La ragazza, l’ingegnere, l’entroterra marchigiano
Marzo 1973: quei
giganti serbatoi di stoccaggio all’inizio della strada che dal Lido portava a Fermo
città, la Centrale olio/gas di Maria a Mare accanto al futuro della nuova
autostrada e poco prima del Romanico di San Marco delle Paludi. Ho compiuto
sette anni e vado a prendere lezioni di violino al liceo musicale di Fermo per
fare un piacere a mia madre (ho solo lei) ma, educato a guardare al futuro da
una famiglia povera che aveva poco e ancora meno per rimpiangere il passato,
non vedo l’ora di tornare nella mia Porto Sant’Elpidio a contemplare i viadotti della A 14, che sarebbe stata aperta finalmente il mese dopo (avrei perso però tutti quei coloratissimi TIR che passavano sotto casa, sulla via principale del
paese). La musica per me era la danza di quella fiamma che ardeva accanto a
quegli enormi cilindri d’acciaio. Gas o petrolio che fosse, a me bambino
sembrava inestinguibile, come il fuoco della creazione di cui parlava la nonna,
in simbiosi con le due piattaforme petrolifere al largo della piatta distesa
dell’Adriatico, dove credevo di scorgere un altro fuoco che faceva a gara col
sole in un giorno di pace, assoluta. E quante volte sperai di intravedere anche la
Jugoslavia, dove i vicini di casa mi dicevano che tanti popoli diversi vivevano
in armonia grazie al maresciallo Tito...
Illusioni, come quelle
del poeta che era vissuto nella provincia accanto alla mia, Macerata, a Recanati.
Illusioni. Lo diceva anche mia madre, che faceva la maestra e avrebbe voluto
fare solo la pittrice.
E proprio in una visita
a casa sua qualche anno fa - le pareti piene dei suoi splendidi quadri di sole donne, comprensibile horror vacui e di uomini - in una pausa da spatola e
collage le ricordai anche quegli altri fuochi, l’epoca in cui quasi tutti ci
illudevamo che gli idrocarburi avrebbero risolto ogni problema. La Crisi
Energetica dell’autunno del 1973 per noi bambini aveva avuto solo il risultato,
la conquista di poter giocare a calcio in mezzo alla strada. Oggi, concordiamo,
bisogna puntare tutto sulle rinnovabili.
Ma è uno di quei primi
pomeriggi dalla luce strana - c’entra probabilmente il cambiamento climatico - quando
un lontano ricordo inizia a brillare nei suoi occhi. Un ricordo personale, privato - cosa stranissima - di
quelli che non le chiedo mai, perché sono fatti suoi e io detesto impicciarmi
dei fatti altrui, anche quando si tratta della mia famiglia. Però, se vuole
proprio condividerlo, non posso tirarmi indietro.
Primi anni Cinquanta, procedendo
a ritroso sulla stessa strada, oltre Fermo, fino a Monte Giberto. La casa
colonica dove abitava coi nonni mezzadri, quella che ho fatto in tempo a vivere
nella mia prima infanzia, ha una visita inattesa. Un uomo giovane, alto,
biondo, occhi azzurri, bel portamento e un nome esotico - Jim - forse inglese
come quei tre che avevano nascosto in soffitta durante la guerra. Non è il
principe azzurro, ma poco ci manca: è ingegnere dell’AGIP. Un tecnico che non
riesce a restar freddo più di tanto incontrando quella giovane ragazza già
ribelle e cosciente della propria bellezza. È la prima volta che me lo confida,
a ottant’anni e passa, ancora con quel sorriso bello da piccola teppista.
Dev’essere durato poco ma per sempre quell’incontro di sguardi.
E poi c’è la realtà: “C’è tuo padre?”. È fortunato - lo è davvero? - è appena tornato dal suo giro per i paesi intorno come trebbiatore. Adesso sì che mi ricordo il nonno quando parlava di Mattei, del ragioniere ingegnere honoris causa Mattei, e si toccava la punta del berretto: “A d’era unu de nujatri”, “Era uno di noi”, un marchigiano, e uno dava lavoro. Ho conosciuto così il fondatore dell’ENI, molto prima di studiarlo all’università, confondendolo all’inizio col fondatore della Mattel e un altro eroe, Big Jim.
Si chiamava davvero Jim
anche quell’altro ingegnere, quello che venne ad avvisare il nonno che avrebbero
fatto delle indagini anche in quella zona per cercare il metano? Mia madre, che
per principio rifiuta ogni forma di romanticismo, non risponde. Si accende una
sigaretta, la solita Futura. Tempo di parlare di altre cose: prossime visite
mediche, nuovi quadri con le Donne che hanno fatto la Storia… Ma il linguaggio non verbale continua a rivelare
un’altra storia.
Parto quindi per conto
mio a navigare su internet cercando tracce di quella prospezione, di quello
scavare a fondo nelle ere geologiche della terra per dare energia al presente,
per fare luce sul passato.
Nel sito
pionierieni.it scovo un dattiloscritto della direzione mineraria AGIP sulle
attività del 1950. Anno Santo, ma di giubilo anche per l’Azienda Generale
Italiana Petroli, che operava a tutto campo fra Pianura Padana e Marche con un
esercito di tredici squadre di prospezione per un totale di circa 2000 lavoratori
(un decimo dei quali tecnici diplomati e laureati). Data la mole e l’urgenza di
questa specie di campagna di conquista, ci si era rivolti anche a compagnie
straniere (gli anni dello scontro frontale ENI e “Sette Sorelle” erano
ancora lontani): l’americana Western Geophysical Company, l’inglese Seismograph
Service Limited e la francese Compagnie Gènèrale de Geophysique Nella terra di mia madre erano stati spediti
proprio questi ultimi. Quindi che ci faceva un inglese tra i francesi? A
distanza di più di settant’anni dalla liberazione del suo paese dai nazisti da
parte dei polacchi del generale Anders, che dipendevano dall’Ottava Armata britannica,
anglosassone come i tre ospitati e salvati in casa sua, avrà confuso la
nazionalità di chi si era invaghito di lei, subito ricambiato? Sapendo com’è
fatta - e quanto le costi ancora, lei così riservata, rivelare a ottantaquattro anni l’ennesimo amore sfortunato, il primo desiderio di fuga senza seguito - ho qualche dubbio. Ma anche questa volta non chiedo più nulla e si parla di altro.
Sempre di storia, di Storia, ma più antica. Meglio. Meglio pensare che “Jim”
fosse in visita di piacere ai colleghi francesi. Poi, un piccolo aiuto con
questi testoni di italiani che - al contrario di me (facile dirlo oggi) – per
tutta una serie di motivi amavano poco la Francia. Teste cresciute con quel
sole, quegli occhi abbacinati dallo splendore dei campi di grano sulle colline,
dai giochi di luce sulla piatta ma incerta pianura di acque dell’Adriatico.
Come me, che non trovo risposte certe. Neppure quando mi tornano in mente certe parole della nonna, che amava tanto raccontare quanto suo marito tacere: “Avesse stroato lo gasse do’ se statìa nujatri, quanto sarrìa stato mejo: atro che zappa’!”, “Avessero trovato il gas dove stavamo, quanto sarebbe stato meglio: altro che zappare!”. Per comprendere - e rivivere – le grandi attese, le concrete speranze di quegli anni consiglio la visione del documentario commissionato da Mattei in persona a Joris Ivens L’Italia non è un Paese povero (1960).
Ma in quelle terre che
stanno tra i fiumi Ete Vivo ed Ete Morto la fortuna toccò a un altro comune,
Rapagnano.
E Jim, o un altro nome per quel principe ingegnere, sarà
dovuto certamente andare lì. E forse avrà dimenticato quella ragazza di mia
madre. Lei ricorda che passò ancora una volta prima di scomparire. Ma i nonni
sapevano fare bene la guardia. Restò solo quell’incrocio di sguardi, prima che
la mamma finisse a studiare dalle suore. E loro a trebbiare e zappare, senza
che uno straccio di zampillo di petrolio uscisse da quei solchi: succede solo
nei film.
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