Per assaporare un videogame colto cosa c’è di
meglio di un po’ di letture come si deve per aumentare il feedback col
gameplay?
È vero che dopo le ultime puntate più contemplative
e raffinate nell’Egitto tolemaico e nella Grecia classica qui si torna a
prediligere l’aspetto bellico, ma sono certo che il mio amico Maxime Durand, a capo dello staff di storici Ubisoft, avrà perfettamente curato la
ricostruzione dell’epoca in cui è ambientato il gioco.
IX secolo: Vichinghi ancora “pagani” contro
Anglosassoni cristianizzati da appena due secoli e con le regole della Chiesa
di Roma che avevano avuto la meglio su quelle di ascendenza irlandese. Due
termini che riassumono due diversi insiemi di popolazioni germaniche che si
erano mosse via mare in tempi diversi quando ormai, dopo il
V secolo, era impossibile farlo via terra a causa dei regni romano-barbarici consolidati
sul continente. Con
l’avvertenza che diverse circostanze storiche avevano trasformato culture
agricole sostanzialmente pacifiche in genti bellicose all’avanguardia nel campo
della navigazione e che, nel caso dei “Vichinghi”, parliamo di una minoranza
guerriera in ambito scandinavo, spesso di carattere multietnico (è attestata la
presenza, quasi sempre in funzione di subordine, di numerosi elementi celti,
slavi e di altri ceppi germanici nelle flotte piratesche impegnate nelle varie
scorrerie).
Amando poco fantasy e storie romanzate ho
incontrato solo all’università l’epopea norrena, nei suoi aspetti meno
attraenti: contese e cavilli sul diritto agrario che appassionavano tanto
questi popoli quanto le razzie estive. Poi la poesia, così artificiosa quanto
affascinante, con quelle “kenningar”, perifrasi e metafore che, unite a
colossali bevute di birra, davano un gusto superiore a una vita ossessionata
dai rigori del clima e dalla perdita di status (l’esatto opposto delle odierne
democrazie scandinave e della politica del mio amato Olof Palme).
Le saghe che ho più apprezzato, sempre con un misto
di attrazione/repulsione, sono state La
saga degli uomini delle Orcadi e La
saga di Egill, entrambe ottimamente curate da Marcello Meli. Guarda
caso, entrambi i libri recano in copertina miniature medievali che
rappresentano l’invasione dell’Inghilterra da parte del vichingo danese Ivar
Senz’Ossa (865), fulcro delle avventure del videogioco.
Nel primo caso l’epica degli “jarlar”, dei capi dell’aristocrazia di quel capolavoro della natura che sono le Isole Orcadi, canta il loro inquieto vagare per l’oceano (“Arduo è distinguere quel che arriva prima, se l’inferno o la gloria duratura”) fra il nord della Scozia (di cui l’arcipelago verrà a far parte solo nel 1468), l’Irlanda e la Scandinavia in un periodo che va dal X agli inizi del XII secolo. Così come il difficile rapporto con il resto della rissosa nobiltà locale, tanto avvezza a un grande spirito di ospitalità fra pari quanto poco disponibile a farsi mettere i piedi sulla testa nel nome di un’antica “libertà” (ancora alla fine del X secolo, durante le razzie nell’impero carolingio in crisi questa gente era solita rispondere ai Franchi che chiedevano di dialogare con il loro capo: “ Nessuno è nostro capo: siamo tutti uguali!”).
Nel primo caso l’epica degli “jarlar”, dei capi dell’aristocrazia di quel capolavoro della natura che sono le Isole Orcadi, canta il loro inquieto vagare per l’oceano (“Arduo è distinguere quel che arriva prima, se l’inferno o la gloria duratura”) fra il nord della Scozia (di cui l’arcipelago verrà a far parte solo nel 1468), l’Irlanda e la Scandinavia in un periodo che va dal X agli inizi del XII secolo. Così come il difficile rapporto con il resto della rissosa nobiltà locale, tanto avvezza a un grande spirito di ospitalità fra pari quanto poco disponibile a farsi mettere i piedi sulla testa nel nome di un’antica “libertà” (ancora alla fine del X secolo, durante le razzie nell’impero carolingio in crisi questa gente era solita rispondere ai Franchi che chiedevano di dialogare con il loro capo: “ Nessuno è nostro capo: siamo tutti uguali!”).
Foto delle Isole Orcadi di John Ireland
Di particolare interesse, a mio avviso, il viaggio
dello “jarl” Rögnvaldr in Terrasanta (1151-1153, capitoli LXXXVI-IX), con il
suo innamoramento per Ermengarda di Narbona, i suoi combattimenti in Galizia e
Sardegna, il servizio militare prestato a Manuele Comneno (già nella mia amata Cronografia di Michele Psello è descritta la guardia
personale dell’imperatore composta da “Vareghi”, scandinavi), il suo sbarco a
San Giovanni d’Acri con tanto di pestilenza e il sospirato arrivo a
Gerusalemme con traversata finale a nuoto del Giordano.
"Paganusque ferus surgens aquilonis ab axe"
"E il feroce pagano che spunta dal polo nord"
Con Egill torniamo al X secolo e con un orizzonte
ancora più allargato: dall’Islanda (terra di conquista) ai Paesi Baltici (luogo
di razzia). Questa eccezionale figura di poeta guerriero (che oggi non
esiteremo a definire psicopatico di una dinastia di psicopatici), tanto bravo
nell’uso delle armi quanto nella poesia (“la pialla della lingua"), rappresenta
il ribelle per eccellenza al consolidarsi della
monarchia norvegese da Aroldo Bellachioma in poi. Nella saga il
protagonista arriva solo a pagina 73 ma a 3 anni è già quel fenomeno tutto
chiaroscuri che occupa le successive 200 pagine, fino alla morte e alla
conversione del figlio Þorsteinn al cristianesimo: “Crescendo si vide
subito che sarebbe diventato piuttosto ombroso e, come era stato il padre, nero
di capelli. Già a tre anni era alto e forte, come lo sono gli altri ragazzi, ma
a sei o a sette anni. Precocemente dimostrò facondia e inclinazione a usare le
parole, ma era difficile trattare con lui quando giocava con gli altri giovani”.
E’ il preludio alla carriera di un grande “berserkr”, quel tipo di guerriero
invasato capace di fare stragi senza nemmeno accorgersene e cadere da uno stato
di forsennata euforia a un altro di prostrazione profonda. Perfettamente a
proprio agio nella guerra, perennemente a disagio in una situazione di stasi. Pronto
a combattere sotto qualsiasi stendardo che non sia quello del proprio re e dei
suoi successori, che vede come tiranni. Infatti il suo datore di lavoro ideale – e amico - sarà il re Atelstano I d’Inghilterra, nipote di quell’Alfredo il Grande
presente come antagonista nel videogioco.
Egill finirà, vecchissimo, i suoi
giorni in Islanda, zona franca di rifugio di tutti i ribelli, preso in giro
dalle donne toste della sua gente per aver voluto avvicinare in giorni
particolarmente freddi i piedi al
focolare, proprio lui! “Brancolo cieco verso il focolare,/ – e tregua chiedo
alla ‘Syn della lancia’ (Valchiria)/ per questa infermità che opprime le ‘ossa/
alle palpebre intorno’”. Era diventato cieco. Morì e non vide il suo cranio “straordinariamente
massiccio” esposto nel recinto della chiesa di Mosfell, quando per decisione
della libera assemblea degli Islandesi il cristianesimo divenne religione dell’isola.
Si tentò di spaccarlo con un’ascia col risultato che divenne ancora più bianco.
Forse un simbolo di quel tentativo di fare chiarezza sul passato che avrebbe
animato più di un secolo dopo il vate dell’Islanda, Snorri Sturluson, l’autore
dell’Edda in prosa, forse discendente
per parte di madre da Egill (e c’è chi dice autore della stessa saga).
Ma in Assassin’s
Creed non poteva mancare l’eroe colto in senso classico (ricordate Ezio
Auditore?) e, in questo caso, anche se in funzione di antagonista, troviamo
Alfredo il Grande, re del Wessex dall’871 al 901. Imbevuto di cultura latina,
riuscì a sconfiggere definitivamente gli invasori danesi nell’896 grazie al
riutilizzo di alcune tecniche belliche dell’esercito romano, ordinò l’apparato
amministrativo e giudiziario seguendo l’esempio di Giustiniano e riorganizzò il
sistema scolastico fondando una scuola palatina sul modello di quella di Carlo
Magno. Contribuì alla stesura della Cronaca
anglosassone, prima opera di storia scritta in inglese antico, e fece
tradurre dal latino in volgare tanto la Storia
contro i pagani di Orosio (che vedete sul mio tavolo qualche anno fa mentrescrivevo Il Dittico di Aosta) quanto
la Storia ecclesiastica degli Angli
di Beda il Venerabile (solo per fare qualche titolo).
In questa valorizzazione della letteratura
anglosassone, per una maggiore comprensione della cultura di questo popolo, non
possiamo non far rientrare due capolavori di due diverse epopee, scritti fra
VIII e IX secolo.
Quella pagana, più nota, rappresentata dal poema
anonimo Beowulf, a cui si sono già
ispirati diversi film e videogame. Beowulf è un eroe che presenta molte
analogie con l’Egill di cui sopra, anche perché si muove fra Germania del Nord
e Scandinavia meridionale, luoghi d’origine degli Angli e dei Sassoni.
“Un uomo carico
di frasi superbe di canzoni
a memoria,
che rievocava a stormi lontane leggende
di ogni tipo possibile, inventava parole
nuove, legate a norma. Poi l’uomo prese a dire
dell’avventura di Beowulf con perizia e a comporre
rapidamente un racconto sapiente, a variare le frasi.”
Beowulf,
868-874
Quella cristiana, decisamente meno conosciuta, con il
primo grande poeta di cui ci sia rimasta l’opera completa: Cynewulf. Certo, non
siamo più nell’epoca marziale tutta Antico Testamento della prima poesia
anglosassone di Caedmon, ma gli accenni drammatici ed eroici non mancano certo quando
fa parlare l’Albero del Signore nel suo poema Il sogno della Croce (un albero che ricorda non poco – e non a
caso: viene innestata una sostituzione del sacro – il frassino Yggdrasill di
Odino).
“Fu lungo tempo fa – ancora lo ricordo –
Allorché io fui abbattuto sul margine del
bosco
[…] Dei guerrieri mi portarono sulle
spalle,
Finché non mi posero su un monte,
ove assai nemici mio fissarono. Io vidi
il Re degli uomini
affrettarsi con grande coraggio, ché Egli
voleva ascendermi.
[…] Tremai allorché l’Eroe mi abbracciò;
ma non osai piegarmi a terra,
cadere al suolo, ma dovetti restar salda.
Quale Croce fui innalzata; sostenni il Re
possente,
il Signore dei Cieli; non osai chinarmi."
Cynewulf, Il sogno della Croce, 28-45
E pensare che tutto era iniziato con la leggenda di
papa Gregorio Magno che aveva incontrato degli Angli al mercato degli schiavi
trovandoli così belli da fargli pensare a una radice etimologica che li
collegasse ad “angeli”. Aveva così spedito in missione verso l’ex
Britannia romana – e questo è un fatto storico – il monaco Agostino nel 596: il
futuro – e santo – primo arcivescovo di Canterbury (601-604). Evangelizzazione
tutt’altro che facile, ma che avrebbe avuto la sua consacrazione col primo
pellegrinaggio a San Pietro di un sovrano anglosassone, Caedwalla, che aveva appena abdicato al trono del Wessex e morì proprio a
Roma. Fu ricordato con un solenne epitaffio.
"Gloria, dovizie, prole, regno, potenza,
trionfi,
nobili guardie, mura, città, famiglia,
tutto
che la virtù degli avi e lui stesso aveva
adunato,
Caedwalla potente in terra lascia per
amore di Dio,
venendo, re pellegrino, a Pietro e alla
sede di Pietro
[…] Convertito, depose lieto il furore
barbarico,
indi il suo stesso nome: e Pietro volle
chiamarlo
il papa Sergio."
(Mosaico romano del VII secolo, foto di Sailko)
E l’epilogo dell’epoca di “furore barbarico” dei Vichinghi,
tutti ormai cristianizzati, giunge convenzionalmente nel 1066 con l’invasione
normanna dell’Inghilterra. Ironia della storia: i Normanni, in buona parte danesi
ormai francesizzati, sconfiggono il re anglosassone Aroldo, danese per parte di
madre, e riescono a mantenere la loro conquista come invece non era riuscito ai
discendenti del re di Danimarca Canuto il Grande, che aveva già fatto sua l’isola
esattamente cinquant’anni prima.
Sembra un gioco. E nel caso di Assassin's Creed Valhalla lo è. Ma il teatro del gioco – e di questo in
particolare - esorcizza la storia nei suoi aspetti più crudeli: il sangue
virtuale come catarsi di quello vero.
E ora che le regole del game sono state arricchite
il piacere del play sarà doppio.
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