Nome dell’autore:
inventato. Nave: “Un punto immaginario sulle onde”. Destinazione del viaggio,
scopo, merceologia: tutto falso. Perché dovrà affondare. Perché è una “nave
bara”, sovrassicurata (brutto aggettivo, paradosso feroce). Di vero, solo la
fatica disumana dei marinai, con o senza nome, comunque inutile perché privi o
privati di ogni documento. Né morti né dispersi, a livello ufficiale.
Ma il finale è
sublime. Le restanti 383 pagine, capolavoro.
Non si esce indenni
da La nave morta: scrittore, personaggi,
lettori.
“Chiamatemi
Ismalele”. Chiamatelo Gerard Gales: è il protagonista del libro.
E lo scrittore - tra
le pagine riaffiorano resti di autobiografia, schegge di paratie taglienti - come si chiamava l’autore? Bruno Traven? Berick Traven Torsvan o Traven Torsvan Croves?
Linn Gale? Otto Feige? Ret Marut?
Forse Ret Marut,
anarchico arrestato dopo il tragico Primo Maggio 1919, quando fu soffocata nel
sangue la Repubblica Bavarese dei Consigli. Parola del poeta e pacifista anche
lui anarchico Erich Mühsam, uno dei leader della rivoluzione scoppiata a
Monaco: l’aveva conosciuto come giornalista, ne avrebbe riconosciuto lo stile
nei romanzi pubblicati anni dopo.
Il primo, I raccoglitori di cotone, ironia della
storia, pubblicato a puntate su Vorwärts, quotidiano della SPD.
Allora potrebbe essere che Traven fosse invece Otto Feige, nato in una
città tedesca oggi polacca e con altro nome, eletto capo del sindacato
metalmeccanici a Gelsenkirchen nel 1906.
O tutti e due la stessa persona, che da Otto passa a Ret, finisce in
Inghilterra nel ‘24 e dichiara al consolato degli Stati Uniti di essere cittadino
americano, come l’alter ego Gerard Gales, nato a San Francisco nel 1882, ma
senza documenti (e senza essere creduto).
In ogni caso, in questo mare di identità diverse, navighiamo sempre
intorno a un arcipelago di personalità che ha come orizzonte di riferimento diversi
assalti al cielo della sinistra dell’epoca - anarchici, socialisti o comunisti
- reduce dagli orrori sulla terra della prima guerra mondiale (la trincea del
pittore socialdemocratico Hans Balushek vale per tutti).
Poi è La nave morta, dato agli stampatori nel
‘26, ultimo fatale rifugio di chi è rimasto privo di ogni sorta di certificato,
privato di ogni identità e del diritto a una vita normale, specie se ha
combattuto una “normalità” insopportabile, scacciato da tutte le polizie di
ogni genere di frontiera.
Le piaghe dei nuovi
confini postbellici stanno ai vecchi punti di sutura purulenti della geopolitica
europea. Dalle pagine rilegate di Traven si libera come un presagio che va
oltre la momentanea ripresa economica di quegli anni, evoca le crisi post ’29,
la terribile normalizzazione degli anni ’30 - fra nazismo e purghe staliniane -
fino ai nuovi grandi orrori della seconda guerra mondiale.
Terra, sangue e
ideologie sanguinarie che tarpano le ali, dove le apparenti vie di fuga sono due
navi, nel libro, due carrette del mare già ridotte allo stremo, specchio una
dell’altra della tragedia che portano dentro. La prima, la Yorikke, forse ispirata al teschio del buffone di Amleto, Shakespeare: “Compagno di
infinito scherzo, di eccellente fantasia; mi ha portato sulla schiena
mille volte; e ora, com'è aborrito nella mia immaginazione!”. La seconda, Empress of Madagascar, porta impresso il
destino di quel regno africano.
Storia di Ulisse proletari senza Itaca. Bruciati dalla sconfitta non
rinunciano a lottare. Come il loro Nessuno, lo scrittore sotto falso nome
approdato – forse già l’estate del ’24 – in Messico, dove la rivoluzione aveva
vinto (anche se gli equilibri restavano precari).
Per tornare nel
ventre di quelle carcasse, dove il lavoro è sotto il livello del mare, le acque
già sopra, come il cielo, una valvola di sfogo concessa poche volte agli occhi,
quando riescono a emergere dall’“inferno pieno di fumo, illuminato da lampi di
fiamme rossastre”. Forma e contenuto saldati nel romanzo come una pala di ferro
per il carbone. Tre caldaie sempre accese, ognuna con tre forni da alimentare e
da liberare dalla cenere. E il fuoco sale alto, oltre il ponte: “Vedevo solo
onde che rotolavano da un orizzonte all’altro, come un’eternità in movimento”.
C’è acqua o eternità
a sufficienza per dare sollievo alle ferite della Storia? Bruciava il ricordo
della Rivolta della frusta (1910) - la vittoria effimera degli afroamericani
della marina militare brasiliana in rivolta contro le stesse punizioni dell’epoca
del Bounty (e ne hanno fatto un cioccolato!) - l’ammutinamento di Kiel (1918),
con tutti quei ragazzi fucilati dal Secondo Reich, martiri di una repubblica
che li avrebbe traditi.
Realismo visionario,
dove l’orizzonte della visione è il vero.
Tutto vero anche
oggi il dolore, la morte non letteraria fianco a fianco di chi non è neppure marinaio, costretto ad attraversare il mare verso le
suture, le piaghe delle frontiere, l’Europa. E ancora marinai, ancora senza
paese, senza nome - il vento batte e strappa le bandiere che vuole - e quei
cargo cercano ancora di attraversare gli oceani.
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