Una cornice per gli occhi
Non amo distrarmi, ma penso sia
fondamentale contemplare la distrazione.
Viviamo nella lunghezza d’onda del
visibile e a questa cerchiamo di ricondurre anche quanto le sfugge.
Con lo sviluppo accelerato della
tecnologia – un discorso che data dalla fine del Neolitico, dall’origine delle
città e della conseguente “civiltà” – abbiamo racchiuso la raccolta di
informazioni a tutto tondo degli occhi in una cornice ad angolo retto (la
nostra forma prediletta di in-formare). E’ una prospettiva che oggi
consideriamo “naturale”, come aprire una porta o una finestra, che infatti
hanno questa forma e bene si adeguano alla struttura delle nostre abitazioni,
siano fatte di mattoni, pietre squadrate o pali in legno verticali e trabeati o
incrociati ad angolo retto.
Queste informazioni racchiuse di norma
in un rettangolo le abbiamo chiamate di volta in volta “stele”, “tavoletta”,
“affresco”, “quadro”, “libro”, “televisione”, “schermo” del cinema, del pc o
del cellulare: la forma è sempre quella. Se da diecimila anni non riusciamo a
farne a meno è perché, oltre a darci un forte senso di stabilità sulla terra
con cui descrivere più comodamente quanto ci circonda - la circolarità sulla
terra è instabile - e a contrastare con una disposizione internamente compiuta l’horror
vacui, grazie alla sua cornice ci permette di delimitare lo spazio delle
informazioni rispetto al contesto vitale in continuo mutamento in cui siamo
immersi. Non è totalizzante come la vita fisica perché presenta un confine ben
definito oltre il quale l’occhio può andare per interrompere la visione, per
distrarsi. Dalla vita invece non ci si può distrarre se non in sonno o in
sogno, cioè in realtà non vitali e dinamiche in senso stretto e di norma
collegate alla morte o all’aldilà.
Natura Coltura Cultura
“Natura” è un termine culturale per
indicare genericamente quanto va oltre la cultura umana, che oggi è ancora
figlia della coltura agricola, con i suoi spazi ben definiti da coltivare.
“Realtà” è l’insieme di “cose” (dal latino “res”) che ci circondano, umane e
non, che cerchiamo continuamente di definire, cioè di delimitare nel nostro
campo (ancora l’agricoltura) d’azione. Un’azione speculare al nostro desiderio
“comodo” (con “modo”, adeguato alla nostra misura) di vedere il mondo (che è
già una realtà “mondata”, cioè libera quanto possibile da elementi avversi ai
nostri modi di vivere). Definiamo in base a delimitazioni da sempre, ma nella
nostra società, che cerca letteralmente di seminare di strutture stabili la
superficie terrestre, hanno preso la forma particolare dell’angolo retto, da
cui, anche se presi a fondo dalle nostre opportune astrazioni, cerchiamo di
sfuggire per una specie di richiamo ancestrale alla vita. Uno sbadiglio, la
curiosità per qualcosa che si muove, per una pentola che bolle o per una voce
che emerge dal brusio, l’arrivo di una persona cara o di un intruso, la
curiosità per quanto dal “di fuori” entra nel nostro campo di azione ci
riportano oltre la cornice storica dell’informazione. Perché questa ha un
limite e permette alla quotidianità di essere presente e predominante anche se,
sempre più spesso, ci sembra un altrove con troppi limiti rispetto alla potenza
crescente del mondo virtuale.
Frammenti d’informazione e difese
apotropaiche
Per come siamo abituati dovremmo
ritenerci fortunati. Siamo ancora immersi nella “realtà” e – perché no? – nella
“natura”. Ci sentiamo ancora “materia” nonostante filosofia e scienza ci
spingano sempre più verso l’"immateriale": l’universo nello spazio e nel tempo
emersi da un ”entanglement”, “garbuglio” quantistico di minuscoli frammenti
d’informazione (Le Scienze, marzo
2017). E questo senza prendere in considerazione il multiverso di cui dovrebbe
essere una parte infinitesima.
Queste interpretazioni concettuali
sono fondamentalmente difese apotropaiche nei confronti di quanto non riusciamo
ancora a dominare per come ci sembra di essere ora, cose - e quindi realtà -
che possono minacciare la nostra integrità fisica, che non abbiamo ancora visto
da con i nostri occhi da vicino e toccato con mano, siano l’interno della terra
o lo spazio profondo. Oltre a fenomeni naturali di eccezione - leggi
“catastrofi” - che l’ottimismo industriale postbellico ci aveva portato a
sottovalutare. I cambiamenti climatici, quasi certamente provocati da
quest’ultimo, oltre ai rischi connessi alle nuove tecnologie (dal nucleare alle
nanotecnologie, dagli interventi in campo genetico ai virus degli hacker) sono
solo le ultime di una lista millenaria di paure per il nostro corpo, per come lo
definiamo capace di adeguarsi alla realtà, specie nella nostra ottica ottimista
e darwiniana.
La cura tecnologica
La tecnologia – ovvero l’uso di
strumenti e il discorso inerente ai loro risultati pratici finalizzati al
nostro benessere in quanto esseri corporei destinati a restare tali nel
migliore dei modi e il più a lungo possibile – dai chopper dell’Homo Abilis alle
losanghe di Blombos, dalla pittografia alla rete internet, ci ha fornito tutta una
serie di strumenti concreti e astratti (non esiste per noi concretezza senza
una progettualità che la definisca) per tentare di curare queste paure e
diminuirle, quanto meno a livello quantitativo. La controindicazione
fondamentale a questi rimedi risiede nel loro elenco sterminato (è lo stesso
timore che ci coglie quando leggiamo il bugiardino di certi medicinali). Diamo
vita a panorami che ampliano continuamente i propri confini e al contempo
desiderano essere racchiusi in una comoda visione d’insieme. Esiste una specie
di incontro/scontro permanente tra le informazioni corporee, la parola e le
rappresentazioni per immagini e scrittura. L’informazione tecnologica – cioè tutta
quella non strettamente legata al nostro corpo fisico – ci distrae e ci porta
altrove per riconsiderarci alla sua luce: è presente, dai primordi, come un
altro “altro” da quando abbiamo iniziato a rappresentarci.
Naturalmente artificiali e artificialmente
naturali
Ogni nuovo strumento, ogni nuovo
medium espressivo ci avvince e ci distrae dai precedenti a cui torniamo prima
per pura necessità e poi per comprenderli, prenderli in comunione col nuovo e
acquisire una nuova coscienza del perché siamo qui e ora. Infine la biologia,
sempre lei (che è anche scienza), ci distrae per farci tenere in conto, come
sempre, i bisogni primari: quanto si è soliti dire “sana distrazione”. Ma,
appena possibile, ecco che torniamo a rivolgere la nostra attenzione allo
schermo magico in cui descrivere la nostra posizione in tutta una serie di
universi, piccoli o grandi che siano.
Siamo ancora naturalmente artificiali e artificialmente naturali, ondeggiamo
fra due poli che sono uno solo ma ci piace siano due. Per distrarci e tirare il
fiato. Per inspirare e ispirarci, perché il nostro fisico ha necessità di
questo ossigeno da tavola periodica.
Una via di fuga per ogni realtà
Per questo credo non sia ancora
arrivato il tempo per nuove forme iconografiche della comunicazione che vadano
oltre un inquadramento con via di fuga. Discorso che ritengo tanto più valido per i
recenti tentativi di realtà sintetiche totalmente immersive: dubito che possano
avere un impatto di massa, quanto meno a breve. Se ne parlava già venti anni fa
per i caschi della Realtà Virtuale e sono oggi sotto gli occhi di tutti le
difficoltà di espansione di strumenti come l’Oculus Rift e simili. Il fastidio
della vista per la privazione di alternative annulla o rende di breve durata il
piacere del feedback. Se mai dovessimo abbandonare l’angolo retto – e quindi
l’immersività parziale – ci troveremmo di fronte a una vera e propria
rivoluzione antropologica, che potrebbe preludere a un distacco della nostra
realtà sensoriale dalla superficie terrestre e quindi dalle strutture di
composizione con la sua gravità a cui siamo abituati. Saremo in un certo senso
pronti per lo spazio (viceversa, i viaggi spaziali in serie e a lunga durata
produrranno come effetto questa rivoluzione, anche formale). Ma non saremo più "umani" nel senso stretto della parola, cioè legati all’”humus”, alla terra, non
la sentiremo più nostra.
Non siamo la parola “fine”
dell’evoluzione. Il corpo e gli strumenti della sopravvivenza e della memoria
che ci sono cari sono molto probabilmente destinati a profonde mutazioni, ma,
per ora, la nostra biologia desidera ancora entrambe le parti della sua parola:
la vita e le forme del suo discorso separati ma in connessione.
Due sane distrazioni
“Distrazione” mi ricorda dei e dee
“Dis et deabus” a cui si è tratti
Dalla quotidianità al cielo
Divisi in due:
Tu che vivi e ti distrai leggendo
Tu che leggi e ti distrai vivendo
Ti alzi con i piedi ben in terra
Torni a radici più forti volando alto
Dimentichi di fare e fai poesia
Ti distrai per un volto caro da un’idea
E il tuo amore descrive più forte la sua
danza
Dentro e oltre i margini del
foglio bianco.
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