” troppo slava dal suo cognome). Oggi è la sede della Questura di una Repubblica che ha per fondamento la democrazia forgiata ad arte dalla nostra Costituzione antifascista.

Un architetto romano, un pittore marchigiano, un ceramista triestino… Come ha scritto bene Enzo R. Laforgia, il fascismo varesino fu soprattutto un fenomeno di importazione. Fra primi responsabili di questo poco auspicabile radicamento un personaggio che avevo incontrato durante gli studi universitari, nella mia tesi preparatoria alla laurea - parliamo del lontano 1992 - dedicata alle varie interpretazioni del fascismo da parte delle formazioni politiche che vi si opponevano (data la novità del fenomeno, bisogna dirlo, quasi tutte carenti). Era nientedimeno che il fratello di Antonio Gramsci, Mario, che aveva contribuito a formare il Fascio di Varese. Qualche anno fa gli hanno dedicato un libro, ma all’epoca avevo scovato giusto scovato una nota alla quarantacinquesima delle Lettere dal carcere (29 agosto 1927): “Carissima Tania, giovedì ho avuto il colloquio con mio fratello Mario, che mi ha rassicurato sulle tue condizioni. Ero talmente sovraeccitato per la mancanza di tue notizie, che dopo il colloquio e la scarica nervosa da esso determinata, mi sono sentito male: non ho dormito tutta la notte e devo aver avuto un po' di febbre. Tuttavia non so spiegarmi la mancanza di tue lettere. Mario mi ha detto d'averti invitato a passare qualche giorno a Varese in casa sua. Perché non accetti? ? Il caldo ormai è passato, tuttavia la campagna deve essere ancora gradevole e la regione dei laghi lombardi è degna di essere vista. Mio fratello è un buon ragazzo e sono sicuro che tu ti troverai à ton aise in casa sua. […] potresti ancora fare qualche bella passeggiata; Varese stesso possiede un lago, e delle colline molto belle”.

Sandro Pertini ricorda l'amicizia con Antonio Gramsci in carcere

Io amo profondamente la bellezza della mia città e della sua provincia, ma si tratta sempre di una provincia non a caso istituita proprio nel 1927 e quel vecchio innesto dispotico sulla “città-giardino” e macchie circostanti ha lasciato radici profonde, sfoggiando imperterrito ancora oggi ombre particolarmente nere su tutto il territorio: ce l’ha ben dimostrato il recentissimo documentario-inchiesta apparso su La7.

Per questo, più efficace di una “cancel culture” che tende a eliminare in modo semplicistico una pubblica memoria (con tutti i rischi futuri che ne conseguono), reputo necessario anche per questo monumento dal tragico passato un processo di musealizzazione in grado di contestualizzarlo a fondo con le opportune avvertenze.

Le stesse che ho voluto esplicare a conclusione del mio lavoro: “Non stupisce quindi la polemica lanciata sul New Yorker del 5 ottobre 2017 da Ruth Ben-Ghiat, docente di Storia e Italianistica alla New York University, col suo articolo Why Are So Many Fascist Monuments Still Standing in Italy?. Si tratta di una domanda a cui è bene rispondere in modo razionale, senza farsi prendere dall’emotività, e a cui non basta la giustificazione estetica della grande arte. […] Per la nostra visione democratica del mondo è di fondamentale importanza prendere atto anche del lato oscuro, nero dell’arte quando questa si pone al servizio di una dittatura, di qualsiasi dittatura. Nel caso del fascismo abbiamo chiari i contenuti della sua politica, fondati in primo luogo sull’avversione nei confronti di qualsiasi diversità e su un continuo stato di belligeranza nei confronti di presunti nemici interni ed esterni, modello negativo per tanti, troppi regimi simili che funestarono l’Europa durante tutto il Ventennio. È un dovere degli storici rendere partecipi a chiare lettere di questi aspetti i cittadini della nostra democrazia, che non sono più sudditi di monarchie o regimi, perché ci pensino due volte quando passano accanto o prendono in considerazione certi monumenti e il volume di cui fa parte questo saggio, con le sue analisi precise e aggiornate, è certo un ottimo contributo per comprendere le diverse prospettive di questa complessa eredità”.



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