#IoRestoaCasa
ma sono felice che non vi siano rimaste queste tre meravigliose donne che hanno
saputo unire così bene e con grande coraggio pensiero e azione nella scrittura.
Ogni parola con cui circoscrivono, abbracciano la loro vita unendola a quella
degli altri testimonia grande dignità, un sentire profondo in grado come pochi
di unire in simbiosi la propria avventura umana con la Storia.
Karola
è più conosciuta come la moglie del filosofo Ernst Bloch, a cui devo molto, ma,
oltre a essere più simpatica, è stata un architetto ben capace di vivere di
vita propria. La sua ironia, il suo sorriso è una luce in grado di descrivere
con chiarezza le tragedie del Novecento cercando ogni volta di superarle
(l’antisemitismo russo e polacco, il nazismo, il maccartismo, lo stalinismo): è
lei il vero Principio Speranza, di cui ha scritto il marito.
Il
brano in cui racconta un’esperienza lavorativa in un cantiere americano è il
perfetto esempio in piccolo del suo modo sereno e consapevole di affrontare
ogni avversità: “Nell’estate del 1939 in genere la sera disegnavo qualche
particolare, leggevo o scrivevo una lettera, e la mattina presto ero già in
cantiere; per arrivarvi dovevo attraversare un vasto spiazzo erboso che
brulicava di serpenti: la maggior parte erano i cosiddetti milksnakes, innocui, ma per maggiore sicurezza portavo sempre i
calzettoni e un paio di scarpe robuste e avevo sempre con me una lametta da
barba per poter incidere e succhiare la ferita se fossi stata morsicata”.
Il
capolavoro di Olive, Storia di una
fattoria africana è del 1883 ma poteva essere scritto un secolo dopo tanto
è stato il coraggio di questa femminista antirazzista sudafricana, sempre
sostenuta da un marito fuori dal comune, Samuel Cronwright. Si scorda troppo
facilmente quanto sia stata forte questa lotta per buona parte dell’Ottocento
prima delle censure galanti della Belle Époque e della cortina di piombo di due
Guerre Mondiali nella prima metà del Novecento. E' lei ad aprire la strada alla
grande letteratura sudafricana e a fondamentali scrittrici del calibro di Doris
Lessing e Nadine Gordimer: “Poteva anche darsi che quel mondo non fosse altro
che un miraggio malefico, ingannevole; nondimeno era un mondo bellissimo e
sedere lì al sole ad ammirarlo era la cosa migliore da fare. Valeva la pena
essere stato bambino, e aver tanto pianto e pregato, per poter starsene ora
seduto. Si fregò le mani come se le stesse lavando alla luce del sole. Ci
sarebbe stato sempre qualcosa per cui valeva la pena vivere finché ci fossero
stati pomeriggi brillanti come quello”.
Sally
infine descrive in un crescendo particolarmente coinvolgente quanto sia traumatico,
ancora e solo dopo gli anni della Contestazione, scoprire di avere origini
aborigene. Un gioco di parole che costa ancora caro, dato l’impegno profuso dai
colonizzatori per eliminare le tracce della cultura dei primi abitanti
dell’Australia. E il libro viene pubblicato nel 1987 non un secolo prima: “Quando
Nan (la nonna) era più giovane gli aborigeni erano considerati subnormali e
incapaci di venire educati allo stesso modo dei bianchi. Sai, l’industria degli
ovini è stata edificata sul lavoro degli schiavi. Gli aborigeni furono
costretti a lavorare e, se non lo facevano,
i proprietari della stazione chiamavano la polizia. Ho sempre pensato che l’Australia
fosse diversa dall’America, Mamma, ma anche qui abbiamo avuto la schiavitù.
Forse la gente non veniva venduta sui ceppi come i Negri d’America, ma allo
stesso modo avevano un padrone”.
E’
questo secolo che passa dalla fattoria africana a quella australiana che unisce
queste tre donne nella lotta contro i lati oscuri della nostra civiltà. Una
lotta che vale sempre la pena di continuare nel segno di una grande lezione di
forza, eleganza e fiducia nel futuro che soprattutto le donne sanno donare.
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