Questo
vaso di terra, come me
Omar
Khayyâm
Stringere
fra le mani La terraglia italiana (1956) e non scottarsi, perché la
“terraglia forte” deve cuocere a oltre 1200°. Il quotidiano tende al calor
bianco prima di diventare oggetto d’uso. Una luce incandescente nella zona d’ombra
di ogni giorno: dal quartiere Ceramico di Atene alle sponde del Lago Maggiore
dove sorge Laveno-Mombello e sorse la Società Ceramica Italiana, che produsse
questo libro per il suo centenario.
Oggi
le pagine in bianco e nero non rimandano
più alla realtà ma al sogno. Eppure tutto fu così concreto!
Ricordare
che ogni colore prima della cottura rimanda a un altro che plasmerà il fuoco.
Tenere presente che solo l’eccezionalità rende duratura un’abitudine. Quando cessa, resta l’arte.
I bagliori di una nuova arte
Commento musicale: Luigi Russolo (lavenese d’adozione), Risveglio di una città
Il
fuoco di fila ha inizio in alto a sinistra della mia fotocomposizione con i
vasi di Giorgio Spertini, morto giovane come piace agli dei (e a loro
soltanto), apostolo del Liberty in terra lombarda a inizio Novecento: le prime
lampanti novità dopo i confusi strati geologici dell’Italietta umbertina. Poi è
la volta di due opere in piccolo dell’architetto Piero Portaluppi, prese in
prestito dalle Maddalene del Crivelli, dotate di peso e rese quotidiane con un
tocco di pulitura futurista. Se a Liberty e Futurismo aggiungiamo il
fondamentale apporto della Bauhaus, con un nuovo linguaggio formale diffuso a
livello europeo, è chiaro che la stantia definizione di “arte minore” era
andata ormai a farsi benedire.
Superati
i vecchi limiti di velocità – e di fruizione – atterriamo alla metà degli anni
’20, quando è lo stesso Portaluppi a realizzare diversi edifici di classe per lo
Stabilimento Ponte: un occhio alla direzione, uno alla produzione e un rimando
alla lanterna di Sant'Ivo alla Sapienza
del Borromini (come nella centrale elettrica di Crevoladossola di qualche anno
prima). Ci pensano le rotaie di un trenino Decauville a collegare il
gioco di rimandi fra passati e presenti di ogni cottura della Società Ceramica
con le Ferrovie nazionalizzate da Giolitti.
L’innovazione scotta
Commento musicale: Pietro Gori, Inno del Primo Maggio sull’aria del “Nabucco” di Verdi
Un operaio alla guida della locomotiva. Prima di quella della Storia, della conquista del potere da parte del proletariato come da programma di massima del Partito Socialista prima e poi di quello Comunista. Tuttavia, per quanto le vecchie arti minori fossero diventate maggiori già grazie all’intervento degli artisti di cui sopra, sotto, a plasmare concretamente sempre nuovi prodotti, a sostenere il peso di aumenti esponenziali di produzione a costi irrisori e orari massacranti, ad ammalarsi di silicosi (numero incalcolabile ancora oggi), restavano gli operai. Che non si arresero certo alla condizione di semplice “manifattura”, ma coscienti dei propri diritti furono protagonisti di due grandi scioperi: nel 1907 e nel famigerato 1922. Al primo fu risposto con la serrata, al secondo con una pazienza della direzione calcolata sull’ascesa delle azioni del fascismo.
Nel centenario del grande sciopero dei lavoratori
della Società Ceramica Italiana è bene anche ricordare che le masse artefici di
tanta bellezza incrociarono le mani con singolare coraggio - il Biennio Rosso
era finito da un pezzo, fuori dalle fabbriche spadroneggiavano le squadracce
fasciste - e furono sconfitte, dopo sei lunghissimi mesi, solo per fame. Il
contenuto dei meravigliosi piatti, che non ho voluto mettere in mostra, restava
un affare per pochi. Non a caso il potere d’acquisto dei salari del 1919 sarà
riconquistato solo anni dopo la caduta del regime, nel 1949. Lettura
fondamentale per una storia della S.C.I. anche dalla prospettiva operaia il
libro di Giuseppe Musumeci e Luciano Paoli, Laveno
e le sue ceramiche: oltre un secolo di storia, Tipografia Marwan, 1994.
Il potere della ceramica
Commento musicale: Pietro Mascagni, Canto del lavoro
Luci
e ombre di un’impresa di grande successo. La ceramica è solida, la ceramica è
fragile. All’inizio delle candide pagine del libro spicca la foto da santino
del direttore generale Luciano Scotti, posa da pensatore e sguardo penetrante,
preceduta dall’epica qualifica di “condottiero” e sottoscritta da altre che,
dopo Fantozzi, facciamo un po’ di fatica a prendere seriamente (e mancano
quelle di marca fascista che vedremo poi, delicatamente epurate). Dopotutto la
pubblicazione era dedicata a lui, che l’aveva certamente supervisionata con
amore ma era venuto a mancare proprio l’anno del centenario della Società. Alla
luce di un lumino o delle fiamme di un forno l’icona è quella dell’artefice del
definitivo decollo e del grande successo della ceramica lavenese.
Quarant’anni
esatti di potere: dal 1916 al ‘56. Potere familiare: aveva sposato Giulia
Casanova, figlia dell’avvocato Antonio, uno dei principali azionisti della
S.C.I. ma soprattutto cognato di Tommaso Bossi, direttore dell’azienda dal 1895
al… 1916. Nel ’56 la successione sarebbe stata più diretta: il figlio di
Luciano, Annibale (condottiero anche nel nome, però più sfortunato). E come il
padre di Luciano era stato sindaco della nativa Vittuone e Tommaso Bossi aveva
unito la carica aziendale a quella di primo cittadino di Laveno dal 1898 al
1906, così lo Scotti sarebbe diventato sindaco (eletto) anche lui nel 1924 e
quindi di podestà (nominato) dal 1927 al 1934 del nuovo comune di
Laveno-Mombello (con tanto di tessera fascista premio ad honorem assegnata dal
fascistissimo Farinacci). E, dulce – o amaro – in fundo sarebbe stato nominato
deputato del Regno d’Italia dal 1929 al 1943, ricoprendo al contempo la carica
di presidente della Federazione
Nazionale Fascista degli Industriali della Ceramica e dei Laterizi. L’uomo
aveva plasmato come voleva la sua terra.
E c’è da riconoscere che i frutti non avevano
tardato a venire. Nei primi sette anni di dirigenza, grazie a un’efficace opera
di ristrutturazione postbellica, era già riuscito a decuplicare il capitale
della Società portandolo alla notevole cifra di 9.000.000 di lire dell’epoca. Poi
fu la volta di tutta una serie di saggi investimenti in nuove tecnologie e
nella diversificazione dei prodotti, così come in un rapporto consolidato -
verrebbe voglia di dire “preveggente” - con l’industria tedesca (in particolare
la bavarese Rosenthal per la fabbricazione di isolatori in porcellana). Prese a
svilupparsi inoltre tutta una ramificazione di partecipazioni societarie che
alla fine avrebbe partorito un elenco degno di Don Giovanni (Società Nazionale
del Caolino, Immobiliare Cerab S.p.a., AILAI, Mega Costruzioni, Società
Esercizi Aeroportuali S.p.a., SACELT, Società Cave Feldspato, SISBA).
Grandi risultati, certo, che però sottintendevano
sempre il fondamentale basso costo dei salari, che per due volte volle addirittura
diminuire perché considerati troppo alti (unica consolazione: in molti altri
settori industriali - non parliamo poi dell’agricoltura - era peggio). Eppure “Papà
Scotti” (così amava essere chiamato) riuscì a superare indenne caduta del
fascismo e fine guerra, breve arresto a parte: per l’ennesima volta era
riuscito a tenere il piede in due staffe coprendo l’attività di
diversi partigiani.
La sua grande professionalità ebbe quindi modo di
esprimersi anche nel secondo dopoguerra, dove ebbe modo di sperimentare meglio la sua
attività di padre oltre che di padrone: case per gli operai, lavori agricoli
per i reduci, un fondo per gli ammalati di silicosi, una colonia
marina per i figli dei dipendenti (la Casa al Mare a Marina di Pietrasanta,
oggi purtroppo in abbandono) e, soprattutto una Scuola Professionale per
Ceramisti diretta da un esperto di grande umanità come l’orafo milanese
Ambrogio Nicolini.
Nel 1953 la Società Ceramica Italiana è ormai una
città in un paese e raggiunge la massima occupazione: nei suoi stabilimenti
lavorano 2300 persone a fronte di 6750 residenti nel comune. La Società è
Laveno.
Il potere dell’arte
Commento musicale: Goffredo Petrassi: Dialogo angelico, per due flauti
In fatto di padri-padroni lo Scotti fu in buona compagnia - o cattiva, a seconda dei punti di vista - ma, come abbiamo potuto notare, fu in ogni caso un formidabile dirigente d’impresa, capace anche di circondarsi di ottimi collaboratori (per esempio gli ingegneri Meregalli e Chiodi e l'avvocato Tinelli, che lasciò in eredità al figlio). Ma fu grande – bisogna riconoscerlo - soprattutto nell’alto profilo artistico che seppe imprimere all’azienda (dopotutto era un valore aggiuntivo alla qualità della produzione di massa). Se il marchio della Richard-Ginori era garantito dalla genialità di Gio Ponti, la Società Ceramica Italiana seppe schierare a guida dell’apparato estetico personaggi del calibro di Angelo Biancini e Guido Andlovitz. Lo scultore, che rielaborava il passato (godetevi al MIDeC di Laveno gessi e ceramica del suo grande Orfeo incantatore: nella fotocomposizione è l’ultimo in basso a sinistra), e il designer, occhio e mano di sensibilità estrema nel riplasmare in ceramica le metamorfosi della migliore arte contemporanea (scelta difficile fra tanti gioielli: io prediligo soprattutto i suoi vasi globulari di estrema purezza). La continua presenza a Biennali di Venezia e Triennali di Milano testimoniarono l’eccellenza del lavoro e il definitivo approdo nelle alte sfere di questa “arte minore”.
Conquista consolidata dal genio di Antonia Campi, che successe
a Guido Andlovitz alla direzione artistica nel 1962, ma che già da tre lustri
aveva imposto il suo disegno in centinaia di articoli degni delle migliori
avanguardie del suo presente (e del nostro futuro): dai servizi da tè e caffè,
a vasi, piatti e soprammobili, ai sanitari e alla rubinetteria (e il bagno si
rivestì di luce ribaltando la vetusta immagine di luogo sconveniente). Precedente
di un decennio anche la sua consacrazione, alla IX Triennale di Milano del ’51,
quando lo splendido fregio ceramico Landscape
aveva trovato posto in cima allo scalone d’onore accanto alla Struttura al Neon di Lucio Fontana. La ragazza
scelta nel ‘38 come modella per la testa della Minerva Armata del suo maestro a Brera, lo scultore Francesco Messina,
avrebbe ricevuto il Compasso d’Oro alla carriera soltanto a 90 anni, nel 2011.
Forse perché donna e non in linea con i dettami tradizionali della femminilità?
Domanda retorica. E forse lei già ci scherzava sopra da quando, a inizio
carriera nella S.C.I., aveva disegnato (lei che detestava il tè) il meraviglioso Servizio C. 73, dove le teiere evocano altissime galline. La donna
ci ha lasciato tre anni fa. L’artista è nelle migliori collezioni museali di
design su scala planetaria (MoMA di New York in primis).
I grandi poteri
Commento musicale: Luigi Nono, La fabbrica illuminata, per soprano e nastro magnetico a 4 piste
Il costo
di tutto questo smalto, in termini di salute e sfruttamento, lo abbiamo già
sottolineato, fu alto - e un simile prezzo, troppo caro in tutta la storia
dell’arte per i senza nome, non dovrebbe essere mai più pagato – ma se non
altro non fu per invadere il mercato di paccottiglia. Tuttavia l’epoca d’oro
della Società Ceramica Italiana - ironia della storia, proprio all’inizio del
Boom Economico - stava per volgere al termine. Il grande sciopero del 1956 -
l’impresa aveva superato indenne la caduta del regime, ma gli operai non erano
certo più così malleabili in fatto di cottimi e licenziamenti nella nuova
democrazia - e la morte, a fine dello stesso anno, di Luciano Scotti chiusero
un’epoca. L’accurata diversificazione produttiva - strutturata in articoli
domestici in terraglia forte e
in porcellana fine, apparecchi igienico-sanitari in
vitreous-china (adottati da alberghi e transatlantici di lusso), isolatori elettrici in porcellana
(usati per grandi elettrodotti in tutto il mondo) e materiali refrattari – e il successo, garantito non solo dalle vendite
e dai riconoscimenti artistici ma anche dalla costante presenza dei prodotti
nelle maggiori esposizioni fieristiche a livello mondiale, permisero
all’azienda di resistere un altro decennio. Sennonché, ai primi laici segni di
crisi del Miracolo Economico Italiano, parliamo del ‘65, la nuova dirigenza
scoprì di avere i piedi d’argilla e che non c’erano altri forni che quelli
della perenne rivale, la Richard-Ginori, per ridare energia e sostenere il peso
di quattro enormi stabilimenti: l’originaria Ceramica Lago, i Mulini-Boesio, il
Ponte e la Verbano. La famiglia Scotti uscì definitivamente di scena, ma i
libri contabili della riformata Società Ceramica Italiana Richard-Ginori S.p.A.
restavano in attivo (le sterminate schiere dei suoi candidi piatti avevano
ancora la meglio sulle stoviglie in plastica moplen).
Poi
giunsero i fatidici anni ’70, dove tumultuosi cambiamenti sociali e politici e
grandi lotte operaie di un sindacato finalmente unito dovettero confrontarsi
con crisi economiche ed energetiche a livello nazionale e internazionale,
terrorismi concreti neri e rossi e probabili strategie della tensione, duri scontri
a difesa dell’occupazione a fronte di ristrutturazioni e graduali, poi sempre
più incalzanti ridimensionamenti delle attività.
Fu un decennio cruciale per l’industria ceramica italiana, che finì per ritrovarsi in un vortice incandescente di metamorfosi contro natura a livello azionario e societario. Dall’epoca d’oro degli imprenditori a quella dei finanzieri,
in primis nella veste di faccendieri. Perché c’è da chiedersi se personaggi come
Michele Sindona avessero così a cuore invitare amici e pregiudicati all’ora del
tè col servizio della Campi visto che la Richard-Ginori finiva per far parte
della sua famigerata Finanziaria Sviluppo. Ma qui le domande retoriche si
sprecano e l’unica risposta è che nel 1973 il banchiere di Patti, con tanto di
laurea con tesi su Il principe di
Machiavelli, vendeva il suo portafoglio ceramico a un altro bel soggetto, il
ragionier Raffaele Ursini - cresciuto alla scuola del primo “banchiere di Dio”
della repubblica: Michelangelo Virgilito – amministratore delegato della Liquigas.
E non era una questione di combustibile per i forni, ma l’ennesimo gioco
societario di uno dei tanti, troppi biscazzieri della politica economica di
quegli anni - e sottolineo “politica” - estraneo a quanto stava manovrando e interessato
solo al proprio tornaconto finanziario (fu il preludio oscuro alla successiva e
attuale egemonia en plein air di Borsa e finanza sugli aspetti strettamente produttivi).
Parliamo anche di miliardi di vecchie lire buttate al vento (c’è da rimpiangere
la versione santino di Luciano Scotti). Il ragioniere non avrebbe sorseggiato
il caffè al cianuro del banchiere - qual era il brand della tazzina? – ma,
arrestato, provvisoriamente liberato e definitivamente fuggito in Brasile, sarebbe
morto nel proprio letto a Losanna. Richard-Ginori e relativa Società Ceramica
erano intanto finite - nel grande caos del ’77, ma in silenzio e nell’ombra - nell’orbita
della SAI (le Assicurazioni ex Fiat e poi ex Liquigas) e soprattutto nelle grandi
mani di Salvatore Ligresti, altro ex scolaretto, ma decisamente più discreto, di Virgilito…
Il segno dopo il comando
Commento musicale: Charles Ives, The Unanswered Question
Poi
i cambi di proprietà diventano troppi per elencarli, ma la Richard-Ginori
(senza Richard) esiste ancora. La Società Ceramica Italiana no. L’incantevole
bellezza di Laveno forse non vale quella classica della Toscana. Come al
solito, almeno in Italia, l’arte deve restare dove ha avuto la sua cuccia riscaldata
(d’altro canto è vero che c’è chi ha cura di riscaldarla e chi no). Io non sono
d’accordo con questa specie di classicismo ruminato che ossessiona la nostra
cultura, ma devo prendere atto che “Sic transit”. La gloria della Società
Ceramica Italiana, una delle più importanti aziende del settore a livello
europeo - se non a livello mondiale: c’era (e c’è ancora, salvata dallo Stato) la consorella Porcelanas Verbano a Rosario, in Argentina, inserita nel
gruppo dal 1952 - tramontò perdendo un
pezzo dietro l’altro. È vero che già nel ‘79 il ministero dell’industria aveva
nominato un commissario governativo per mettere ordine nell’intrico delle
controllate dalla Liquigas, ma, anche prendendo per buona l’intenzione di
salvare il salvabile, non fece o poté far nulla di fronte alla decisione della
SAI di non rilanciare il comparto ceramico. Ormai, dopo la sconfitta dei
sindacati nella vertenza FIAT del 1980, la parola d’ordine era “ristrutturare”,
spesso eufemismo per “licenziare” o, in breve, “chiudere” .
La
ristrutturazione ovvero lo stillicidio della S.C.I. ha inizio nel 1981, quando
viene messo in liquidazione lo stabilimento Mulini-Boesio. Gli occupati in
quello che resta sono ormai solo 730 (si torna ai numeri di fine XIX secolo, ma
con progressivo aumento dei cassintegrati).
Nel
1982 l’Italia vince i mondiali di
calcio, si torna a cantare l’inno di Mameli, però i dipendenti della storica
Ceramica Lago, ridotti a sole 130 unità, vengono messi in cassa integrazione a
zero ore. Cercano di reagire organizzandosi in assemblea permanente, ma è il
decennio sbagliato. L’anno dopo, quello del primo presidente del consiglio
socialista, viene firmato anche un accordo. Tuttavia la carta non canta più l’Internazionale,
quindi solo una minoranza viene trasferita ad altri stabilimenti del gruppo (Gattinara,
Milano San Cristoforo, Laveno Ponte). Nel caso dello stabilimento Verbano è
bene sottolineare il coraggioso tentativo di salvataggio dal basso contro la
messa in liquidazione operato dalla "Società Ceramica Industriale
Cooperativa Verbano", costituita sempre nel 1982, alla quale partecipano
92 dipendenti, il comune di Laveno Mombello e le comunità montane della
Valcuvia e del medio Verbano. L’esperimento raggiunge il suo massimo successo
nel biennio ’86-’87, quando viene raggiunto un picco di 160 occupati. Segue una
lenta discesa, favorita dalla progressiva perdita di fiducia del sistema
bancario, finché, nel 1997, la cooperativa è costretta alla chiusura. L’ultimo
stabilimento a chiudere i battenti è quello Ponte, sopravvissuto anche alla
temperie degli anni ’80 (i suoi articoli domestici impegnavano ancora 200
lavoratori) e perfino agli alti e bassi del decennio successivo. La fine arriva
col nuovo secolo o millennio, quando della Storia della grande industria della
provincia di Varese è ormai mitologia: Anno Domini 2003.
Restano
le vecchie collezioni di casa, dove non si mangia. Le foto su internet,
impalpabili ma in vendita. I pezzi nei musei: guardare e non toccare. Fare
attenzione al resto, sennò si rompe. E quel giusto silenzio dedicato ai morti,
che però stona con le macchine in produzione, i commenti degli operai, degli
impiegati, dei venditori, del pubblico alle fiere. Tutta la vita che sta dietro
l’arte, prima che sia arte o arte minore o anche artigianato o solo articolo
prima e poi sul mercato, ma che pulsa ancora lavoro.
Resta
il museo, il MIDeC a Cerro, frazione di Laveno-Mombello, cresciuto dal 1971
come i suoi platani che si affacciano sul lago. Stupore dentro, incanto fuori. Meno
inquinate le acque da quando è cessata l’attività industriale, ben restaurata
la sede aristocratica di tardo XVI secolo, Palazzo Perabò. E una nuova
attenzione al passato da parte di autorità e cittadini.
Tutto sommato un lieto fine - in altri posti è andata decisamente peggio – per dare e ridare vita a un inizio diverso. Porterò anch’io il mio contributo a questa rinascita partecipando a una nuova versione virtuale interattiva del museo, di cui vi parlerò.
Ogni
granello di terra nascosto in seno alla terra
Prima
di me, prima di te, fu forse Corona e Gioiello.
Da
volto gentile dunque la polvere tergi più dolce,
Ché
quella polvere, un tempo, fu forse volto gentile.
Omar Khayyâm