Connessioni di arte e poesia fra il Dante e il Michelangelo dell'Alto Medioevo
Commento musicale Resurrexi pregregoriano, Ensemble Organum, Marcel Pérès
I versi del filosofo Giovanni Scoto Eriugena e i quattro avori attribuiti al Maestro di Echternach. Il Dante (quello del Paradiso) e il Michelangelo dell’alto medioevo. Uniti da una formidabile potenza espressiva, divisi da qualche secolo - lo scrittore franco-irlandese è del IX, lo scultore tedesco fra X e XI - e dall’ispirazione. Aristocratica e tutta tesa verso orizzonti metafisici quella del primo, il pensatore più importante della sua epoca, sodale e cantore dell’imperatore Carlo il Calvo. Popolare e fortemente carnale, una vera eccezione per il suo periodo, il secondo, col suo Mosè che quasi strappa le Tavole della Legge al Creatore, il suo Tommaso che dà le spalle senza curarsi dello spettatore e affonda la mano nel costato umanissimo di Gesù e quel Paolo con piedi e mani grossi, la faccia da contadino.
Amo questo contrasto di spirito e carne composti con mirabile, diverso dosaggio. Si parte dalla personificazione della Terra che sostiene la croce per superare il Sole che piange e la Luna che copre il volto per ascendere a quel pentametro del secondo Carme dell’Eriugena che sembra definire la fluttuazione quantistica di Dio:
“Est quod, quod non est, te colit omne super”
“Ti venera sopra ogni cosa ciò che è e ciò che non è”.
E’ la croce come simbolo di unione perfetta fra umano e divino. Cara a Dio nella sua manifestazione come nella distanza abissale, venerata da ciò che è in potenza, che viene creato e che si ricomporrà nella sua unità originaria alla fine dei tempi, come petali di un fiore che tornano a chiudersi.
“Morte bona vitae mors mala victa perit”
“Attraverso la morte buona della Vita la morte cattiva, ormai vinta, morì”.
Dal terzo Carme, dedicato proprio alla Pasqua, dove l’estrema, profondissima, sintesi dei versi latini sembrano germogli gonfi sul punto di sbocciare e la traduzione italiana una meravigliosa fioritura.
Merito di Filippo Colnago, che ha curato egregiamente anche introduzione e note.
E’ in questa vertigine che ci ha fatto assaggiare quella “deificazione dell’uomo” tanto cara al filosofo che incontriamo il Cristo in maestà del Maestro di Echternach. Il grande Agricoltore che ci poserà nuovamente sulla terra con piedi, mani e cuore più forti. Il Maestro senza nome, che è e non è, per cercare ancora una volta di scolpire questa nostra presenza che sfugge.
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