Commento musicale Orlando di Lasso, Justorum animae
Ho ritrovato il Ciceroniano qualche anno fa sopra un cassonetto della differenziata per la carta.
Due differenti reazioni. Da un lato la gioia di farlo finalmente mio (all’università l’adozione in prestito era durata solo un mese). Dall’altro il dispiacere di vederlo abbandonato così, dentro una cassetta di cartone della frutta. Mica tanto per il packaging – cultura deriva da coltura e frutta con frutto dell’ingegno stanno bene – quanto perché in triste compagnia di vecchi bestseller buoni sì e no per un’indagine di costume. Certo, meglio così che nell’indifferenziata, ma guarda te che fine per uno dei testi cardine del libero pensiero che aveva scosso l’Europa del 1528 e ancora ha tanto da dire!
Facile scordare quanto il nostro continente sia sempre stato una polveriera e le parole sensate le prime a essere prese di mira. Gli anni del crepuscolo dell’Umanesimo sono una tragedia senza deus ex machina. La stessa Roma è appena sopravvissuta a stento a un saccheggio che ha fatto impallidire Visigoti e Vandali. E opera di quello che doveva essere il suo “defensor fidei”: il sacro romano imperatore! Le speranze di riforma del cattolicesimo infrante dal nulla di fatto sostanziale del V Concilio in Laterano.
A fronte di tutto ciò la massa degli intellettuali, specie quelli della penisola italica, non trova più la forza di reagire, non scava alla ricerca delle cause del caos apparente, ma cerca la fuga nell’ordine irreale della sintassi, nel culto della forma fine a se stessa e del suo idolo, Cicerone: “Costringono all’imitazione idolatrica del solo Marco Tullio.”. Un piccolo esempio di assolutismo letterario parassita dei nuovi sterminati orizzonti di quello politico, chiacchiere fumose a fronte del fumo dei cannoni.
Il dialogo di Erasmo è l’estremo tentativo di aprire una breccia nel nuovo hortus conclusus degli studiosi, di riampliare gli orizzonti d’azione facendo appello a un più vasto e approfondito panorama di studi o, quanto meno, di riallacciare il discorso della forma ai contenuti morali della migliore tradizione ciceroniana.
Certo, oggi siamo a conoscenza dei numerosi chiaroscuri della figura storica di Cicerone, non ci turbiamo più, come Petrarca, se scopriamo dalle lettere private che l’uomo era ben diverso dal principe del foro, dal console e dal mito letterario: lo contestualizziamo avendo chiari i suoi limiti. Ma all’epoca il punto di riferimento era quello. Così come, per Erasmo, il rinnovamento del cattolicesimo all’insegna del ritorno alle sue origini per fronteggiare la riforma protestante (meglio, le riforme) con gli strumenti del dialogo invece di quelli bellici. E nei ciceroniani vedeva una carta in meno da giocare in questa sfida epocale, perché i loro gusti sapevano troppo di neopaganesiamo:
“Nei quadri lo sguardo è più attratto da Giove scivolato attraverso l’impluvio in grembo a Danae che da Gabriele annunziante alla Santa Vergine la concezione divina;
piace di più Ganimede rapito dall’aquila che Cristo ascendente in cielo;
trattiene più dolcemente gli occhi la rappresentazione delle feste Baccanali o delle feste Terminali che la rappresentazione della resurrezione di Lazzaro o del battesimo di Cristo per opera di Giovanni.”. Quanti capolavori della nostra arte rinascimentale in queste parole, tanto sublime nella rielaborazione di temi classici quanto perdente da un punto di vista politico. Arte di potere, di un potere dinastico che tendeva a diventare assoluto anche se dal mecenatismo geniale. Non più arte in grado di guidarlo, se mai ne fosse stata capace, verso una nuova, condivisa “res publica christiana”.
Infatti era troppo tardi. L’operazione fallì. Si alzò un polverone di critiche, specie in Italia e, soprattutto a Roma, feroci. Il grande pensatore olandese finì per ritrovarsi inviso a entrambi gli schieramenti, irreggimentati, specie nelle seconde e terze linee più mediocri e omologate contro qualsiasi critica.
Addio a concetti come “libertas”, “dignitas” e “humanitas” che avevano forgiato il primo Umanesimo e il pensiero erasmiano, vittime sacrificali del “servo arbitrio” luterano e della chiusura a riccio del cattolicesimo. Alla vigilia del Concilio di Trento saranno messi al rogo tanto i libri di Lutero quanto quelli di Erasmo.
Resta la testimonianza, anche oggi quanto mai preziosa, di una mente libera capace di pensare in grande. Da attualizzare in forme nuove prima che il furgone dei rifiuti della storia ne ricicli i brandelli in manualetti da aforismi o, peggio, li abbandoni a marcire nella già enorme discarica indifferenziata della memoria.
“Facessant haec dissidiorum cognomina, ea potius inculcemus, quae et in studiis, et in religione, et in omni vita concilient alantque mutuam benevolentiam. Se ne vadano in fretta questi soprannomi di discordie, e inculchiamo piuttosto ciò che negli studi, nella religione e in ogni genere di vita concilia e alimenta la benevolenza reciproca.” (Trad. Angelo Gambaro, La Scuola Editrice, 1965).
Nessun commento:
Posta un commento