Ho
sempre sfogliato con tenerezza il volume dei Maestri del Colore dedicato a Hugo van der Goes, perché la biografia in bianco e nero riportava solo qualche
notizia strappata al silenzio prima dei suoi accessi di malinconia feroce. Restava
segnata qualche traccia del successo di un artista inquieto - dovevi investire
nel tessile, fiammingo, e sei rimasto prigioniero della trama di una tela: non
avevi neanche trent’anni e, nel 1468, figuravi tra i migliori salari per le
decorazioni delle nozze fra Carlo il Temerario e Margherita di York. Decano
della gilda dei pittori di Gent nel 1474 ma già nell’autunno del ’75 frate
converso nel convento degli agostiniani presso Bruxelles: lo studio innamorato
del nudo nel Peccato originale diventava la slavina umana alle falde
della montagna spoglia della Deposizione.
I profeti aprono lo scenario della sacra rappresentazione dell’Adorazione dei pastori e poi quella profusione di ori nell’Adorazione dei Magi, figlia delle ricchezze – e dell’arte – dei mercanti fiorentini. Il priore del convento, padre Thomas, chiude un occhio ma tu sei ossessionato dall’Antico Testamento, dal Vitello d’oro cui hanno consacrato la loro vita gli agenti commerciali dei Medici, come Tommaso Portinari.
E il Trittico Portinari è il tuo capolavoro e, contraddizione dell’Arte che pretende la consunzione, forse lo termini in convento. Ora è il momento della musica.
Gilles Binchois, Amoreux suy per il ritratto della giovane figlia del committente, Margherita, fulgida bellezza bionda accanto alla madre diafana.
Tu, come
scrive il tuo compagno di noviziato Gaspard Ofhuys, vinci l’autodistruzione e
la condanna di Dio: esci dalla “frenesis magna” per morire, come si dice, “sano
di mente”.
Forse
volevi diventare anche musicista ma il tempo, il tempo… Il genio vuole provare
tutto prima che sia troppo tardi. E io, insano per la tua bellezza, non posso fare a meno di dedicarti il Planctuso la Déplorationdi Ockeghem sulla morte di Binchois.
Forse proprio nell’epoca degli iPhone possiamo
riscoprire la cura degli strumenti della nostra comunicazione, perché sappiamo
quanto sono ingombranti, fragili e costosi. Fino al secolo scorso le nostre
parole al telefono non pesavano nulla e il carico delle pagine stampate, tranne
eccezioni, risentiva poco della legge sulla caduta dei gravi. Merito della
tecnologia, che da Gutenberg in poi ha reso la quantità delle nostre
conoscenze una qualità sempre più leggera da comunicare. Ma prima i manoscritti
avevano sempre richiesto braccia forti per essere tramandati.
I libri belli e rettangolari come li conosciamo - e
ne ho sviscerato a fondo il senso per la Biennale di Venezia nel mio testo La nostra civiltà è un sogno ad angolo retto - sono un’eredità tardoantica sviluppata con successo dalla diffusione dei
testi cristiani. Prima c’era il volumen, lunghi fogli di papiri arrotolati,
dalla lettura più difficile, racchiusi in confezioni che ricordano faretre per
frecce. Già in questa forma, tuttavia, il libro si presentava come arma, sia
offensiva quale dardo che difensiva in quanto scudo, perché nella storia i
database delle civiltà sono stati questo. La nostra missione oggi è quella di
rendere questo patrimonio non più strumento bellico, ma di condivisione e comprensione
in segno e grafia della parola “pace”.
Tornando alle impronte lasciate più a fondo nella
terra in ragione del loro peso, legge di gravitazione universale newtoniana o
possibili gravitoni quantistici, è un dato di fatto che avere la disponibilità
di scritture - specie nel medioevo - significava sacrificare greggi per avere
pergamene e caricarsi una bella quantità di chili al fine di leggere la
Scrittura per eccellenza - la Bibbia – o approfondirne il rapporto del Pastore con
la società per mezzo di mattoni stile La
città di Dio di Agostino, che non riesco a non leggere all’insegna dell’“odi
et amo”.
Scrivere, sfogliare o copiare un libro era infatti
come costruire o visitare una nuova città ideale, con le sue vie parallele –
sviluppo degli originari solchi scavati dagli aratri, “negro semen seminaba”:
ricordate l’Indovinello veronese
studiato a scuola? - da seguire fino in fondo o da incrociare per fornire una
correzione, una segnalazione, un commento. E sempre ad alta voce - immaginate
il mormorio in crescendo delle biblioteche antiche o, nel secolo scorso, i miei
nonni che dovevano comprendere allo stesso modo una pagina perché avevano fatto
solo qualche anno di elementari - perché in ogni caso si trattava di una
cerimonia cruciale per arricchire la memoria (giustificazione trovata dopo una
lunga condanna dei testi scritti da parte della sapienza tradizionale, vedi il
caso di Socrate o l’imbarazzo anche di un sublime scrittore come Platone.
La lettura mentale è una conquista recente fatta di precisi e chiari segni di
interpunzione (specie per quanto riguarda la poesia), partorita dal silenzio
monastico e cresciuta a colpi di nuove vulgate e nerbate da un’ordinata
burocrazia del pensiero, parallela a quella sviluppata in politica con la formazione
dagli stati moderni.
Libri che bisognava conquistare attraversando reti
stradali sconnesse e piene di pericoli, al cui confronto la nostra Rete
virtuale è uno scherzo.
Piuma d’oca, stilo, biro, linotype, stampa
digitale: sembra la realizzazione dei sogni metafisici degli antichi. Invece a
loro erano destinati mole e frantoi di quelle pagine così pesanti per rarefare
ogni riflessione. Fogli preziosi da utilizzare con parsimonia abbreviando le
parole come nei nostri vecchi sms, pergamene dove grattare via contenuti
considerati vecchi per trascriverne dei nuovi, come nei famigerati palinsesti,
quelli per cui hanno perso la vista studiosi come il mio caro Studemund (le
commedie di Plauto celate dalle tragedie del Libro dei Re.
Per i dettagli sulle moli pergamenacee delle opere
cito quanto riportato da uno dei miei, leggeri, testi preferiti, La formazione dell’Europa cristiana di
Peter Brown: “Per avere tutte le opere di Gregorio Magno bisognava produrre,
con paziente copiatura, qualcosa come 2100 fogli di pergamena, del peso di 50
chili (la standard edition moderna ne pesa solo 3!). Per realizzare una Bibbia
di un certo pregio si richiedevano le pelli di oltre 500 pecore”.
Dagli eserciti fuoriusciti dai monasteri (80 monaci
più l’abate Ceolfrith per portare da Wearmouth a Roma la più perfetta copia
della Vulgata di san Gerolamo, i 35 chili del Codex Amiatinus) , nuovi padroni della parola, alle schiere di
filologi che da Petrarca in poi devono combattere con i topi una nuova Batracomiomachia per salvare i
manoscritti ed emendarne la mole di errori di trascrizione. Specie per i testi
laici antichi, Storia naturale di
Plinio in primis, database fondamentale fino a buona parte dell’Umanesimo. Poi
sarebbero state le controversie sui testi sacri a fare la differenza, perché
dai fogli che sono come foglie non si può non passare alle radici, specie se
sono piantate in contesti politici ben precisi. Pesare le parole non è solo un
modo di dire.
Infatti, anche prima di questi nuovi innesti, non
si tratta solo di valutare il carico quantitativo: dobbiamo prendere in considerazione
anche il peso qualitativo. Il libro manoscritto mantiene un aspetto, diciamo così,
magico finché la stampa non si diffonde a livello di massa. Se un profeta come
Ezechiele si divorava un intero rotolo scritto per volontà divina e lo trovava dolce come il miele, nell’alto medioevo, parola di un innamorato della parola
scritta come Beda il Venerabile, venivano ancora triturate a scopo medico
pagine della Sacra Scrittura provenienti dall’Irlanda, patria di un rivoluzionato
studio dell’eredità cristiana: "Come ho visto io stesso, poiché certuni erano stati morsi dai serpenti, furono raschiati alcuni fogli di codici provenienti dall'Irlanda e questa raschiatura, messa nell'acqua e data da bere, subito portò via tutta la violenza del veleno e il gonfiore del corpo." (Storia ecclesiastica degli Angli I,1). E infatti Colombano, l’esponente
più illustre di questo rinnovato fervore, lo scoviamo nelle pagine del suo
biografo, Giona di Bobbio, mentre nei suoi vagabondaggi nel continente europeo vaga
armato dei suoi enormi libri che riempiono di stupore le folle. Sembra di vedere la scena di uno dei film che più ho amato, Aguirre furore di Dio, quando i
conquistadores, per quanto persi nei labirinti fluviali dell’Amazzonia, restano
fanaticamente certi che il Libro della Scrittura parli di per sé (ma non per i
poveri indios, a cui quella cosa dalla forma innaturale non dice niente).
C’è da chiedersi ancora oggi cosa teniamo in mano
quando sfogliamo pagine di carta inchiostrata. Dobbiamo essere consapevoli che,
anche se devoti al culto della pagine stampate (come il sottoscritto, per
quanto di mestiere si dedichi al virtuale), quanto maneggiamo, anche se
digitale, ha un carico di complessità tutt’altro che esente da errori e orrori,
che vanno sempre rilevati, specie per le nuove generazioni. Perché la
leggerezza è sempre una conquista gravosa. È un nostro dovere avere fiducia nel
progresso al fine di raggiungere questo traguardo.