Viviamo nella lunghezza d’onda del visibile e a questa cerchiamo di ricondurre anche quanto le sfugge. Con lo sviluppo accelerato della tecnologia – un discorso che data dalla fine del Neolitico, dall’origine delle città e della conseguente “civiltà” – abbiamo racchiuso la raccolta di informazioni a tutto tondo degli occhi in una cornice ad angolo retto (la nostra forma prediletta di in-formare). E’ una prospettiva che oggi consideriamo “naturale”, come aprire una porta o una finestra, che infatti hanno questa forma e bene si adeguano alla struttura delle nostre abitazioni, siano fatte di mattoni, pietre squadrate o pali in legno verticali e trabeati o incrociati ad angolo retto. Queste informazioni racchiuse di norma in un rettangolo le abbiamo chiamate di volta in volta “stele”, “tavoletta”, “affresco”, “quadro”, “libro”, “televisione”, “schermo” del cinema, del pc o del cellulare: la forma è sempre quella. Se da diecimila anni non riusciamo a farne a meno è perché, oltre a darci un forte senso di stabilità sulla terra con cui descrivere più comodamente quanto ci circonda - la circolarità sulla terra è instabile - e a contrastare con una disposizione internamente compiuta l’horror vacui, grazie alla sua cornice ci permette di delimitare lo spazio delle informazioni rispetto al contesto vitale in continuo mutamento in cui siamo immersi. Non è totalizzante come la vita fisica perché presenta un confine ben definito oltre il quale l’occhio può andare per interrompere la visione, per distrarsi. Dalla vita invece non ci si può distrarre se non in sonno o in sogno, cioè in realtà non vitali e dinamiche in senso stretto e di norma collegate alla morte o all’aldilà.
L’arte più recente invecchia prima.
Questione
di forma, che in tempi ravvicinati si comporta come una moda.
Questione
di storia delle forme, perché oltre l’invecchiamento c’è l’antichità, sia in
termine stretto (Età Antica) che relativo (per i media più recenti si parla di
decine di anni).
Analogia
con la vita: quando siamo giovani non vediamo l’ora di cambiare; quando siamo
passati oltre, parti del nostro remoto sembrano affiorare intatte rispetto a
mutamenti indefinibili dalla cronologia più prossima. Percezioni vive che basta
una vecchia foto a far tornare visioni oggettive. Ma un eventuale ritratto
disegnato o dipinto, tecnica arcaica e quindi nobilitata, fa meno impressione.
Quanto
ai contenuti più generali - amore in primis, nelle sue diverse declinazioni -
questi vengono percepiti e attualizzati, anche a costo di travisamenti, con più
facilità rispetto a quelli più specifici (delegati progressivamente a una
minoranze sempre più di nicchia di esperti).
Spazi-tempi dell'entropia formale
L’“entropia
formale” della nostra cultura si attiva più rapidamente quando lo strumento che
è alla base dell’opera racchiude una maggiore complessità a livello tecnologico
ed è ancora molto diffuso, fruito o usato a livello di massa.
I
casi contemporanei più eclatanti sono quelli della foto, del video e della
riproduzione musicale. Per non parlare di quanto, molto semplicisticamente e
sinteticamente, relazionato ai mondi virtuali generati dalla rivoluzione
informatica, che si parli di computer, di videogame (da pixel o bit delle
origini all’odierno iperrealismo) o di veste grafica e spazi di contenuto dei
social (dalle prime rudimentali chat alle piattaforme transcontinentali di
oggi). L’uso, recente e compassionevole, di una definizione come “vintage”
salva prodotti anche vecchi solo di una decina d’anni da quelle condanne di
“passatismo” che erano caratteristiche del secolo appena passato (censure
violente anche perché rivolte contro fenomeni e resistenze datate nell’ordine
di secoli).
Perché
questo? Perché lo strumento, il medium espressivo, è ancora comunemente usato in quanto
tale e non ha assunto come principale la valenza simbolica di quelli che lo
hanno preceduto. “Tavolozza e pennello” o “penna e calamaio”, per quanto
sostanzialmente superati, hanno creato una tale aura intorno a sé da farli
diventare sinonimo di “arte” come un’epifania e sembrare quasi eterni,
dimenticando la fatica che originariamente hanno fatto per affermarsi rispetto
ai mezzi espressivi precedenti.
Radiazione culturale di fondo
Non
sono passate indenni migliaia di anni in cui l’epoca presente veniva
interpretata come decadenza da una mitica Età dell’Oro. È stato così per quasi
10.000 anni, da quando è sorta quella cultura specifica che noi chiamiamo
“civiltà” perché all’origine dei nostri insediamenti stabili sempre più estesi e che,
finché ha basato la sua economia sull’agricoltura, ha vissuto in diverse forme
un senso di peccato originario, un misto di fragilità e desiderio di
onnipotenza ogni volta frustrato da quelle stesse divinità a cui si faceva
sovrintendere la fertilità dei campi.
Dalla
Rivoluzione Industriale in poi a questa radiazione culturale di fondo si è
sovrapposta, eclissandola ma non senza mai eliminarla del tutto, una nuova prospettiva di
sviluppo e di progresso che ha accelerato dinamica, sensazione e comprensione
di quanto definiamo “cambiamento”, presentandolo in termini sempre più positivi,
soprattutto come “rivoluzione” (rielaborazione tutta terrena e propulsiva di
quanto prima era un tranquillo moto astrale).
Più
di due secoli di escalation culturale che hanno rimesso in discussione e
ribaltato etiche ed estetiche precedenti. Recuperandole tuttavia come oggetto
di studio sempre più approfondito e riconnettendosi in modo critico ad altre
epoche, specie a quelle considerate affini nel desiderio di riappropriarsi
della tradizione in vista di un cambiamento. E questo proprio perché più aumentava
la differenza col passato preindustriale più lo si poteva inquadrare nella sua
diversità. Considerata questa grande diversità di base, si possono allora visualizzare
e considerare la decisa minoranza di elementi simili, simili soprattutto nella
loro immagine generale più che per come sono stati vissuti. La migliore
ricostruzione del passato è quella che ci offre la nostra contemporaneità. È
una bellissima compassione da cimitero, lo dico senza ironia: equivale alla
pietà verso una persona cara che è scomparsa. Nessuno ha mai amato con maggiore
disinteresse il passato come noi, meglio, come i nostri migliori studiosi.
Amore, comprensione e dialogo per la differenza, che dovrebbero anche essere la
cifra diffusa a livello di massa del nostro vivere civile.
La perfetta imperfezione della Democrazia
Per
tornare all’arte, si fa fatica a capire nelle nostre democrazie quanto spesso
sia stata negletta nel passato al di là dei contenuti che erano utili al potere.
Certo, anche oggi è utile alla democrazia, ma la democrazia, è sempre utile
ricordarlo, è migliore di qualsiasi sistema politico del passato - quanto meno
degli ultimi diecimila anni – e in questo breve scritto prendo in
considerazione solo gli esempi migliori.
Abbiamo
recuperato, grazie alla scienza archeologica, civiltà di cui si era persa la
memoria, considerandole con grande rispetto e senza le condanne preventive di
tutte le altre epoche. Abbiamo cercato di ridare vita all’originale cercando
sempre meno di ricostruire in base alle nostre mode. E questo perché la cultura
democratica ha quella cura particolare del singolo individuo che coinvolge
anche le singole culture e/o civiltà. Ha cura di un’equilibrata e paritaria
relazione fra i singoli e quindi è – dovrebbe essere - sempre attenta anche
alle correlazioni fra le diverse culture nel presente come fra quelle passate e
quelle odierne, sempre in vista di quel futuro migliore promesso dal binomio
sviluppo e progresso.
Un
equilibrio fragile e sempre messo in discussione, che ha posto in evidenza come
mai prima la fragilità di ogni esperienza civile e quindi dell’arte. Altro che “monumentum
aere perennius” (“monumento più duraturo del bronzo”) cantato da Orazio:
conservare è un duro lavoro, anche quando si tratta di piramidi.
Elogio dei contemporanei
Divenuti
esperti nel confrontarci con le nostre eredità, cerchiamo di conservare i
nostri passati proprio grazie a quegli strumenti di cui il passato era privo:
le nuove tecnologie. Si tratta di una contraddizione solo apparente perché,
tranne occasionali eccezioni, le epoche che ci
hanno preceduto tenevano a presentarsi, in modo esplicito o implicito e
a seconda delle diverse condizioni (dalle classi più umili alle élite), con il
massimo della tecnologia possibile. Allora come oggi l’abito della festa. Ma le
strade per incontrarsi sono tutt’altro che pulite: occorre liberarsi di
continuo di tutta una serie di preconcetti che rischiano di impolverare le
nostre migliori intenzioni. La polvere delle tradizioni, dopo essere stata
inventariata, va rimossa con estrema cautela, come fa un paleontologo con un
fossile. Ricerca, conservazione e riproposizione devono essere portati avanti
con i migliori strumenti di cui ogni volta si dispone, sia dal punto di vista
degli esperti che compiono il lavoro sia del pubblico a cui si rivolgono. Strategia
e tecnica di questa restituzione del passato al presente in vista del futuro
implicano una più ampia discussione riguardo alla “tecnologia” presa alla
radice del suo significato, che è “discorso intorno a progetti, norme e
strumenti da usare”.
Quali
i modi migliori per ridare vita al passato? Tutti “artificiali”, nel senso
migliore del termine, cioè, frutto di un duro lavoro da parte di esseri umani
per cercare di immedesimarsi in epoche non vissute in prima persona. Facendo
uso della migliore strumentazione presente, spesso inventata per tutt’altri
fini, per conservare quanto altra tecnologia, come quasi sempre successo in
altre epoche, avrebbe semplicemente eliminato come inconveniente. Pensiamo a quanti affreschi medievali sono stati cancellati con una mano di bianco perché non più compresi dal nostro Rinascimento (ma si potrebbero fare tanti
altri esempi in ogni arte). Pensate a tante epoche considerate “decadenti” a
fronte delle certezze, tutt’altro che inossidabili, di altre… E noi, tanto
vituperati contemporanei, a sudare per far tornare alla luce e a cercare di
comprendere tutta la ricchezza di forme un tempo solo motivo di fastidio!
Nuove Tecnologie, nuovo discordo intorno all'arte
Diciamolo:
l’"antico passato" può restare "antico presente" solo grazie all’uso consapevole delle nuove
tecnologie.
Che
lo proteggono come nipoti nei confronti di avoli e bisavoli. Certo, a volte
travisandolo - chi è che non sbaglia e almeno oggi ne siamo coscienti -
pensiamo soltanto ai nostri musei con le loro brave luci elettriche fisse come il
sole quando tutte quelle opere erano viste tremanti alla luce delle candele. Non
è l’unico esempio. Vediamo anche al caso opposto (uno dei tanti), in cui dei
capolavori venivano piazzati in una posizione infelice e lasciti lì: i
Caravaggio della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, provate a goderveli
senza mettere la moneta nella macchina che fa luce.
Oggi (ma è così da più di due secoli), parchi archeologici e monumenti ancora in situ a parte (ma fino a un certo punto, perché anch’essi faticose e mai certe ricostruzioni), abbiamo scelto di salvare il passato dall’antica entropia culturale curandolo in musei, fotografie, cataloghi con foto e documentari in video. Il costo è stato la decontestualizzazione, ma l’abbiamo pagato volentieri cercando di indurre il visitatore - o lo spettatore – a una visione dalla riflessione e dalla fantasia cosciente, aiutati in questo, altro elemento fondamentale, dalla scolarizzazione di massa. È il pubblico che deve rielaborare e immaginare, nei modi prima sperimentati dagli studiosi, come quanto oggi racchiuso dovesse sbocciare e diffondersi, all’aperto o al chiuso, nei periodi della storia o della preistoria presi in considerazione.
Realtà Virtuali in atto
Oggi c’è a disposizione tutta una “realtà virtuale”,
ma in atto a livello planetario, che può rendere ancora più viva l’esperienza estetica
del contatto con esistenza e bellezza forgiate da altre epoche storiche.
Si tratta di uno strumento o, se vogliamo, di un contenitore nella sua sostanza
presente non diverso da quelli ideati da cultura e pensiero astratto (caratteristica
di noi Sapiens) nei tempi che ci hanno preceduto (dal recinto sacro al tempio
quadrangolare alla chiesa al museo).
Naturalmente,
come i musei non hanno soppresso le chiese o i templi, così la realtà virtuale
non elimina le forme precedenti di rivisitazione delle nostre eredità
culturali, ma si pone in simbiosi potenziando la curiosità, la molla interattiva
che ci spinge a confrontarci con quanto abbiamo di fronte, in tutta la sua
ricchezza di connessioni fra passati e presenti (il plurale, se parliamo di
scienza, è d’obbligo).
E come per l’immaginario del Novecento è stato giusto tradurre lo studio storico in immagini in movimento – esempio classico il documentario in ambito cinematografico e televisivo – così, nella concreta realtà virtuale del XXI secolo, non possiamo che trasporlo anche nel medium espressivo che più le appartiene, cioè, quello del videogame, con le regole date dal “game” e i piaceri insiti nel gioco stesso, il “play” (faccio mia la suddivisione di Umberto Eco nell’introduzione a Homo ludens di Huizinga). Non quindi una semplice successione di fotografie (medium che viaggia verso i duecento anni) o un girovagare per nuovi labirinti deformati, ma una visita capace di mettere in gioco l’esperienza di vita e cultura di esseri umani che, proprio sulla base dell’interazione, prerogativa principe di artisti e studiosi, da semplici spettatori diventano protagonisti della riscoperta di un passato che gli appartiene e di cui, grazie anche alla “realtà aumentata” e a tutta una serie di elementi innovativi caratteristici dei nuovi media, vogliono diventare parte viva - perché è questa la realtà concreta in cui vivono - e quindi attiva, per trasmetterla nel futuro nel modo più efficace possibile.
Metamorfosi della Conservazione (un finale aperto)
Non
dobbiamo quindi stupirci né tanto meno scandalizzarci per questo: ci ritroveremo
sempre nel mondo studiato, vissuto e sognato perché torni in forme nuove presenza forte e pregnante contro ogni oblio.
“Riunire,
da collezioni pubbliche o private di tutto il mondo, un gran numero di opere di
un artista nel corso della sua carriera ci permette di esaminare il suo
sviluppo (o l’assenza di questo) con un’accuratezza che né lui né i suoi
mecenati potevano permettersi, neanche quando disponevano di stampe tratte
dalle sue creazioni principali” (Francis Haskell, La nascita delle mostre, Skira, 2008).
Haskell scriveva della nascita delle antologiche, di nuovi punti di vista d’insieme sulla storia e sull’arte mai sperimentati prima e portati avanti con metodo. Parla di stampe, altro medium relativamente recente, figlio della rivoluzione del libro a stampa, più fragile della tela o della tavola originale come un libro stampato rispetto alla pergamena. La modernità – e quindi la modernità del passato – è sempre a rischio. Sta a noi proteggerla con modalità sempre aggiornate.
Perfetta
dunque in senso letterale – e soprattutto umano - è questa imperfezione di
base, forse rispetto alla vita invincibile (forse quella degli archeobatteri),
questa specie di insoddisfazione e fame inestinguibile di vivere nelle forme più
diverse che sappiamo ci appartiene e ha generato quelle inesauribili
metamorfosi che chiamiamo “arte”.
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