Casa Museo Lodovico Pogliaghi in cima al Sacro Monte di Varese, patrimonio dell’UNESCO: la dolcezza del tramonto lombardo fa quasi dimenticare il freddo che scende su questi ariosi contrafforti della Controriforma.
Doveva finire qui lo scultore della porta maggiore
del Duomo di Milano, concepita durante le aperture di Leone XIII e collocata in
piena chiusura antimodernista sotto Pio X. Nella sua giovinezza, lontano
ricordo, i primi importanti lavori portati a compimento proprio nel Comasco. In
qualità di pittore e nel segno della Vergine per la chiesa parrocchiale di
Solzago (1878) e per quella di San Donnino a Como (1885). Sulle orme dell’amato
Benvenuto Cellini il crocefisso e i candelabri per il Duomo del capoluogo
(1886).
La villa, cioè il museo (cosa che era già in vita l’artista), è un coacervo di stili che riassumono il lato ombroso della Belle Époque. Qui abitava un sognatore raccolto in contemplazione sincretica, ma ordinata. Una tradizione figurativa sentita ancora come viva quando già morta e sepolta. E riportata in vita con quella specie di spiritismo scientifico tipico dell’epoca.
Teurgia di bronzo la porta del Duomo, di cui resta
la monumentale anima di gesso nella parete di fondo del grande salone-studio.
Prima: una finestra di alabastro. Perché qui, tranne
qualche apertura su panorami struggenti, lo sguardo è introverso: il passato ha
fatto sua questa casa, che non era né sarà mai contemporanea.
Sarcofagi egizi, vasi cinesi, greci, statue romane,
frammenti, suture di un sogno.
Due tele del Magnasco da intravedere alla luce
tremante delle candele, alcuni caravaggeschi. E tappeti, tappeti enormi, come
puzzle intessuti del Grande Gioco euroasiatico.
Una testa di Dioniso e una di Mercurio reinnestate
su copie romane acefale di originali greci.
Tutto l’insieme è di un’armonia commovente: la
spinta al grandioso, esausta, si raccoglie in un intimo definitivo silenzio.
“Illuminato, immemore e fiorito come un quieto
camposanto. Il tempo non s’era limitato a disfare antiche creature: vi
aveva reso possibili, vi aveva creato raggruppamenti nuovi.” (Marcel
Proust, Il tempo ritrovato).