domenica 25 febbraio 2024

PRO-ZIA IDA Storia breve di amore e assenza nell'ex manicomio di Fermo

Zia Ida, tu sei lì, in quella foto, con tutta la tua dolce solitudine: un terrazzo neutro - e il mare, il cielo delle Marche in lontananza. La mano con cui ti sostieni alla ringhiera, la mano con cui forse indichi qualcosa, non c’è, non si vede: è svanita nella cornice bianca della Polaroid.

Sei una robusta signora anziana dai capelli bianchi, sei la degente del manicomio di Fermo da cui le sorelle ti hanno fatto uscire, per condividere un giorno di festa: Adele, mia nonna, zia Lina, zia Teta, forse. Zio Titta è morto da un pezzo (non parlava quasi mai), zia Maria è invece suora di clausura, da 60 anni. Vedi, tutto questo lo so da mia madre, quando mi parla di un altro mondo.
Una follia serena, come quella del poeta Holderlin, scaturita con un grido disperato, di cui non resta traccia. Da 40 anni è così, zia.

Dovremmo incontrarci un giorno d’estate dell’81. Poi accade qualcosa d’imprevisto e non riusciamo a vederci.
L’inverno successivo io sono lontano, a Varese, e tu muori. Dio spegne un’altra parte di sé. Il tuo dio, zia, quello che non riuscirò mai a capire, quello di Pio XII, dell’età del ferro.
Tu ne ripetevi ossessivamente le litanie: ti era cresciuto intorno al cuore come un rovo. E dentro, in fondo a quanto chiamavi “anima”, dalle fattezze del Cristo emergeva un altro volto:
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martedì 20 febbraio 2024

CANTERBURY TALE Eadmero, Anselmo d'Aosta e i figli di Guglielmo il Conquistatore: il dramma sacro della politica

 Commento musicale Godric of FinchaleSainte Nicholaes, Godes Druth

"Anselmo, del quale nessun uomo è mai stato più tenace nella giustizia, nessuno così scrupolosamente erudito,

nessuno così profondamente spirituale, lui padre della patria, lui esempio per il mondo"

Guglielmo di MalmesburyStoria dei re d'inghilterra

"Eadmero ha esposto con tale chiarezza ogni cosa da farla in certo qual modo rivivere davanti ai nostri occhi"

Guglielmo di Malmesbury, Storia dei vescovi d'Inghilterra




Dopo Re Artù e prima di Robin Hood il mondo tutto concreto, ma non meno affascinante, di storia e politica inglese a cavallo fra XI e XII secolo. Narrato con rigore, passione - e senza miracoli - da Eadmero, discepolo fedele del teologo aostano quanto della musa Clio (peccato che alla lunga provocò la rottura col maestro, poco amante di storici e agiografi). Peccato da noi perdonatissimo, specie in questi brutti tempi di Brexit, perché fonte insostituibile per un periodo poco noto della mia amata storia della Gran Bretagna. Poco conosciuto specie in Italia (Valle d’Aosta esclusa): a scuola tutto si ferma con battaglia di Hastings e Arazzo di Bayeux e si riparte con le Crociate e un Riccardo Cuor di Leone che si fatica a sottrarre alla solita aura leggendaria.

La sua Historia novorum in Anglia è storia di tutta una serie di novità. Una nuova dinastia normanna, scandinava ma nulla a che fare con la dominazione danese di Canuto il Grande, perché ormai francese, con latino e lingua d'oïl a corte. Una nuova dominazione benedetta da papi riformatori come Alessandro II, che da tempo cercavano di ricondurre il clero anglosassone sotto l’egida di Roma sul modello di Gregorio Magno. E un nuovo contrasto fra potere temporale e spirituale che culminerà nel 1170 con l’assassinio del più illustre dei successori di Anselmo all’arcivescovado di Canterbury: Thomas Becket (anche questo idealizzato nel capolavoro teatrale di T. S. Eliot, ma c’era da combattere il nazismo).

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Le radici dell’affetto di Eadmero e del dramma politico-religioso di Anselmo trapelano da queste righe, accomunate dal deciso sostegno della primazia di Canterbury su tutte le altre sedi episcopali in terra inglese. Un bel problema, perché le fonti storiche a fondamento di questa affermazione, in primis la Storia Ecclesiastica del mio caro Beda (VIII sec.), erano tutt’altro che chiare, anzi. Papa Gregorio Magno, a cavallo fra VI e VII secolo, aveva previsto per il suo inviato Agostino un arcivescovado a Londra, ma questi aveva potuto esercitarlo solo nella capitale del re di cui era ospite, Etelberto del Kent, cioè Canterbury. Aveva inoltre comandato che stabilisse un episcopato anche a York, altra città importante nella memoria che avevano dell’impero romano, ma che non sarebbe rimasto in subordine alla morte dello stesso Agostino. Progetti di difficile attuazione anche per il forte controllo esercitato anche allora dal potere regio (sembra il peccato originario del cattolicesimo inglese). Come ha sottolineato il grande Peter Brown in quel capolavoro che è La nascita dell’Europa cristiana (Laterza, 1995): “La comunità monastica di Canterbury fu ridotta ad assomigliare a una residenza recintata di privilegiati stranieri – persone apprezzabili ma potenzialmente disgreganti che era meglio tenere sotto sorveglianza vicino alla corte reale – e non le fu consentito di ricreare quell’estesa rete di episcopati ‘romani’ com’era nei voti di Gregorio”.

Era stato nei fatti, in seguito a tutta una serie di convergenze di natura politica, che, nella seconda metà del VII secolo, Teodoro, greco dell’Asia Minore bizantina inviato sull’isola da papa Vitaliano, era diventato “il primo arcivescovo cui tutta la chiesa degli Angli acconsentì di obbedire” (Beda il Venerabile, Storia ecclesiastica degli Angli, IV,2, Città Nuova Editrice, 1987). Grazie anche all’operato di un altro coltissimo prelato, il berbero Adriano, che a Canterbury aveva creato una vera e propria scuola dove “sia l’uno che l’altro, istruiti a fondo nelle lettere sia sacre che profane, raccolta una schiera di discepoli, diffondevano ogni giorno fiumi di dottrina  salutare per irrigare i loro cuori. Infatti insieme allo studio delle Sacre Scritture fornivano nozioni di arte metrica, di astronomia, di computo ecclesiastico (per calcolare la data della Pasqua). Ne è prova che alcuni dei loro discepoli conoscono la lingua greca e latina come la loro lingua madre” (Beda il Venerabile, come sopra). Il vescovo poeta Aldelmo di Malmesbury (639-709), il primo grande classico della letteratura anglosassone - di cui abbiamo già parlato in La scuola misteriosa e la grammatica inquietante di Virgilio Marone Grammatico - è uno dei migliori prodotti di questo insegnamento. Grazie a Teodoro e Adriano col Sinodo di Whitby (664) l’influenza della Chiesa di Roma si sostituisce a quella irlandese. Ma il dominio di Canterbury resta pur sempre de facto e Lanfranco da Pavia dovrà fare non poche acrobazie (chiamiamole così) per giustificarlo al Concilio di Windsor del 1072. La questione resterà ancora aperta durante l’episcopato anselmiano e il teologo dell’esistenza a priori di Dio dovrà faticare fino agli ultimi giorni per affermare questa pratica tutta a posteriori.

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È il nuovo contesto storico inaugurato da Gugliemo II nel 1087 a far precipitare la situazione. Un nuovo quadro che in realtà ha molto di vecchio. Costretto a far fronte a cospirazioni interne (lo zio vescovo Oddone) ed esterne (il fratello Roberto duca di Normandia) e quindi a far cassa con una rapacità degna del padre (ma senza il suo prestigio), il giovane re si appropria di tutta una serie di terre ed entrate della Chiesa di Canterbury dopo la morte di Lanfranco e, su suggerimento del consigliere Rainulfo Flambart (ironia della storia, un vescovo), lascia di proposito il seggio vacante. Il rischio di nuove sollevazioni e lo stato endemico di guerra con Scozia e Galles fanno sì che gli espropri, d’altro canto legittimi per il potere laico, non vengano meno, creando un malcontento diffuso nel clero meridionale dell’isola. C’è da chiedersi quanto Guglielmo pensasse di poter ritardare la nomina del nuovo arcivescovo. Eadmero, che naturalmente lo detesta, gli mette in bocca parole pesanti degne di un Enrico VIII o di un dramma shakespeariano: “Ma, per il Sacro Volto di Lucca - così infatti aveva l’abitudine di giurare (interessante questa prima singolare liaison anglo toscana) - nessuno sarà arcivescovo eccetto me”. Dietro le quinte la realtà era più complessa. L’uomo poteva permettersi di essere in privato poco religioso se non addirittura scettico: ho idea che quando Anselmo parla di “infedeli” nel Cur Deus homo, oltre a rivolgersi agli Ebrei invitati in Inghilterra e protetti dai re normanni, si riferisca  proprio a lui quando afferma “Se si chiama ingiusto l’uomo che non rende all’uomo quanto deve, molto di più è ingiusto l’uomo che non rende a Dio quanto deve”. Il sovrano cattolico no, anche se una bella fetta dell’episcopato era tutt’altro che scontenta di una chiesa inglese acefala, non poteva rimandare all’infinito il ripristino di una consacrazione che durava da mezzo millennio.

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giovedì 15 febbraio 2024

ARTE E GEOPOLITICA FRA GIAPPONE E ITALIA DAL XVI SECOLO ALL’ERA DEI MANGA

Estratti dai miei interventi al Festival #INtenso organizzato dalla Biblioteca Civica Varese negli incontri Il giorno in cui arrivarono Heidi e Goldrake, nell'ambito del Filmfestival Internazionale Cortisonici, e L'Onda lunga: dai Manga di Hokusai ai videogame agli strumenti della musica popolare giapponese, curato da Neoludica Game Art Gallery



Atlas Ufo Robot, alias Goldrake, alias rappresentazione iconica del boom dell’industria dell’acciaio nipponico, sbarca in Italia il 4 aprile 1978, quando il Giappone riesce ancora a mantenere ritmi di crescita economica sostenuta e il nostro Paese è in piena crisi con l’inflazione che balla intorno al 12% (mancano anche le monete, noi ragazzini facciamo incetta di miniassegni come di gettoni del telefono) e, soprattutto, in pieno incubo sequestro Aldo Moro. Per quelli come me, che erano alle porte dell’adolescenza e ancora risentivano dell’aspetto tetro degli anni precedenti (stragi fasciste e terrorismo di estrema sinistra), l’apparizione di un nuovo supereroe nel magico contenitore di rifugio della tv in bianco e nero, come i sogni, fu come un raggio di sole (sarà stata anche la bandiera del Sol Levante). Uno dei pochi ricordi belli che ho del mio primo anno al Nord, in quella periferia culturale che era Induno Olona, dove come tutti gli immigrati non mi trovavo affatto bene e sarei tornato più volte con piacere solo molti anni dopo, abitando a Varese.
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Il Giappone si presentava con prodotti all’apparenza immortali: era il mio registratore per cassette Hitachi, erano le radio a transistor, era per tutti nuove tecnologie ormai assolutamente affidabili (altro che la “robaccia giapponese da quattro soldi” di Woody Allen ne Il dormiglione). Era Giacomo Agostini passato dalla MV Agusta alla Yamaha nel ’74 (iniziava allora il dominio anche nelle grandi cilindrate). Erano i samurai (sandali compresi, incompreso invece il ruolo dei “ronin”, samurai senza padrone, nelle rivolte pro e contro la dinastia Meiji e la partecipazione ai primi movimenti socialisti nell’arcipelago) e le arti marziali di cui si aprivano scuole dappertutto: karate e, soprattutto, judo, di cui ero una giovane promessa (non mantenuta). È vero che il cinese Bruce Lee era stato più forte, però era morto. Il presidente Mao suscitava decisamente più simpatie dell’imperatore Hirohito, quello della Seconda Guerra Mondiale che poi sembrava una mummia, ma, politica a parte, di prodotti cinesi allora c’erano solo certi pentolini di metallo per il the o il latte a colazione e dei violini a basso costo - una delle poche cose occidentali permesse dalla Rivoluzione Culturale - tipo quello che torturai in quattro inutili anni al liceo musicale di Fermo. Quanto all’arte, giusto il cinema. Per i cinefili (ero ancora lontano dal diventarlo) i vari Kurosawa, Mizoguchi, Ozu e Ōshima erano già un mito. Per gli altri invece o i mostri (Godzilla e affini visti in tv già rovinatissimi). O il porno, almeno quello presunto tale, quei manifesti da brivido dei cinema a luci rosse con L’impero dei sensi  di Oshima (terzo elemento della triade proibitissima – paura e censura - insieme a Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e a Salò di Pasolini). Che poi quanto presentato come porno fosse politico lo sapevano nelle grandi città o in cittadine “rosse”, come Porto Sant’Elpidio nelle Marche, da cui venivo e dove anche quell’altra parola, Zengakuren (il movimento studentesco protagonista del ’68 Giapponese) l’avevo sentita e ricordata perché era strana (e prima del liceo l’avrei confusa con Zenga portiere della mia Inter, di tutt’altra vena ideologica). In compenso iniziai a interessarmi all’arte di Utamaro – e quindi anche a quella degli altri grandi del “Mondo fluttuante” (Ukiyo-e), Hokusai chiaramente compreso con la Grande Onda e i primi Manga in assoluto (1814) – dopo aver visto nell’’82 l’accattivante locandina de Il mondo di Utamaro di Jissōji, buon remake softcore del capolavoro di Mizoguchi Utamaro e le sue cinque mogli (1946).
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In una lettera del 1585 di Filippo Sassetti - intellettuale a Firenze e, con meno fortuna, mercante nella colonia portoghese di Goa in India (ne parlerò in un prossimo post) – si dà quasi per scontato che il “Giapan” diventerà cattolico: “Là comandano i padri Gesuiti, fanno la guerra, e pongono i re in istato e altre cose”. Sappiamo che non sarà così e la reazione anti cristiana alla lunga, specie dopo la rabbia accumulata coi due falliti tentativi di invadere la Corea nel 1592 e 1596, avrà la meglio con la restaurazione dello shogunato da parte di Tokugawa Ieyasu, del figlio Hidetada e del nipote Iemitsu, che attueranno una spietata repressione della religione di Roma (grazie anche all’appoggio dei nuovi signori dei mari olandesi, vedi il bombardamento del castello di Hara nel 1637). Nel 1641 col decreto shogunale “sakoku” l’arcipelago viene chiuso agli stranieri con le parziali eccezioni dei porti di Nagasaki (per il commercio con olandesi e cinesi) e di Tsushima (riservato ai mercanti coreani).
ermina così anche quella prima influenza diretta dell’arte europea che aveva dato vita all’Arte Nanban. Non parliamo di capolavori, ma di opere di raffinata fattura, soprattutto paraventi che avevano per soggetto personaggi occidentali, sospesi fra l’estetica della Scuola Tosa (di più marcata impronta nazionale) e la Scuola Kanō (di rinnovata influenza cinese), che entrambe le sopravvivranno. Una pittura che mi ha sempre appassionato e commosso proprio perché tentativo di simbiosi, anche se irrealizzata, fra due mondi. Narrazioni sognanti capaci di far dimenticare per attimi preziosi i reciproci orrori del primo incontro.
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Cercando di svecchiare l’estetica tradizionale vengono invitati maestri d’arte dall’estero e, cosa fondamentale per noi, soprattutto dall’Italia. È infatti dall’incontro di uno degli esponenti della Missione Iwakura, Itō Irobumi (fra i primi a studiare in un’università inglese nel 1863, più volte ministro e primo ministro) con Alessandro Fè d'Ostiani, ambasciatore italiano in Giappone dal 1870 al 1877, che vengono poste le basi della Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo. La fondazione è del 1876, come parte del Collegio Imperiale di Ingegneria, il che ne qualifica subito l’aspetto strumentale finalizzato più alle arti applicate da commercializzare che alle belle arti in senso stretto. D’altro canto l’Arte Nanban di tre secoli prima non era stata un’estetica da paraventi? Fatto sta che la Scuola diventa un crogiolo di nuove forme dove a guidare l’altoforno sono quasi sempre artisti italiani, certo non geniali ma di grande professionalità.
Il genio era arrivato prima, nel 1863, in campo fotografico, con i bellissimi scatti di quel personaggio particolarissimo a metà strada fra l’artista, l’avventuriero e l’affarista che risponde al nome (altrettanto particolare) di Felice Beato, formidabile reporter fra Crimea, India, Cina, Giappone (fino al 1884), Sudan e Birmania. Ora invece l’istituzione prevedeva insegnanti  regolari e senza troppi grilli per la testa. I nomi dei direttori scolastici sono noti a chi conosce i flussi più tranquilli della nostra arte del XIX secolo sia che si parli di Antonio Fontanesi (esperto paesaggista) o di Prospero Ferretti (emiliano come il primo e interessato anche all’astronomia).
Lo stesso dicasi per i docenti del Bel Paese: dai corsi preparatori dell’architetto milanese Giovanni Vincenzo Cappelletti (proposto nientedimeno che dal ministro dell’istruzione Bonghi) a quelli di disegno e pittura di Achille Sangiovanni (che introduce lo studio del nudo). C’è poi l’interessante esperienza dello sculture Vincenzo Ragusa, che oltre alla docenza ha lasciato un’affascinante eredità di ritratti di giapponesi dell’epoca, spesso gente comune (un'altra piccola rivoluzione). Così come la sua storia d’amore con la modella, l’artista Kiyohara O' Tama, che si traferisce con lui a Palermo e lo sposa diventando un’interessante pittrice di realtà siciliane.
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La Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokio chiude i battenti nel 1883, sempre più contestata da un movimento di rinascita dell’arte “tradizionale” nipponica. Anche qui uso le virgolette perché questa reazione avviene soprattutto sulla base di una sollecitazione esterna (gli studi dell’orientalista americano Ernest Francisco Fenollosa). Quando si parla di “ritorno alla tradizione” bisognerebbe sempre avere presente l’opera fondamentale curata dal grande Eric Hobsbawm e da Terence Ranger L’invenzione della tradizione (1983), perché quanto pretende di presentarsi come “tradizionale” è sempre frutto di rielaborazioni – se non di vere e proprie falsificazioni – che si attuano alla luce dei cambiamenti intervenuti, assolutamente presenti anche se tenuti sotto silenzio.
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mercoledì 7 febbraio 2024

BLACK LIKE ME, NERO COME ME Il capolavoro di J. H. Griffin ancora di grande attualità

Alla fine del 2021 Fandango ha finalmente ripubblicato in Italia questo capolavoro. Alla buonora: ci voleva.
Ripropongo quanto avevo scritto l'anno prima.
Ho dovuto cercare fra i remainders per trovare la vecchia edizione Longanesi del ’67 (l’ultima ristampa è del ’78). Un uomo, uno scrittore, un libro dal coraggio formidabile frutto di un’esperienza dal vivo nel 1959 quando la lotta di massa contro la segregazione razziale negli USA era agli inizi (ma, in quanto a uguali e concreti diritti, abbiamo visto con la terribile morte di George Floyd ancora a che punto siamo).
Griffin - di cui non esiste neanche la pagina italiana in Wikipedia... - vuole provare sulla propria pelle cosa si sente a essere nero nel sud degli Stati Uniti e si sottopone a una serie estenuante di cure dermatologiche. Il risultato è tanto perfetto quanto orribile il senso di paura e persecuzione che il nuovo John Howard Black prova per tutti i quaranta giorni dell’esperimento attraversando Louisiana, Mississippi, Alabama e Georgia.
E non stiamo parlando di qualcuno vissuto nella bambagia: l’uomo aveva condotto missioni pericolosissime in Europa contro il nazismo partecipando in prima persona alle lotte della Resistenza francese ed era stato decorato per coraggio militando nell’aeronautica americana nel Pacifico, dove aveva curato i rapporti con gli abitanti delle Isole Salomone studiandone la cultura. Dopo aver subito gli esiti di un attacco di malaria spinale, a causa di un’esplosione, era rimasto cieco per undici anni (1946-57), ma aveva cercato sempre di vedere il lato positivo e pieno di speranza della sua condizione umana: “Non giudicavo le persone dal colore della pelle, ma solo da voci, affezioni e sentimenti. Lì ho capito tante cose che con la vista mi sfuggivano”.
Tuttavia neppure tutta questa ricca e tormentata serie di esperienze riesce a contenere lo shock dei primi (e degli ultimi) giorni del suo reportage: “Di cosa avevamo paura? Non lo saprei dire esattamente… Eravamo vittime di quel terrore senza nome… Una cosa orribile e inspiegabile. Mi ricordava il timore costante e tormentoso che ci assillava in Europa quando Hitler iniziò la sua marcia trionfale e non osavamo parlare con gli ebrei (vergognandocene profondamente). Questa paura è onnipresente per tutti i neri del Sud e anche per molti bianchi onesti che si rendono conto della situazione, ne provano vergogna e ne sono umiliati”. E lui, texano bianco e onesto, provava ora a porvi rimedio. Il resoconto sarebbe stato pubblicato su Sepia, la rivista afroamericana più diffusa nel “Deep South”.
Il viaggio ha inizio a New Orleans il 28 ottobre, cinque anni dopo la prima sentenza della Corte Suprema che aveva iniziato ad aprire un varco nel muro della segregazione e due dopo l’intervento dell’esercito a difesa del diritto allo studio di nove studenti neri a Little Rock, in Arkansas. Il presidente Eisenhower si era impegnato in prima persona e il partito repubblicano conservava ancora barlumi di quella politica filoafroamericana che lo aveva contraddistinto all’epoca di Lincoln e, soprattutto, di Ulysse Grant, ma la reazione feroce del razzismo sudista contro la “mescolanza delle razze” rendeva faticosi – e traumatici – i primi tentativi di cambiamento. Le cose muteranno più rapidamente il decennio successivo quando, con Kennedy e Johnson, si trasformerà profondamente quel partito democratico che aveva proprio in molti suoi esponenti del sud – fin dalla fine della Guerra di Secessione - i principali difensori di questo apartheid (i famigerati “Dixiecrat”). Paola di Griffin: “I personaggi più abbietti non sono i razzisti ignoranti, ma i cervelli legali che gli servono da facciata”. Ironia della storia, il sabotaggio di questa lotta per i diritti civili sarà fatto proprio da una parte sempre più influente dei repubblicani, soprattutto da quella “Destra religiosa” che vede oggi in Trump il suo idolo.
Tornando invece al prologo del viaggio attraverso la notte di Griffin, il primo mentore è un amico lustrascarpe, Sterling Williams, e l’immagine del pranzo in un tegame di riso e rape riscaldati è già tutto un programma. New Orleans è meno peggio di altri posti, merito anche della forte presenza cattolica, meno disponibile alla propaganda razzista, specie in ambito colto ed ecclesiastico (siamo inoltre nell'epoca del rinnovamento di papa Giovanni e alle porte del Concilio). È un motivo di orgoglio per lo scrittore, convertitosi al cattolicesimo nel ’52 e laico carmelitano. Tuttavia anche qui si avverte già quel fastidio dei bianchi pronto subito a trasformarsi in odio verso qualsiasi nuovo atteggiamento della popolazione di colore: “Nel mormorio di una conversazione la parola ‘nigger’ spicca come un lampo accecante”.
Ma il peggio deve ancora venire e John Howard lo vivrà sulla propria pelle nei passaggi in Mississippi e Alabama.
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mercoledì 31 gennaio 2024

HO RITROVATO PROUST ALLA KOLYMA

Ed ecco che il mondo (il quale non è stato creato una volta sola,
ma tutte le volte che è sopraggiunto un artista originale) ci sembra
completamente diverso da quello di prima, ma perfettamente chiaro.

I Guermantes, trad. M. Bonfantini, Einaudi, p. 354



Ho ritrovato Proust alla Kolyma. Lo devo agli occhi di Varlam Salamov, che avevano visto quello che avevano visto eppure notarono un volume dove non avrebbe dovuto essere. Alle sue grandi mani piagate che scrissero uno dei racconti più belli e strazianti del secolo che fu. Marcel Proust nella sezione La resurrezione del larice o di come pagine leggere volino alte anche sopra l’inferno. I Guermantes ricoverati in un ospedale dell’Arcipelago Gulag, parte amputata di una Recherche tradotta in russo in anni impossibili (1934-38) e subito censurata.
L’inizio è già la fine della lettura: “Il libro era sparito. Il grande e pesante volume in folio posato sulla panca era sparito sotto gli occhi di decine di malati. Chi aveva assistito al furto non l’avrebbe mai ammesso. […] Il furto  di un romanzo di Marcel Proust non è in sé un segreto tanto tremendo da dover essere serbato per sempre. […] Chi ha visto manterrà il silenzio per un buon motivo: ’ho paura’. Quanto questo silenzio porti benefici e vantaggi è confermato non solo da tutta la vita del lager, ma anche dall’intera esperienza nella vita civile.”. E Salamov era fin troppo esperto di quanto costi la parola. Due anni di lavori forzati alla Višera (dal ’29 al ’31), poi l’abisso dell’ Ežovščina con l’arresto nell’anno più terribile, il 1937. Stessa accusa: "attività trockiste contro-rivoluzionarie" (i dogmi amano gli ossimori). La monotonia è uno strumento fondamentale del potere quando deve stritolare ogni diversità, specie se affine (parliamo di eresie). Se poi una singolarità riesce, nonostante tutto, quel “tutto”, a sopravvivere, allora dall’alto cala di riserva come una pressa anche la variazione di stampo: condanna a dieci anni per “agitazione antisovietica” nel 1943 (agitazione estetica compresa: definire Ivan Bunin “un classico della letteratura russa”).
Bunin e Proust (per le affinità l’articolo di Anna Lushenkova), due leggerezze apparenti che pesano. Il prezzo di copertina dei Guermantes tradotti doveva certamente essere alto, specie nel Paese che ancora si definiva “dei Soviet”, ma, chissà da dove e da chi, la copia aveva raggiunto quell’ospedale sperduto del Dal’stroj nella figura dell’infermiere Kalitinskij, un imboscato che nel ‘47 poteva permettersi un paio di calzoni da golf di velluto che non sarebbero dispiaciuti allo scrittore francese. A Salamov ricordavano quelli di un comunista olandese che li aveva ricevuti dieci anni prima e non era riuscito a scambiarli con un po’ di pane. Si era spento in piedi occupando un posto di troppo fra i detenuti stipati come sardine in una “compagnia disciplinare” (“Rur”): “Il mio vicino Fritz David prima morì, e solo in un secondo tempo cadde a terra. Tutto questo era accaduto dieci anni prima: cosa c’entrava Alla ricerca del tempo perduto? Io e Kalitinskij rievocavamo insieme il nostro tempo perduto. Nel mio, di tempo, non c’erano i pantaloni da golf, ma c’era Proust e io ero felice di leggere i Guermantes. Non andavo neanche a dormire. Proust valeva per me più del sonno. E poi Kalitinskij mi faceva fretta.”.
La fretta dei giudici, degli aguzzini nelle miniere d’oro e di carbone, dello scrittore che cerca di fuggire e non è mai più veloce dei cani. E ora anche quella, più tollerabile, come la condizione di prigioniero-infermiere, sopravvissuto alla schiavitù, ai 50° sottozero, al tifo; salvato l’anno prima da un medico-prigioniero, il cui nome va ricordato: A. M. Pantjuchov. Se possiamo leggere un testo fondamentale per l’umanità lo dobbiamo anche a lui.
“Il libro era sparito. Ma chi avrebbe dunque letto questa prosa così strana, quasi senza peso, come pronta a involarsi nel cosmo e nella quale tutte le proporzioni sono scompigliate, rimescolate, in cui non c’è più né il grande né il piccolo? Davanti alla memoria, come davanti alla morte, tutti sono uguali ed è facoltà dell’autore ricordare il vestito della domestica e dimenticare i gioielli della padrona. Questo romanzo allarga in modo straordinario gli orizzonti dell’arte letteraria. Io, uno ‘zek’ della Kolyma, ero stato trasportato in un mondo perduto da tempo, in altre abitudini, dimenticate, inutili. Il tempo di leggere non  mi mancava. Ero infermiere al turno di notte. Ero stato sopraffatto da I Guermantes.”.
La storia racconta di un deportato rapito dalla lettura di un prigioniero volontario, uniti dal segno di una malattia che va oltre il tifo dell’uno o l’asma bronchiale dell’altro. Una malattia sociale, l’odio tradotto in politica, che condanna l’oppositore sovietico così come l’ebreo omosessuale francese. Salamov non vedrà mai pubblicati in Unione Sovietica I racconti di Kolyma (lo saranno solo in era Gorbaciov, 1987), finendo i suoi giorni in una triste casa di riposo in piena stagnazione brezneviana. L’anno prima (1981) aveva ricevuto il Premio della Libertà proprio dalla sezione francese del Pen Club. Meglio tardi che mai, come il Premio Goncourt a Proust tre anni prima di morire, nel 1922, risparmiandosi almeno la visione del rogo dei suoi libri da parte dei nazisti, così come, stella gialla o triangolo rosa, il lager e la camera a gas. L’ultimo autodafé della Recherche, è bene ricordarlo, data 1976, opera dei generali golpisti argentini.
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sabato 27 gennaio 2024

GIOVANNI SCOTO ERIUGENA E IL MAESTRO DI ECHTERNACH Connessioni di arte e poesia fra il Dante e il Michelangelo dell'Alto Medioevo

Commento musicale Resurrexi pregregoriano, Ensemble Organum, Marcel Pérès

I versi del filosofo Giovanni Scoto Eriugena e i quattro avori attribuiti al Maestro di Echternach. Il Dante (quello del Paradiso) e il Michelangelo dell’alto medioevo. Uniti da una formidabile potenza espressiva, divisi da qualche secolo - lo scrittore franco-irlandese è del IX, lo scultore tedesco fra X e XI - e dall’ispirazione. Aristocratica e tutta tesa verso orizzonti metafisici quella del primo, il pensatore più importante della sua epoca, sodale e cantore dell’imperatore Carlo il Calvo.  Popolare e fortemente carnale, una vera eccezione per il suo periodo, il secondo, col suo Mosè che quasi strappa le Tavole della Legge al Creatore, il suo Tommaso che dà le spalle senza curarsi dello spettatore e affonda la mano nel costato umanissimo di Gesù e quel Paolo con piedi e mani grossi, la faccia da contadino.
Amo questo contrasto di spirito e carne composti con mirabile, diverso dosaggio. Si parte dalla personificazione della Terra che sostiene la croce per superare il Sole che piange e la Luna che copre il volto per ascendere a quel pentametro del secondo Carme dell’Eriugena che sembra definire la fluttuazione quantistica di Dio:
“Est quod, quod non est, te colit omne super”
“Ti venera sopra ogni cosa ciò che è e ciò che non è”.
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martedì 23 gennaio 2024

IL REGNO DEL CONGO, IL PRIMO VESCOVO DELL’AFRICA NERA (1518)

Primo viaggio nella storia delle civiltà africane. Primo amore: il Regno del Congo (oggi soprattutto Angola del nord), conosciuto da piccolo nella meravigliosa enciclopedia I Popoli della Terra, da ragazzo su Africa di Hosea Jaffe, quindi nei libri del grande Basil Davidson e nel saggio letto e riletto di Randles. Fino alla recentissima biografia dello storico del Congo Brazzaville A. F. Nganga su Dom Henrique Ne Kinu a Mvemba (1495-1531), consacrato da vescovo della diocesi di Utica (odierna Tunisia) nel 1518 da papa Leone X Medici e caso unico fino a Joseph Kiwanuka, vescovo di Masaka (Uganda) nel 1939.
Henrique, figlio del grande re (“manikongo”) Dom Afonso I (Mani Sunda) e nipote di João I (Nzinga a Nkuwu), che aveva scelto di convertirsi (spontaneamente) al cristianesimo dopo l’incontro – è bene sottolinearlo: alla pari – con navigatori e stato portoghesi. Sarebbe stato bello vedere il vescovo Henrique partecipare al Concilio di Trento. Purtroppo morì a soli 36 anni nel 1531, quando le  nuove strategie pastorali avevano già iniziato a emarginare gli africani dal sacerdozio.
Il rapporto con la Chiesa di Roma fu comunque più proficuo che col Portogallo. D’altro canto la scelta di diventare cristiani era stata anche, se non soprattutto, politica. C’era tutta la magia di nuove tecnologie e prodotti che approdavano dall’oceano, un tempo ritenuto sfera del sacro, dimora degli spiriti di antenati che si incarnavano in corpi bianchi... E non mi riferisco solo alle armi arrivate con Vele e cannoni (titolo di un libro fondamentale di Carlo M. Cipolla), ma anche a strumenti altrettanto formidabili come libri e scrittura. Afonso I, un gigante della politica dell’epoca, si dedicò subito anima e corpo alla fondazione di scuole per i figli della classe dirigente e, contrariamente all’Europa, l’insegnamento fu aperto anche alle donne (una delle sue sorelle fu apprezzata professoressa). Il corpo docente era però principalmente composto da religiosi europei e continua era la richiesta di nuovi maestri per avere classi meno numerose (proposta lungimirante sempre valida, anche da noi, oggi). Tuttavia, col passare degli anni, appelli come questo e altri finalizzati a un maggior apporto di specialisti nei campi delle più diverse tecnologie rimasero lettera morta alla corte lusitana. In un’Europa che ancora non aveva elaborato teorie di superiorità culturale, ma soltanto cultuale, si faceva strada il timore per la grande intraprendenza del manikongo e del suo popolo. Come ha sottolineato Randles: “Le lettere di Dom Afonso mettono in luce la delusione di un uomo che aveva aderito di tutto cuore alla civiltà europea, che credeva ancora alla buona fede e alla generosità di suo ‘fratello’ – è  la parola da lui usata nel rivolgersi al re del Portogallo – ma che si trovava profondamente sorpreso e rattristato dal comportamento interessato, disinvolto, vedi insolente, dei portoghesi residenti in Congo”.
Afonso I, in una lettera del 1516 al re del Portogallo Manuel I, era stato descritto in termini entusiasti: “Sembra che non sia un uomo bensì un angelo […] conosce meglio di noi i Profeti e il Vangelo e tutte le vite dei santi e tutte le cose di nostra Santa Madre Chiesa […] poiché non fa che studiare e spesse volte gli succede di addormentarsi sui suoi libri e sovente dimentica di mangiare e bere per parlare delle cose di Nostro Signore”.
Soltanto dieci anni dopo il re congolese già denunciava con forza il coinvolgimento dei portoghesi nella tratta degli schiavi, anche a danno dei suoi sudditi:
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