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sabato 31 dicembre 2022

BUON ANNO NUOVO CON MUSICA E MUSICISTE DI VIVALDI

 

Nel 2023 saranno tre secoli esatti dal ritratto più realistico del genio veneziano. Uno schizzo, opera di Pier Leone Ghezzi, eccellente caricaturista e anche discreto pittore. Compositore ricomposto nell’attimo, quasi di nascosto, in una rara trasferta a Roma per il suo Ercole sul Termodonte al Teatro Capranica. Successo enorme, fin da quell’Ouverture dove un singolo strumento, il violino prediletto, trascinava per la prima volta l’orchestra ad ali spiegate dal Tevere all’entroterra del mito in Anatolia. Naso importante e dentatura superiore sporgente da epoca pre-apparecchio dentale, il Prete Rosso armato di parrucca e boccoli resta eternato nell’atteggiamento piacevole simbolo dell’epoca. Ghezzi, che si dilettava anche di musica, l’avrà certo incastrato per qualche cena-concerto a casa sua e uno come fa a dire di no, anche se gli piazzano davanti i difetti fisici invece di un bel ritratto ufficiale, quando tutto va bene?

Ma certo, tutto filerà liscio per più di altri tre lustri, nonostante l’asma che gli impedisce una messa intera da prete come dio comanda, i soldi mai abbastanza da permettersi un castrato di grido come Farinelli o Senesino, le critiche di colleghi come Benedetto Marcello e, nemo propheta in patria, i giudizi più favorevoli all’esecuzione del suo benedetto/maledetto violino che ai pentagrammi scritti a ritmo indiavolato dei suoi capolavori, sottovalutati specie dai conterranei, Goldoni in primis. La Serenissima sempre più prigione dorata. Poi la fuga a Vienna nel 1740, la sfortuna dello scoppio della Guerra di Successione al trono austriaco, che fa chiudere i teatri, e la morte l’anno dopo, seguita da un rapido oblio durato quasi due secoli.

Ercole che sconfigge le Amazzoni, ma solo perché le coglie di sorpresa. Oggi mi godo l’opera nella splendida versione di Fabio Biondi e ricordo ancora quando, più di trent’anni fa, ebbi un sussulto ascoltando la sua interpretazione delle Quattro stagioni dopo quella canonica di Salvatore Accardo: che meraviglia, sembrava hard rock, Jimi Hendrix tornato in vita nel Settecento! Dalla fine degli anni ’80 l’amore per la ricostruzione filologica della musica classica non mi ha mai abbandonato. Ma di questo ho già scritto nei miei Dispacci musicali.

Vivaldi non abbandonò le sue Amazzoni dopo la momentanea vittoria dell’eroe greco. Dopo Roma ancora Venezia, a oriente. Vittorie, plurale femminile, anche se orfane, abbandonate all’Ospedale della Pietà in quelle epoche orrende dov’era troppo facile considerare una figlia femmina peggio di un aborto (sempre bene ricordarlo). Se non altro Venezia dava ad alcune di loro qualche opportunità, sempre che sopravvivessero alle asprezze della vita e dell’educazione (altre sfide non da poco). Le migliori, e più fortunate, potevano diventare anche musiciste di valore a spese dello Stato. E che valore!

Parola di un uomo dai gusti difficili ma sincero come Charles De Brosses, autore di signore lettere di viaggio in Italia fra il 1739 e il 1740, dove incontrò musicisti del calibro Veracini e Tartini, che in qualità di esecutori ritenne meno coinvolgenti dell’Anna Maria delle Ospedalette: “Musica eccezionale qui a Venezia è quella degli ospizi… Fanciulle bastarde o orfanelle o che i loro genitori non sono stati in grado di allevare. Sono educate dallo Stato e le istruiscono esclusivamente per farne delle eccellenti musiciste…  Sono segregate come monache. E sono soltanto loro che eseguono concerti; ogni gruppo è composto di una quarantina di ragazze. Vi giuro che non c’è niente di altrettanto divertente come una giovane e graziosa monaca, in abito bianco, con una coroncina di fiori di melograno sopra le orecchie, che dirige l’orchestra e segna il tempo con tutta la grazia e la precisione immaginabili… Quello degli ospizi dove vado più spesso e mi diverto di più è l’Ospizio della Pietà; è questo anche il primo per la perfezione dell’orchestra. Che rigore di esecuzione! Soltanto lì si può sentire quel famoso primo colpo di archetto tanto a torto vantato dall’Opera di Parigi. La Chiaretta sarebbe senza dubbio il primo violino d’Italia se l’Anna Maria delle Ospedalette non le fosse anche superiore. Ho avuto la fortuna di sentire quest’ultima, la quale è tanto bizzarra che suonerà sì e no una volta l’anno”.

Senza contare che De Brosses Vivaldi lo aveva incontrato di persona. Il veneziano stava finalmente preparando come si deve la sua fuga all’estero e cercava di piazzargli i suoi manoscritti: “Vivaldi è diventato mio amico intimo, per vendermi i suoi concerti a carissimo prezzo. In parte vi è riuscito, come son riuscito io nel mio intento, che era quello di ascoltarlo e di procurarmi spesso qualche buona ricreazione musicale: è un vecchio dotato di una prodigiosa furia nel creare. L’ho sentito vantarsi di comporre un concerto più rapidamente di quanto impiegherebbe un copista per trascriverlo. Ho constatato con mia grande meraviglia che non è stimato quanto merita in questo Paese, dove tutto è soltanto moda, dove le sue opere si ascoltano da troppo tempo, e dove la musica dell’anno avanti non si esegue più”.

Le sue ultime parole mi ricordano qualcosa di molto attuale. E infatti l’oblio sarebbe presto sceso anche sulle ragazze della Pietà. Qualche anno dopo, pur godendo delle stesse armonie, Jean-Jacques Rousseau era già più predisposto a vederne i difetti fisici: gli angeli di De Brosses, anche se celati in parte da grate, rivelavano volti colpiti da vaiolo o da altre menomazioni. Come se gli uomini non avessero gli stessi problemi! Erano donne in carne ed ossa e alcune di loro non vollero rassegnarsi a essere solo grandi virtuose segregate, ma si cimentarono anche nella composizione. Altro velo di silenzio da poco diradato. Agata, Michielina e Santa della Pietà almeno le trovate su Wikipedia.

Nessuna nostalgia quindi della repubblica veneta, ma fiducia nella nostra, democratica, perché solo le conquiste democratiche della nostra epoca hanno saputo dare concretamente un valore a tutte le vere culture del passato, e per tutti. È bene ricordarlo, perché la nostra Sinfonia, la migliore di sempre, acquisti ancora più forza con questa musica.


Seguono tre frammenti dal mio dramma incompiuto Vivaldi e nostre signore.


Frammento con Ghezzi


Vivaldi

Anch’io faccio ritratti, sapete? Le mie opere saranno maschere, ma le note… le note sono precisi volti di donna, quelli delle mie musiciste alla Pietà. Le mie Amazzoni, che non temono nessun Ercole. I loro nomi io li scrivo in bella grafia all’inizio di ogni spartito. Lo strumento accanto è come il figlio e per il cognome che non hanno aggiungete pure Armonia o Invenzione: la vera progenie è questa.


Frammento con De Brosses


Vivaldi

Amate gli antichi e avete un buon orecchio, ma a cosa vi serve se della musica antica non resta quasi niente? “Flatus vocis”, il latino lo studiato anch’io. E cosa resta della mia musica se non questa carta? Se scrivo senza pace è perché so che, quando anch’io sarò antico, resterà solo questo. Prendetelo come il messale che non sono mai riuscito a leggere per intero - sapete soffro d’asma. Sulla carta, se mi manca il respiro, sulla carta basta scrivere una pausa. Ma ora basta pause, basta chiavi di violino, mandolini, ponti dei sospiri, basta.


Frammento delle compositrici


Agata

Io manco di quattro dita alla mano sinistra, per questo canto. Ma chi si mette a guardare le mani degli angeli? Contano le ali. E io con la mano destra ho scritto un testo perché continui a cantare la figlia che non ho potuto avere, Gregoria, che ha il nome più degno di un papa.

Santa

E io che sono Santa anche nel nome, non mi sono cimentata a musicare un Salmo di re Davide, quello che i compositori uomini inserivano nei Vespri della Beata Vergine? Ma quel Laudate pueri io l’ho dedicato ai figli che non ho potuto avere.

Michielina

Sorelle, io ho consacrato due figli a Dio, l’organo e il violino, e Lui, il mio dolce sposo, ha permesso che dalle cinque sbarre della mia prigione si liberasse l’inno al suo corpo glorioso. Pange lingua. Canta, lingua, canta almeno il seme della sua parola. E liberiamoci anche noi, sorelle, abbandoniamo a testa alta e nel segno della meraviglia questa vita che ci ha visto recluse.

Luca Traini

domenica 13 novembre 2022

CARAVAGGIO A LUCI SPENTE

Commento musicale Joep Franssens, Echo's

Ho ritrovato Caravaggio senza accendere la luce.

La vocazione, la scrittura, il dramma avvolti ancora nel fumo dei ceri appena spenti.

Nel buio tre versi, di un altro Michelangelo:

“O notte, o dolce tempo, benché nero,

Con pace ogn’opra sempr’al fin assalta;

Ben vede e ben intende chi t’esalta”.

Eppure basterebbe una moneta per accendere i riflettori sui quadri di Michelangelo Merisi, luce fissa come il sole invece delle candele che tremavano quand’era vivo, quando la luce strappata alle tenebre vibrava nei quadri al ritmo degli stoppini accesi, del fumo sinuoso, in balia di ogni respiro.

Invece il buio. La cecità di chi obbligò quelle opere a essere deposte in spazi così infelici. La museruola agli occhi della Controriforma, il rifiuto della prima versione di Matteo e l’angelo. Di Matteo non più arcigno esattore ma non ancora santo, bravo a fare i conti ma impacciato nello scrivere l’addizione più  complessa: un dio che si fa uomo e muore sulla croce degli schiavi. L’angelo che guida della mano, quell’angelo così giovane, è una soluzione. E allo stesso tempo un problema.

Semioscurità. Come la foto che resta del primo quadro, bianco e nero. Incendi. Nel cuore del pubblicano che diventa apostolo. Negli occhi del pittore, perché la forma emerge da un fondo atro. E l’incendio che rifiuta ogni metafora, quello che brucia trama e tela in una torre di cemento a Berlino (A.D. 1945).

Il Matteo che oggi sopravvive meglio all’ombra non ha più angeli al suo fianco, ma una creatura celeste che pende sulla sua intelligenza avvolta in un lenzuolo dal cerchio perfetto. Mente dell’uomo non più assopita, messaggero di Dio che trascende ogni gerarchia di sintassi per computare all’evangelista un miracolo politico: i gradi di parentela di Gesù col re Davide.

Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Cappella del cardinale Mathieu Cointrel, dove un verso di Jean De Sponde sta ai tre quadri di Caravaggio:

“E m’inabissa, mi scuote e m’incanta”.

Matteo che senza l’indice di Cristo a spalancare un vortice di luce viva resterebbe nella penombra di una finestra dai vetri opachi.

Matteo che muore e cade senza che sia bello cadere tre secoli prima di Rilke, goffo come un plebeo che non sa tenere in mano uno straccio di arma, quella palma del martirio che pure un angelo fatica a piazzargli in mano.

Il pittore si ritrae costretto a ritrarsi. Dov’è che l’evangelista o l’angelo avevano scritto: “Non sono venuto a metter pace, ma una spada”?

La pace è solo nostra, conquistata a fatica nei secoli. Luce elettrica e monete per accenderla. Per accedere e accendere l’arte nunc et semper.

Luca Traini 


Il mio dramma Morte di Caravaggio in https://lucatraini.blogspot.com/2014/11/caravaggio.html

Altro testo sulla chiesa di San Luigi dei Francesi in https://lucatraini.blogspot.com/p/amori.html

martedì 5 luglio 2022

ARCHETIPI DANZANTI Opere di Walter Tacchini

 

ARCHETIPI DANZANTI

Opere di Walter Tacchini

a cura di Debora Ferrari e Luca Traini

con Marco Castiglioni, allestimento Sara Conte

Museo Castiglioni Varese dal 9 luglio all’11 settembre

Inaugurazione con apericena Sabato 9 luglio Ore 18

Banca Generali Private Como dal 12 luglio all’11 settembre 2022

Inaugurazione con apericena Martedì 12 luglio Ore 18

PROROGATA FINO AL 6 GENNAIO 2023

Una doppia mostra a Como e Varese rende omaggio ai prodigi e alle fantasticherie di Walter Tacchini, artista di La Spezia dal respiro internazionale. Nelle sue sculture c'è il segno di una grande stagione della cultura europea che si muoveva tra Sartre, le sorelle De Beauvoir, Cocteau e Jacques Prévert. Oggi ottantenne sempre dedito alla creazione con una verve ineguagliabile (sculture, quadri e mobili rigenerati con Liguria Vintage e le opere collezionate da Crastan Caffè nella sua sede Romito Magra), a vent’anni Walter ha scoperto che le mani erano un efficace strumento di creatività e quindi ha cominciato a dipingere, fare statue, scolpire la pietra, intagliare il legno, giocare con qualsiasi materia malleabile. La svolta della sua vita data agli inizi degli anni Sessanta quando la ditta edile del padre era impegnata nella costruzione della nuova casa di Franco Fortini e di sua moglie Ruth a Bovognano, lungo la strada che da Ameglia conduce a Montemarcello. «Verso il 1962-63 Le Corbusier – racconta Tacchini – venne da Fortini, di cui era amico. È in quell’occasione che lo conobbi e che apprezzò il lavoro che facevo con mio padre. Mi fece guardare verso Carrara, verso le cave, e mi disse: “Tu sei uno scultore nato, perché non ti dedichi alla scultura?”. E’ così che Tacchini inizia a elaborare una vena creativa assolutamente originale, dedita al recupero di forme e archetipi ancestrali, ispirati sia alle stele antropomorfe lunigiane di 5.000 anni fa come alle maschere tipiche come nella tradizione del Carnevale storico di Ameglia dell’Omo ar Bozo che lui stesso risveglia e rinvigorisce coi suoi costumi fin dagli anni ’70.

“Considerare la cultura come forza formidabile e valore inesauribile è un segno distintivo che caratterizza l’impegno di Banca Generali Private di Como nella sua offerta in campo artistico. Questa fiducia incrollabile nelle capacità creative di dare un senso positivo alla vita dell’individuo e al suo rapporto con la società in cui opera per un progresso condiviso è in sintonia con la persona e l’arte, in perfetta simbiosi, di Walter Tacchini. Con la mostra a lui dedicata, Archetipi danzanti, presentiamo quindi una personalità dalla verve ineguagliabile, capace di esprimere quotidianamente tutta una serie di creazioni originali che spaziano dalla pittura alla scultura, giocando con qualsiasi materia malleabile”. Scrive Guido Stancanelli, District Manager BGP, con Daniela Parravano, nella presentazione in catalogo.

Dai manifesti per il Teatro di Strada, di cui è artefice insieme ai grandi nomi europei, ai quadri, alle maschere, alle sculture che realizza anche per enti pubblici come di recente a Lerici, alle Uova e ai mobili rigenerati di recente creazione per Liguria Vintage di Marco Natale, usando una ricca serie di materiali che vanno dalla ceramica al legno. Al Museo Castiglioni il percorso si articola in rapporto alla maschere africane della collezione dei fratelli Castiglioni, mentre a Como i quadri materici ci riportano al valore del simbolo e alla sua interpretazione contemporanea, sul tema del tempo e della luce, elegante e poetica per un totale di quasi 100 opere nelle due sedi. Le mostre sono state annunciate in una conferenza incontro alla Fondazione Sangregorio di Sesto Calende, partner culturale dell’iniziativa, il 25 giugno alla presenza dell’artista, di alcuni partner e dei responsabili della Fondazione.

Catalogo edito da TraRari TIPI editore in limited edition.



Lo spazio, tra fisica e sentimento vitale

[...] Per Walter Tacchini possiamo parlare di ‘pensiero tangibile’. Raccoglie ogni istante la storia dentro di sé, la metabolizza, la trasforma, la crea a propria immagine dando all’elemento intellettivo una forma destinata a durare e testimoniare il pensiero che l’ha generata. Tra fisica e metafisica le opere di Tacchini si collocano sia nello spazio illimitato che tutto contiene -con quel discorso di micro e macrocosmo che cogliamo nei lavori- sia nello spazio divino che nutre l’animo umano. C’è predominanza dell’elemento sacro in tutto, sia per l’esecuzione che per la poetica. Si vedano le forme delle sculture, delle maschere, delle stele, ma si raccolgano anche le gamme cromatiche usate per la definizione delle campiture e il risalto dei pani, sia bi/ che tridimensionali. Lo spazio è quindi condizione di esistenza per le sculture, naturalmente, ma diviene un concetto capace di contenerne altri, ritornando sia alla narrazione del tempo, sia alle radici recuperate e rielaborate. Questo nell’ottica della complessità della sua opera globale, ovvero nell’insieme di progetti e sculture, grandi e piccole, realizzate nella sua lunga e fertile carriera. Ma quando parliamo di spazio singolo di ogni opera il rapporto è 1:1 con il pubblico, da una parte una preghiera dall’altra una tauromachia. In che senso? Proprio nel confronto vitale: davanti a una scultura possiamo porci come in meditazione, ma anche in sfida qualunque cosa rappresenti o emani il soggetto creato. Si sentono le mani del demiurgo artista, si sente la sua forza dinamica, potendo raccogliere sia l’aspetto ispirato, sia il processo sofferto della produzione. Tutte le opere di Walter Tacchini contengono radici, tempo, luce, spazio, divino, sentimento. È la capacità di far danzare gli archetipi che ce le rendono tanto ancestrali e contemporanee così come contemporanee ma fortemente antiche. Nel per sempre, meravigliosamente.

Debora Ferrari


Foto della recente mostra all'Hotel Byron di Lerici (da La Gazzetta della Spezia)

Walter Tacchini è uno di quei giovani ottantenni che fanno impallidire chi è giovane solo all’anagrafe. C’è da chiedersi se il merito sia delle uova che continua a forgiare ogni giorno o del fatto che queste opere, che ti lasciano a bocca aperta per quanto sono belle, siano frutto della sua giovinezza senza età. Naturalmente no. La risposta esatta è la seconda. Quindi non voglio dilungarmi a discutere delle uova nella storia dell’arte – è chiaro che dietro c’anche la lunga covata estetica dei millenni – voglio piuttosto sottolineare che non si tratta di ellissoidi o sferoidi risistemati freddamente, ma di creature-creazioni vive e vivaci che sanno giocare con tutte le vibrazioni della luce e infondere nell’animo di chi le contempla quella gioia di vivere che solo la vera arte sa offrire. Il regalo, come nelle vere uova pasquali, è lo spirito di rinascita che sta dentro.

Poi, le maschere. Che non mascherano nulla, anzi, rivelano quanto mascheriamo. Una sfilata affascinante di se stessi che l’ordinarietà tende a ridurre a uno e invece sono la somma di un’individualità più grande. Perché in quelle di Walter, anche se le puoi godere esposte beate e tranquille, ci senti pulsare dietro il teatro, quello di strada (è un’altra via che ha percorso prima e durante l’insegnamento all’Accademia di Carrara). È il passaggio davanti alla porta di casa di tanti diversi io che sono altri e altro, che devi invitare a pranzo per mangiare e bere i frutti di quella terra da cui l’artista trae altro. Sempre per te. Walter non ama la distanza fisica, le religioni misteriche, peggio, l’élite. Lui ti guarda, di persona o nella magia di quanto compone, cerca il dialogo e il confronto come gli artisti di una volta, come quando Picasso passeggiava per Mougins e si fermava a parlare con le persone in giro. Come va? La vita, voglio dire. Se la vita e l’arte sono una cosa sola, e per tutti, va bene.

Luca Traini

Walter Tacchini ritratto da Roberto Battistelli

Classe 1937, nato a Romito Magra, frazione di Arcola (SP), Walter Tacchini è un artista unico nel suo genere. La sua prolifica carriera di scultore e pittore, grazie anche a una formazione sviluppatasi fra Italia e Francia, può vantare una lunga serie di collaborazioni e riconoscimenti a livello internazionale. Legno e ceramica sono i materiali che predilige per esprimere una sintesi assolutamente originale fra astrazione e figurazione. La sua forte personalità, caratterizzata da un’operosità inesauribile e da una continua attenzione tanto alle eredità del passato quanto agli aspetti più innovativi, non ha mai cercato un’arte fine a se stessa, ma un costante rapporto con altre dimensioni estetiche. Lo testimoniano i numerosi contributi al mondo del cinema e del teatro, grazie al design di costumi e maschere dalle metamorfosi sempre in atto. Da sottolineare, inoltre, il suo tenace impegno sociale nel corso degli anni e la promozione della sostenibilità ambientale anche in tempi in cui non era di moda. Un artista capace di far arrivare la complessità del suo lavoro dritta al cuore, grazie a una visione fuori dal comune unita a una limpida chiarezza d’intenti e realizzazioni. Un uomo caratterizzato da una risoluta volontà costruttiva, ereditata dai tempi in cui lavorava nell’impresa edile del padre. E proprio mentre era alle prese con la casa di Franco Fortini a Bavognano sopra Ameglia, verso il 1962-63, un gigante dell’architettura come Le Corbusier, ospite del poeta, si rivolse all’artista ventenne indicando Carrara e le sue cave: “Tu sei uno scultore nato, perché non ti dedichi alla scultura?”. “Come me, Le Corbusier era figlio di un edile e non era laureato” ha tenuto a sottolineare Walter in un’intervista a Repubblica nel 2019. Fatto tesoro di questo prezioso consiglio, nel 1966 Tacchini può già presentare a Sarzana la sua prima personale, che ripete l’anno successivo, quando espone le sue opere anche alla Mostra di Pittura di Castiglioncello ricevendo la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica Italiana. Nel 1968 amplia il suo raggio d’azione in Toscana, vincendo il Primo Premio alla mostra Mare e monti di Marina di Carrara, al Concorso Castello Malaspina di Fosdinovo e alla Galleria L’approdo di Viareggio. L’anno seguente, dopo essere stato presente alla VI Biennale Internazionale di Scultura di Carrara e aver vinto il Primo Premio al Concorso Luci e colori di Massa, approda a Milano dove è presente alla VI Mostra d’Arte Moderna e al Museo di Arte Moderna Pagani. Tra il 1969 e il 1970 partecipa ad esposizioni a Genova, Ancona, Carrara e Milano, oltre a compiere il primo passo verso il mercato internazionale quando viene premiato alla Prima Biennale Europea d’Arte Contemporanea a Dubrovnik. E proprio durante la VI Biennale Internazionale di Scultura di Carrara nel 1969 la sua opera suscita l’interesse del diplomatico Lionel De Roulet, che rincontra nello stesso anno a Bocca di Magra con Franco Fortini – durante uno dei classici “concili” organizzati da Giulio Einaudi - insieme alla moglie, la pittrice Hélène de Beauvoir (sorella della scrittrice Simone). Fra i tre si crea un legame di profonda amicizia, rafforzato dalla frequente presenza della coppia in Liguria, dove possedeva una casa a Trebiano, restaurata dal padre di Walter e comune di residenza dello stesso Tacchini. Una riconoscenza reciproca che si concretizzerà nel lascito dell’abitazione proprio al nostro artista e alla moglie Milena, quella che Hélène chiamava “ma petite famille italienne”. Nel 1970 è sempre De Roulet, a capo della Direction pour les Affaires Culturales del Consiglio d’Europa, a invitare Walter Tacchini a Strasburgo per la realizzazione di una scultura in arenaria dei Vosgi a Goxwiller. Nel 1971 è nuovamente in Francia, questa volta su invito della de Beauvoir, per realizzare una coproduzione di scultura mobile. Nel 1972 partecipa sia alla III Rassegna Internazionale di Primavera Atene-Roma che alla XII Biennale Europea d’Arte Contemporanea al Pireo. Torna nuovamente in Francia nel ‘73, a Montbéliard, invitato da Jean Hurstel al C.A.C. (Centre d’Action Culturelle) per interventi di Social Art (animazione di laboratori di scultura, serigrafia, maschere, scenografie, carnevali, ecc). Nello stesso anno, sempre a Montbéliard, realizza un bassorilievo in ceramica, viene nominato Socio Ordinario alla Permanente di Milano, espone alla VII Biennale Internazionale di Scultura di Carrara e partecipa alla Mostra Collettiva di Scultura presso Galleria Tre Papi di Sarzana. Nel 1974 approda a Parigi per iniziare la collaborazione con Albert Diato, ceramista che aveva a sua volta collaborato con Picasso a Vallauris, quindi partecipa alla X Mostra di Scultura all’aperto del Museo d’Arte Moderna Pagani di Milano e realizza scenografia e maschere della Commedia dell’arte al C.A.C di Montbéliard. Nel 1975 inizia la sua attività di docente all’Accademia di Belle Arti di Carrara, che durerà fino al 2005. Nel decennio che segue arricchisce ulteriormente il proprio percorso artistico fra Italia e Francia. Da sottolineare, nel 1976, l’esposizione di giornali e manifesti realizzati per i film di Armand Gatti a Parigi presso il Centre Pompidou. Nel 1977, con profondi interventi di Social Art insieme agli abitanti di Ameglia, inizia l’opera di rivalutazione dell’antichissimo carnevale autoctono L’omo ar bozo: fondamentale esperienza fra antropologia e arte che porterà avanti nei decenni successivi e di cui darà testimonianza anche nel libro L’omo ar bozo: dalla tradizione all’arte popolare, pubblicato dalle Edizioni Giacchè nel 2002. Sempre per un intervento di Social Art, nel 1980 viene invitato a Bruxelles dal Ministero della Cultura belga. Partecipa quindi al Festival di Avignone realizzando di un grandissimo affresco nel quartiere La Rocade. L’anno successivo cura la scenografia di Behren à tire d’aile per l’Action Culturelle du Bassin Houiller Lorrain (A.C.B.H.L.) a Freyming-Merlebach e riceve il Primo Premio Ameglia per la Grafica. Tra il 1982 e 1983 cura in Francia la scenografia di Grezgeschichten a Petite-Rosselle e la scenografia per l’A.C.B.H.L. Printemps de la Creation a Stiring Wendel. Nel frattempo consolida il suo impegno ambientalista con azioni di Social Art insieme a Lega Ambiente nelle manifestazioni La pace a Roma (1983) e In nome del popolo inquinato (1984). Sempre nel 1984 approda in Germania a Ingolstadt per la Mostra Collettiva Grafik und Malerei. Nel 1986, in Francia, cura la scenografia per Vita Lorraine a Saint-Avold. Nel 1987 torna a Sarzana per curare un intervento di arte sociale: Un carnevale diverso. Nello stesso anno realizza in Francia mostre personali a Saint-Avold e a Freyming-Merlebach. Nel 1990 partecipa al Convegno Internazionale Arte Sociale realizzando diverse scenografie sul tema dell’immigrazione per 37 gruppi teatrali. Gli anni dal ’91 al ‘94 sono dedicati soprattutto a contribuire alla costruzione di un importante laboratorio di ceramica con l’associazione culturale Radovan per il lavoro sulla statua-stele, rinnovando anche in questo caso una preziosa eredità, quella della statuaria della Lunigiana (attiva dal III millennio al VII secolo a.C.). Nel 1995 viene invitato a Strasburgo al V Congresso Europeo sull’Arte Sociale e, sempre a Strasburgo, l’anno successivo partecipa a L’art dans les Banlieues. Tra il 1997 e 1999 espone per ben due volte una propria mostra presso l’evento Cibus di Parma e partecipa nel ‘99 alla Fiera di Carrara. Tra il 1998 e il 2001 contribuisce alla realizzazione di un Laboratorio di Arte Sociale a La Spezia, dedicandosi poi nel 2000 a restauri e decori del piano inferiore della Parrocchia dell’Immacolata Concezione del suo paese natale. Sempre a Romito Magra, tra il 2000 e il 2002, realizza la decorazione interna ed esterna della fabbrica Crastan Caffè. Nel 2003, a Milano presso il Teatro ArtandGallery, cura la performance Omo ar Bozo all’interno della manifestazione I Semi di Joseph Beuys. L’anno che segue realizza per una campagna di sensibilizzazione ambientale di Acam il cartone animato Metano Energia Sicura. Nel 2006 viene inaugurato il Museo Aziendale Crastan Caffè che ospita le opere di Walter Tacchini. L’anno dopo, ad Arcola, presenzia alla mostra Terra di Luna all’interno della manifestazione Teatralità e Mistero e alla Collettiva Hombelico presso la palazzina delle Arti di La Spezia. Nel 2008, a Valencia, partecipa alla manifestazione Cultura e Solidarietà su invito de L’Agence Européenne de la Culture del Consiglio Europeo. Data al 2010 l’inizio di varie collaborazioni con architetti, attraverso concorsi di idee, mentre nel 2011 realizza a Milano una grande personale di maschere di ceramica. Del 2012 è l’esposizione permanente Kronos al Mandorlo di Sarzana. Nel 2013, presso l’Istituto Comprensivo di Vezzano Ligure, realizza con gli alunni un murales in ceramica (380x380). Successivamente compone una vetrata (184x162) all’interno di una villa milanese dell’Ottocento. Sempre nel 2013 restaura un ambiente interno di origine medievale in Sardegna. Nel 2017 organizza e allestisce una mostra itinerante dedicata a Hélène de Beauvoir, con la collaborazione di Marco Ferrari e col patrocinio del Parco di Montemarcello Magra-Vara sotto la guida del presidente Pietro Tedeschi: 21mila presenze. Nello stesso anno, al Premio Lions Club Lerici, premia la regista spezzina Federica Di Giacomo donandole una scultura. Nel 2018 vince il concorso La Spezia Porta di Sion per la riqualificazione del molo Pagliari e, l’anno dopo, cura di nuovo a La Spezia, presso il Museo Etnografico e Diocesano, l’esposizione temporanea Carlevà. Il carnevale nello spezzino tra Ottocento e Novecento. Sempre nel 2019 realizza la scultura Le ali della libertà, vincitrice del concorso nazionale La Spezia Porta di Sion. Inoltre cura una grande personale al Castello di Lerici, Kronos – forme luci e colori di Lerici, visitata da oltre 25.000 persone. In contemporanea, con la partecipazione di 75 ragazzi e 150 adulti, attiva un laboratorio di arte sociale dentro il Castello di Lerici che partecipa alla sfilata del Palio del Golfo di La Spezia. Nel 2019 inizia l’elaborazione e la trasformazione di mobili antichi riciclati. Nel 2020 ne espone diversi in Val Graveglia, nel comune di Pignone. Inoltre, una maschera antropomorfica in ceramica del carnevale di Ameglia Omo ar Bozo viene presentata al Museo delle Maschere Mediterranee di Mamoiada. E sempre in Sardegna attiva un laboratorio di arte sociale a Santa Maria Navarrese, nel comune di Baunei, dal titolo Gabbiano Guerriero Contro l’Inquinamento Globale. Nello stesso anno organizza e allestisce la mostra dedicata a Hélène de Beauvoir a Casté curata da Debora Ferrari. Nel 2021, sempre a Casté, prepara alcuni bassorilievi dal titolo Le pietre raccontano. Negli ultimi due anni, infine, si è sviluppata la collaborazione con Liguria Vintage e il suo ideatore, Marco Natale. Le opere della serie Il legno racconta sono esposte all’interno della fabbrica e dello showroom Liguria Vintage a Riccò del Golfo. La sua mostra più recente, composta da una preziosa raccolta di maschere e uova di ceramica, è di quest’anno, da marzo a giugno , all’Hotel Byron di Lerici. Il 18 giugno 2022 è stata inaugurata la sua grande scultura Ninfa sul Sentiero 501 di Casté.

IL LETTERATO E IL MERCANTE

Filippo Sassetti da Firenze all’India nel crepuscolo del Rinascimento

La peripezia è un mutamento della situazione in senso contrario al previsto,

sempre però secondo i principi di verosimiglianza o di necessità.

Aristotele, Poetica

Commento musicale Duarte Lobo, O magnum mysterium




Come mai un umanista fiorentino, autore di un’Esposizione della Poetica di Aristotele e di una Difesa di Dante, finisce 440 anni fa a cercare pepe nella costa del Malabar?

La risposta è semplice: perché veniva da una famiglia di mercanti. Famiglia che si era fatta strada con successo fra banche e commerci già dalla fine del XIII secolo, tanto da potersi costruire nel Trecento un palazzo presente tuttora nel capoluogo toscano. Culmine gli anni ’80 del Quattrocento, quando Francesco Sassetti, uomo di fiducia di Lorenzo il Magnifico in Francia, si era potuto permettere una cappella nella basilica di Santa Trinità affrescata da capolavori del Ghirlandaio. Una famiglia che vantava remote origini nobiliari, ma unico dato incontestabile è il titolo di conte palatino concesso nel 1510 da papa Leone X, non a caso figlio del Magnifico.

Domenico Ghirlandaio, Conferma della Regola francescana, 1485 (il Sassetti è accanto al Magnifico sul lato destro)

Filippo Sassetti nasce il 26 settembre 1540, quando, anche se gli splendori della piccola dinastia sono già passati, le attività pur tra alti e bassi riescono ancora a procurare una certa agiatezza. Può quindi dedicarsi, dopo una breve parentesi commerciale sotto la guida del padre, a letteratura e filosofia, laurearsi a Pisa, diventare membro dell’Accademia Fiorentina e poi di quella degli Alterati col nome di Assetato (di cultura chiaramente). Quando poi subentra un forte dissesto finanziario, a 37 anni, privo di rendita, lo scrittore torna a rivestire i panni di mercante, dismessi tredici anni prima, e trova anche la forza di scrivere un Ragionamento sopra il commercio tra la Toscana e le Nazioni levantine per sostenere l’ampliamento del porto di Livorno promosso dal granduca Francesco I. Anno Domini 1577.


Firenze nel Grande Gioco geopolitico

Il contesto storico è un po’ più complicato e, di norma, poco conosciuto. Siamo abituati a vedere imperi o grandi stati nazionali spedire flotte in tutto il mondo alla ricerca di nuovi approdi commerciali e puntellare, insieme alle immancabili croci, nuovi insediamenti che nei secoli diventeranno colonie. Meno, a scoprire che anche piccole entità statali come il Granducato di Toscana, per quanto all’ombra dell’egemonia spagnola, cercavano il loro posto al sole fra Indie Orientali e Occidentali. La costruzione stessa del porto franco di Livorno rientrava nel progetto di farne un punto di smistamento per il pepe che arrivava a Lisbona destinato all’Europa centrale. Si cercavano accordi commerciali con regni islamici del Mediterraneo, in particolare il Marocco, e ancora agli inizi del Seicento si tentava di realizzare insediamenti in Brasile o di acquistare una piccola colonia in Africa nella Sierra Leone. Ben poco andò in porto: restò la volontà di far rivivere, almeno in piccolo, i fasti economici della Firenze medievale o medicea.


Vele, cannoni e scorbuto

Quando Sassetti arriva nella Penisola Iberica e vaga tra Spagna e Portogallo (1578-81) per cercare di piazzare i tessuti della famiglia Capponi tutto questo era ancora ben in là da venire. Sforzo vano anche il suo, specie se, tra uno spostamento e l’altro, il sapore del pepe e il sapere botanico e geografico acquisito negli anni cominciano a far breccia nelle speranze dell’umanista. Nel 1582, infatti, ottenuto l’incarico di agente dal banchiere milanese Rovellasca - che era riuscito, nell’intricata geopolitica dei monopoli della corona portoghese diventata da poco possesso di Filippo II di Spagna, a far parte di un consorzio per l’importazione del pepe dalle coste dell’India sud-occidentale - s’imbarca alla volta del favoloso Oriente, ma resta bloccato per mesi nelle secche al largo del Brasile (rischio diffuso quando si teneva la rotta troppo a ponente affrontando la discesa dell’Africa Occidentale) ed è costretto a tornare a Lisbona. Poiché, come avrebbe scritto, “non sono atto a disperarmi”, l’anno successivo, l’8 aprile 1583, ritenta subito la traversata: lo stesso coraggio dei nostri astronauti e forse più simile a quello di chi partirà per Marte. Risultato: un altro viaggio da incubo. Evitato il rischio di farsi trascinare nelle Americhe, la nave resta bloccata per 40 giorni  - sottinteso il parallelo con l’uguale durata del digiuno di Gesù nel deserto - nella terribile bonaccia del Golfo di Guinea: calura implacabile alternata a scrosci diluviali. L’equipaggio si ammala in massa di scorbuto.

Poliziano e Botticelli: componimento di Orfeo, crepuscolo dell'Umanesimo (1494)

Dopo gli orrori della sifilide cantati dai versi latini di Poliziano ecco la prosa in volgare del Nostro, ancora più efficace nel descrivere la terribile piaga che avrebbe afflitto i marinai fino ai viaggi di Cook: “Cominciano in mala maniera a enfiare le gengive, e impedire a mangiare il biscotto… (Ad alcuni) si fanno tanto grosse che bisogna tagliarle col rasoio per poter serrare la bocca, la quale getta… un odore tanto cattivo… Con le gengive enfiano le ginocchia e tutte le gambe… (la qual cosa) dà tanto dolore che è grandissima pietà a vedere i poveri infermi”.

Già segnati dalla scarsissima igiene personale, gli europei fecero spesso la loro comparsa negli altri continenti come veri e propri mostri irsuti. Mostruosi, ma dotati di nuove formidabili - e micidiali - tecnologie: sintetizzando, Vele e cannoni, dal titolo del libro fondamentale del grande Carlo M. Cipolla. In primis gli archibugi, che dopo un iniziale sgomento avevano fatto gola a tutte civiltà, a partire dal Regno del Congo, di cui ho già scritto ne Il Regno del Congo, il primo vescovo dell’Africa nera (1518).

Il Regno del Congo, il primo vescovo dell'Africa nera (1518)

Viaggi caratterizzati da un’altissima mortalità che venivano portati a compimento solo da chi disponeva di una fibra eccezionale come il Nostro (“io sono stato bene sempre”), che approda comunque esausto sulla costa del Malabar dopo sette mesi: “Sette mesi in mare sempre sempre, e non diventare pesce eh?”. Si stabilisce prima a Cochin (l’odierna Kochi, nel Kerala) e, dal 1585, a Goa (colonia lusitana fino al 1961 quando, con l’“Operazione Vijay” fu riconquistata dalle forze armate indiane). Senza dimenticare i ricatti a cui venivano sottoposti marinai e soldati portoghesi dai loro superiori, la disperazione e l’altissima mortalità dei coloni lusitani (“la più perduta gente che vi sia”) e l’ossessione per la conversione forzata al cattolicesimo delle popolazioni locali che aveva privato Goa dei “migliori di loro” che “se ne sono andati a vivere in altre parti”. Per completare il panorama poco idilliaco delle colonie lusitane c’è da aggiungere che l’unione fra Spagna e Portogallo era andata a detrimento di quest’ultimo, che, già a causa della sua scarsa popolazione (poco più di un milione di abitanti), faticava non poco a controllare i territori conquistati e si sarebbe ritrovato impelagato nelle guerre di Filippo II contro l’Inghilterra e i rivoltosi dei Paesi Bassi con relativi costi, deficit e bancarotte della monarchia spagnola (in particolare quelle del 1596 e del 1607). Senza contare la ripresa economica di Venezia a partire dalla metà del Cinquecento e la conquista di Aden da parte turca del 1538, che avevano rotto il monopolio dell’importazione del pepe.


Passaggi in India

Commento musicale Marco da Gagliano, La Dafne (libretto di Ottavio Rinuccini), “Tra queste ombre segrete

Già a inizio 1586 il Sassetti scrive all’amico Alessandro Rinuccini (fratello del più noto librettista Ottavio) riguardo a nuovi problemi per il rinnovo del “contratto de’ pepi”, ricordando con nostalgia gli amici accademici, abbattendosi per aver trovato una copia del Cortegiano (!) - a Kochi o a Goa (non è chiaro) - abbandonata in un negozio di zolfanelli e sperando di “cercare di ritirarsi a morir a casa: di che io sono in ardentissimo desiderio… Vederemo se Iddio mi darà grazia di ricondurmi tra gli amici salvo”.

La grazia non verrà concessa e umanista e mercante non rivedranno più Firenze, gli amati “sporti di Santa Croce, che fanno quella bella vista quando e’ si giuoca al calcio e sono le finestre piene di belle donne”. E l’impresa commerciale - c’è da dirlo? - risulterà in buona parte fallimentare. Ma l’occhio fiorentino, calibrato da secoli di esperienze mercantili e umaniste, farà del Sassetti un osservatore acuto e appassionato. Le descrizioni sono di una precisione e di una freschezza ammirabili. Merito anche del volgare colloquiale con cui si rivolge ad amici, parenti, granduchi e cardinali, ben diverso da quello delle sue opere più paludate. Non immaginava che altri, che noi saremmo potuti entrare così a fondo nel suo quotidiano di fronte a “tanta diversità”.

Il dominio coloniale portoghese si trova in uno stato caotico e resiste solo grazie al caos politico dei reami dell’India meridionale - “I cammini per terra sono malsicuri… ogni 4 palme hanno un re” - seguito alla decadenza dell’impero di Vijayanagara dopo la battaglia di Talikota (1565) e pervaso da profonda inquietudine per l’espansione da nord dell’impero Moghul del grande Akbar. In questa condizione di continua instabilità Sassetti si divide tra riflessioni sulle diverse realtà che lo circondano e piccoli commerci con cui tirare avanti (si ritroverà addirittura a cercar di piazzare maglie di ferro per armature in pieno clima tropicale). Nelle parole dello scrittore c’è profonda ammirazione per il sanscrito, che studia sottolineandone per primo certe assonanze con le lingue europee (vero e proprio precursore della filologia indoeuropea), ma anche notevole disappunto, pur provenendo da una società fortemente classista, per l’implacabile suddivisione in caste: “Una stessa gente, in una medesima terra, sono tra loro differenti, in tanto che non si toccono gli uni con gli altri; e i più bassi… vadiano gridando per la via che sono quivi a fine che i più nobili… gli rispondono, pure gridando, che si discostino e escano del cammino a pena di ammazzarli”. Di fronte a questi orrori quotidiani la contraddizione del modus vivendi dei bramini, sacerdoti e pilastri di questo implacabile ordine sociale (e per questo paragonati alla “setta di Pittagora”), così bramati dai filosofi occidentali da Pirrone ai Neoplatonici, vecchio amore della Firenze del Quattrocento (vedi a questo proposito l’episodio dei miei Teatri di guerra dedicato a Plotino, Filosofia in guerra: Colpa e necessità ).

Filosofia in guerra: Colpa e necessità

“Hanno tanto in terrore la morte d’ogni più basso animale, che se alcuna volta nelle nostre case si abbattino che si ammazzino galline o capretti, o altre sorte di animali, li ricomperano a danari e dànno lor libertà… La causa del non mangiar carne, mi diceva un medico bramene, esser per non alterare con nutrimento tanto potente la specolazione, alla quale tutta quella casta è indiritta, principalmente dell’aver in orrore la morte d’ogni animale fino a delle serpi e delle tarantole, e il trapasso dell’animale di una spezie nell’altra”. Sassetti, nonostante platonismo e neoplatonismo, da fedele cattolico non è per nulla attratto dalla reincarnazione così come, da studioso di Aristotele, sente fortemente estranea una cultura dove “si hanno a imparare l’arti e le scienze per detti e per sentenze e non impararle per i suoi principii”.


Frutti del viaggio

Meglio quindi ripiegare sulla botanica, frutto dello studio delle memorabili opere di Pietro Andrea Mattioli. Dopotutto il granduca gli richiedeva di continuo sementi, in particolare di piante medicinali: “Ho per questo effetto comprato un orto in Goa, dove disegno di mettere fino a un centinaio di piante delle più nominate in queste parti, ché ve ne sono molte in predicamento di maravigliose”. Se l’erudito Discorso sopra il cinnamomo (ovvero la cannella) potete trovarlo in Wikisource (come anche le prime venti lettere su un totale di trentacinque), più dirette e brillanti sono altre descrizioni sparse nella corrispondenza. In particolare la Lettera VI, spedita proprio al granduca Francesco I: “L’ananas mi pare a me la più gustosa frutta che ci sia; è fatta da una pianta come il carciofo et egli non è dissimile, se non che tira più a fazione (forma) della pina (pigna): maturo, getta un odor suavissimo. Il sapore è di fragola e di popone e co ‘l vino acquista forza grande… Questa pianta è qui forestiera, venuta dal Verzino (Brasile), e, condottasi in Portogallo, non vi visse”. Piccolo inciso, la passione per l’ananas si diffuse in tutte le corti europee e la tentazione di coltivarlo nel nostro continente non si esaurì col XVI secolo: ancora nel 1675 Carlo II d’Inghilterra si faceva ritrarre mentre riceveva il primo ananas fatto arrivare a maturazione in serra dal giardiniere di fiducia John Rose (cognome perfetto).

Il quadro di Hendrick Danckerts
Vedi anche Aphra Behn, George Etherege e il Conte di Rochester: sipario aperto, sipario chiuso

Ma continuiamo con almeno altri due esempi di botanica “comparata” sempre dalla lettera del Nostro. È la volta di sua maestà il pepe: “È come la vitalba o come l’ellera (l’edera), sostenendosi sopra altra pianta, e come l’ellera fa barba per tutto il gambo; il frutto viene a grappoletti lunghi e ciascun grano ha il suo picciuolino assai lunghetto; la foglia è simile o non molto differente da quella della piantaggine”. Infine, la foglia di Betel usata come aromatizzante e blando narcotico in sinergia col seme di Areca Catechu (volgarmente chiamato “Noce di Betel”), ricco di tannini che favoriscono salivazione e digestione insieme ad effetti cardiotonici, azione vermifuga e astringente: “Il betle tanto nominato dà la foglia simile a quella del pepe (anche il Piper Betle è una Piperacea) in tanto che non la discernono l’una dall’altra alla vista. Tutta la gente di queste parti la mangiano ad ogni ora del giorno, rigrumando come le pecore e come i buoi continuamente. Il suo sapore è forte poco meno che il pepe e, come questo, ha un austero astringente che tiene la bocca asciutta e tignela di rosso come se si sputasse sangue. Pigliano costoro una foglia di quest’erba e ci impiastrano un poco di gesso spento che domandano cianamé e pigliano un pezzo di quel frutto che chiamano arecca e, fatto un gran boccone di tutto, se ‘l mettono in bocca e fanno tutto il giorno questo verso”.


Avventure geopolitiche

I sovrani Abbas I il Grande, persiano, e Lebna Denghèl, etiope, nei ritratti di due pittori italiani:
anonimo il primo, opera di Cristofano dell'Altissimo il secondo.

Eppure la costante attenzione a quanto lo circonda sembra non bastare più. I progetti per il viaggio di ritorno svaniscono uno dietro l’altro. Ormai è uno sradicato. Fra le righe spira un’aria di naufragio. Per questo è forte la sintonia con avventure e disavventure di altri viaggiatori che incontra, spediti come lui alla volta del quasi ignoto e, diversamente dal suo destino, latori di complesse missioni diplomatiche. Si tratta di personaggi che si rifanno in qualche modo a Firenze e, soprattutto, alla cerchia del cardinale Ferdinando de’ Medici, collaboratore di spicco della visione strategica di papa Gregorio XIII: prendere contatti con due imperi, quello cristiano di Etiopia e quello della dinastia safavide persiana, musulmana sciita, in funzione antiturca (il sultano degli Ottomani era capo supremo dell’Islam sunnita). Corollario prezioso di questa politica estera quella culturale, che prevedeva la ricerca di antichi manoscritti della Bibbia per la Typographia Medicea linguarum externarum del cardinale, diretta da un altro formidabile viaggiatore erudito come Giovanni Battista Raimondi, il cui fine, anche questo irrealizzato, era la pubblicazione di una Bibbia poliglotta nelle sei lingue principali del cristianesimo orientale: siriaco, armeno, copto, etiope liturgico, arabo e persiano.

I personaggi in questione sono altri due Giovanni Battisti, rispettivamente Britti e Vecchietti, entrambi nativi di Cosenza (ma il secondo di nobile famiglia di origine fiorentina) e, come il Sassetti, singolari figure di una tardo umanesimo sballottato da nuove correnti transoceaniche.

Il primo viene spedito per cercare un contatto diretto col negus di Etiopia, all’epoca Sarsa Denghel (ma ancora chiamato Prete Gianni in Europa come ai tempi di Marco Polo). Una vecchia tentazione, visto che ci avevano già provato i Bizantini all’epoca di Giustiniano spedendo Nonnoso nel Regno di Axum per chiedere un’alleanza antipersiana (vedi In Biblioteca con Fozio, in Etiopia con Nonnoso).

In Biblioteca con Fozio, in Etiopia con Nonnoso

La strada scelta dal Britti è tuttavia la peggiore: invece della circumnavigazione dell’Africa, il passaggio via terra fino a Bassora (un bel rischio per quella che in fondo era una spia) e poi dal Golfo Persico alla volta di Massaua, nell’odierna Eritrea. L’operazione non va in porto a causa di un attacco di pirati da cui il Britti e alcuni marinai si salvano a stento. Scrive il Sassetti: “Ferito in sei parti, rimasto come morto nella sentina del naviglio… andò a discrizion del vento e del mare cinque o sei giorni, vivendo a guisa di sorcio… Condusselo Nostro Signore ad un’isola di Arabi, detta Serri (l’odierna isola iraniana di Sirri), dove dal Seque (governatore) furono egli e i compagni ben visti e ricevuti, provveduti d’alcuni tappeti e altre cose necessarie per rivestirsi”. E il Nostro sottolinea questa generosità da parte di un infedele, che sosteneva di non poter “far morire coloro che Iddio voleva che mangiassero delle minestre”, rispetto all’atteggiamento micragnoso che Giovanni Battista avrebbe trovato presso i cattolicissimi portoghesi nella successiva tappa a Hormuz. L’isola di Hormuz (anch’essa oggi parte dell’Iran), chiave di volta per l’ingresso nel Golfo Persico, era infatti controllata dai portoghesi fin dal 1507, aveva resistito a un lungo assedio ottomano nel 1550 e sarebbe caduta in mano persiana (grazie all’aiuto inglese) solo nel 1662. Da qui approda a Goa nel 1585: “Venne qua d’Ormus Giovan Battista Britti… miracolosamente”. In modo meno miracoloso è costretto a restare bloccato un anno a causa dell’ostilità dei Gesuiti, che non avevano gradito di essere stati estromessi dalla missione in Etiopia. I suoi progetti sembra fossero di ripartire alla volta della colonia portoghese di Diu, nell’India occidentale, e da lì verso il Mar Rosso o il porto di Malindi (Kenya). Ma di questo nuovo azzardo, come della sua vita, a questo punto si perde ogni traccia.


Il secondo è anche lui un personaggio da film (e il cinema italiano purtroppo è sempre restio a cercarsi eroi poco noti in casa). Del Vecchietti figura inoltre, unico caso, un’intera lettera (la trentesima) nell’epistolario di Filippo, inserita fin dalla prima edizione Le Monnier del 1855. Un altro finito in condizioni precarie a Hormuz, “lasciata la Persia tra disagi, pericoli e spese”. La sua missione nell’impero safavide, dopo il passaggio in Egitto per stringere relazioni col patriarca copto di Alessandria, era capitata nel caotico momento di passaggio fra il regno di Mohammad Khodabanda e quello di suo figlio Abbas il Grande. Dal primo, quasi cieco e più raffinato poeta che politico, era riuscito a ottenere una lettera per il nuovo papa Sisto V. Un successo pagato a caro prezzo: “Ammalato… senza un soldo… ringrazio però Dio che mi trovo in un paese di Cristiani; e se bene non ci conosco persona alcuna, ho pur trovato un mercante amico del signor Filippo Sassetti, il quale mi si è offerto. Non so però quanto questa proferta si estenda ancora: pure credo non mi lascerà mancare comodità fino in Goa, dov’è detto Sassetti”. Era comunque riuscito a salvare “una ragionevole quantità di libri”, antichi codici nelle varie lingue mediorientali per la biblioteca del cardinale. Una vera delizia, anche più dei frutti esotici, per il Nostro, che ancora nel gennaio del 1588 parla del suo compagno di accademie sul punto di ripartire dall’India: “Il signor Giambattista Vecchietti, che qua si ritrova… passò d’Egitto in Soria (Siria), e per l’Armenia n’andò in Persia, con più felice successo di quell’altro gentiluomo (il Britti) che il signor Cardinale de’ Medici mandava in Etiopia… e viensene adesso, e, conducendolo Nostro Signore a salvamento, darà nuovi particolari di quelle terre e costumi di quelle genti, ché, per essersi fatto padrone di quella lingua, lo potrà fare molto più a pieno di me”.

Non sarà certo l’ultima missione del Vecchietti, che continuerà a fare la spola fra Occidente e Oriente e a creare in Roma un circolo intellettuale in cui incontrerà, nel segno del neoplatonismo del conterraneo Bernardino Telesio, personaggi del calibro del Tasso, di Gabriello Chiabrera e, di sfuggita, il giovane Tommaso Campanella. In compagnia del fratello Girolamo, altro infaticabile viaggiatore (era stato lui a recuperare il più antico manoscritto del Libro dei re di Firdusi, oggi alla Biblioteca Nazionale di Firenze), nel 1600 raggiungerà quasi cinquantenne ancora una volta la corte di Abbas il Grande, spingendosi poi nel 1603 fino ad Agra, capitale imperatore moghul Akbar, che, nel segno ecumenico della ricerca di una sua personale religione per unire tutte le fedi dell’India, anche se sempre di matrice fondante islamica, richiederà copie del Pentateuco, dei Vangeli e dei Salmi. Il Vecchietti sopravviverà inoltre ai pirati barbareschi che, quasi alla fine del viaggio di ritorno e per ben due volte, lo faranno per prigioniero e schiavo. Riscattato, morirà nel suo letto a Napoli alla fine del 1619.

Vent’anni prima, giunta a Firenze la notizia della morte del Sassetti, era stato proprio lui, l’8 febbraio 1590, a tenerne l’elogio funebre all’Accademia Fiorentina.

Sic transit. Un transire che non era approdato nemmeno ai cinquant’anni.


Prosa a poesia

Commento musicale Filipe de Magalhães, Commissa mea pavesco

Columbano Bordalo PinheiroCamões e le Ninfe del Tago (1894)

Le peripezie commerciali del nostro prosatore ricordano le traversie militari di un poeta come Luís de Camões, il Virgilio portoghese delle Lusiadi. E li accomuna la cattiva sorte:

“Nel mar tanto tormento e tanto danno

e la morte vicina ad ogni passo:

in terra tanta ostilità ed inganno,

tante contrarietà, tanto sconquasso!” (Lusiadi I, 106, trad. Riccardo Averini, Mursia).

Come scrive alla sorella, Sassetti è diventato “uomo fantastico e di poca conversazione”. Meglio allora fantasticare, far sognare, piuttosto che il mercante fallito, l’umanista assetato di sempre nuovi orizzonti.

Ancora Camões:

“Vedi su vaste zone i differenti

Nomi di mille genti sconosciute.” (Lusiadi  X, 126)

Ancora il cardinale Ferdinando de’ Medici, destinatario della lettera XXVII, 10 febbraio 1586: “Se Iddio mi darà vita, partirmi di qua dentro di due anni e mezzo per ritornarmene a casa. Ma nel ritorno vorrei concedere al senso la sperienza di quello che ci è di rimanente;” - è Ulisse, l’Ulisse dell’amato Dante che parla in lui: “d’i nostri sensi ch’è del rimanente/ non vogliate negar l'esperïenza” - “però che partirsi di qui senza vedere Malacca, Molucche e la Cina mi parrebbe che fusse d’una cena molto splendida non gustarne se non el pane che si mangia comunemente ogni giorno. El desiderio mio, pertanto, sarebbe… d’intendere… qualche cosa con più fondamento di quello che io veggo non sapersene per le relazioni che hanno datone altri… Dalla Cina vorrei passare a Manila… e perché di detto luogo va ciascuno anno una nave per Nuova Spagna (America), vorrei là passare a vedere quell’altre Indie, e fatta quivi stanza di due anni, tornarmene alle nostre parti: corso di tempo tutto di 7 o 8 anni… se Nostro Signore Iddio non disporrà altra cosa, ancora io sia già di 46 anni e di statura di corpo che amerebbe meglio el riposo che pensieri di nuovi travagli. Ma considerando quanto diletto mi abbia recato el vedere questa parte, mi determino di antiporre questo gusto ad ogni maggior quiete”.

Speranze, illusioni, ma sempre in grande stile, lucide, a occhi bene aperti: “Da Malacca per il Levante (i portoghesi) abitano  un’isola che è nella foce del rio della Cina, che si chiama Macao, e vi sta un vescovo, ma non vi è altra fortezza: ché il re della Cina non è un coglione, e due o tre volte ha minacciato di cacciarnegli… Nel Giapan non hanno niente se non amistà: là comandano i padri Gesuiti, fanno le guerre, e pongono i re in istato, e altre cose. La fede di quell’isola è di Gentili (pagani), tutta bestialità. La gente è acutissima, bene inclinata, con molto onore, e, come dicono i Portoghesi, tratao verdade”.

Macao non tornerà cinese che nel 1999 e i giapponesi, forse perché “acutissimi” - ma solo più di cinquant’anni dopo (grazie a discordie fra i vari ordini religiosi cattolici e al fondamentale aiuto militare dei protestanti olandesi) - eviteranno lo stesso destino delle Filippine.

Paure o chimere che fossero, questi erano i dati di fatto della geopolitica cattolica della fine del XVI secolo.

Altro dato concreto: l’uomo muore. Una banale malattia, una delle tante, compagne di viaggio di colonizzatori e colonizzati, chiude a quegli occhi ogni nuova prospettiva oceanica il 3 settembre 1588. Da soli quattro mesi era padre di un figlio avuto da una schiava dal nome soave, Grazia Bengala. E dopo Assetato e Grazia ancora un nome inappagato, per il figlio: Ventura. Morirà a soli due anni e anche della madre schiava rimasta schiava si perderà ogni traccia.

“Gli anni stan declinando: la stagione

che mi sovrasta è già l’autunno triste:

mi raffredda del Fato l’avversione;

l’ingegno non si esalta e non persiste,

e per di più m’avvia la delusione

verso l’oblio di ciò che al mondo esiste” (Lusiadi, X, 9).


Approdi contemporanei

Nehru libera una colomba a metà anni '50, Indira Gandhi nel 1967 e il primo satellite indiano (Aryabhatalanciato nel 1975

Ho ripreso in mano la mia vecchia cara edizione Universale Einaudi DOC 1961 dopo la rilettura di Una civiltà ferita: l’India di Naipaul. Come lui sono stato sempre attratto più dalla storia che dalla spiritualità o, peggio, dall’esotismo dell’India. È in un simile contesto che, usando le parole di Sassetti, “mi maraviglio della maraviglia” di realtà fisica e politica del subcontinente asiatico. È in questa prospettiva che apprezzo personaggi come il Mahatma Gandhi, Jawaharlal Nehru o sua figlia Indira Gandhi - formidabile protagonista del libro di Naipul durante il discutibile ma certamente coraggioso Stato di Emergenza del 1975: ne riparleremo - piuttosto che certe passioni per la religione induista decontestualizzata o, peggio, per il suo surrogato oggi al potere.

“Il dharma è creativo o paralizzante a seconda del tipo di civiltà, a seconda di quel che ci si aspetta dagli uomini. Non può essere altrimenti. La qualità di una fede non è una costante, dipende dalla qualità degli uomini che la professano.” (V. S. Naipaul, Una civiltà ferita: l’India, trad. Marcella Dellatorre, Adelphi, 1997).

È stato certamente creativo per l’attuale primo ministro del Portogallo, il socialista António Costa, premier dal 2015, originario proprio di Goa (una bella rivincita per l’ex colonia). Il padre infatti, lo scrittore portoghese-mozambicano Orlando da Costa, era di padre indiano e madre francese (oltre che cugino del poeta rivoluzionario ed ex governatore della Banca del Mozambico Sérgio Vieira). Con la moglie Maria Antónia Palla, tuttora vivente e infaticabile attivista per i diritti delle donne, un ottimo esempio di coppia combattente contro il regime salazarista e ogni sorta di razzismo, passato e presente.

Simbiosi e sintesi che faccio mie anche se avrebbe fatto rizzare qualche capello al Sassetti. Ma io scrivo oggi e ammiro la sua esperienza proprio perché la inserisco in un contesto storico preciso, alieno come sono da ogni nostalgia passatista. Perciò consiglio in aggiunta di fare bene attenzione a non reppresentarselo come nell’immagine della pur buona pagina di Wikipedia (anche se consiglio quella della Treccani). L’uomo che vedete nel quadro di un bravo pittore polacco attivo in Olanda come Krzysztof Lubieniecki, nonostante il suo abituale e pregevole realismo, è tutto di fantasia. Dal parruccone in giù veste una moda posteriore di un secolo alla sua morte, quando lo stesso Granducato si avviava a una mesta decadenza.

Di Filippo Sassetti non resta alcun ritratto contemporaneo. Eppure l’uomo è lì, sempre inquieto fra righe d’inchiostro e poi caratteri a stampa. Il mercante nato morto per la sua epoca, l’umanista ancora vivo per noi.

Luca Traini