lunedì 16 aprile 2018

IL MONASTERO DI CAIRATE



Più bella di un diamante questa lastra su cui lasciare la propria impronta, perché è una testimonianza trasparente, che commuove, del profondo amore di noi contemporanei. E’ la vita passata per quel sepolcro che ci rende più vivi. La suola delle nostre scarpe digitali diventa il riflesso di quello che resta della calzatura antica. E’ il segno del cammino della Storia da una villa rustica romana, una delle più antiche del Varesotto, al pellegrinaggio su questa terra di un monastero (fondato nel 737 per volere della nobile longobarda Manigunda, oggi forse fantasma), al prezioso e recente restauro della sua arte, ricca di quella commistione di elementi cristiani e pagani che ci piace contemplare e fare oggetto appassionato di studio.


La Sacra Scrittura nella sua nicchia nuda, essenziale. I putti della dea dell’amore che aprono il sipario sui nuovi scenari del sacro.

“Ma la forma l’immagine il sembiante
- d’angelo avrei detto in altri tempi –
risorto accanto a me”
                                                   Vittorio Sereni

La visione di San Rocco, all'improvviso, svela la piaga da rimarginare - un'epidemia? il fallimento del Quinto Concilio Lateranense? - e rappresenta sia la funzione taumaturgica del luogo sacro che la ferita mai rimarginata tra il fasto del culto e l’austerità della devozione.


 “Ubi concordia” è una parola d’ordine che svetta soprattutto nell’eleganza delle vele delle volte a crociera.


I putti sono diventati ormai gli angioletti del Divino Amore, di una finestra, come la porta evangelica, piccola e stretta. I forti chiaroscuri della Controriforma nel gioco dei colori del marmo, dove il nero s’ingentilisce in forme sinuose, piega la gabbia delle sue colonne, ma resta struttura salda, prigione, anche se gentile, del candore sensuale dei piccoli angeli: gesti e sguardi danno vita a un moto circolare, specchio dell’ovale rimasto vuoto. Mi piace lo scheletro di quei mattoni, la forza ordinata della struttura e il preciso lavoro dei muratori.




E poi c’è quell’Assunta in vortici di luce delicata, opera di Aurelio Luini,  folla esuberante di corpi, ambienti e colori venata della grazia leonardesca ereditata del padre. Dipinta quando aveva iniziato a pensar troppo, secondo l’Inquisizione, e s’era iscritto all’Accademia dei Facchini della Val Blenio. Affresco e Accademia hanno la stessa data di nascita: 1560. La distanza siderale, quella specie di caverna bianca fra il dito puntato dell’apostolo e la mandorla-nube della Madre di Dio. Cosa celava quella lontananza? Ne avrà parlato nei convegni segreti con gli altri eterodossi artisti-facchini? La musica a commento di quanto scrivo è di uno di loro, Giuseppe Caimo, organista in Duomo. Il titolo, allusivo, Parmi di star la notte in paradiso. Nel 1581 Carlo Borromeo avrebbe proibito al Luini la pittura per qualche anno: purgatorio.



Non c’è traccia di inferno nel monastero, il connubio sacro e profano continua per altre stanze, ma ormai non è più trapasso nel segno della conoscenza, resta come via di fuga, dettaglio nella parte alta del muro o cornice per la distrazione di un momento.


E’ il distacco che nei secoli ha portato queste mura a una lenta decadenza, quando si passava accanto all’Arco di Manigunda (1710) considerandolo alla stregua di un guardrail, lasciandolo in beata solitudine o parcheggiandovi accanto. Ora non è più così. La strada percorsa dai calzari romani, che in età longobarda ha iniziato a virare verso l’alto fino a perdersi nel cielo, è tornata sulla terra in forma di galleria d’arte: la mia dimensione del sacro.


Nota Bene Tutte le foto sono a cura dell'autore tranne l'ultima di Adelchi.

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