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mercoledì 31 marzo 2021

L’ANTRO DELLE NINFE

 Vie di fuga (con e senza ritorno) nella filosofia, nella politica e nell’arte

Leggo e rileggo il libro di Porfirio (III sec.), ogni volta tormentandolo di note (una specie di esorcismo), perché il suo pensiero neoplatonico è tanto affascinante quanto riprovevole, con quella fuga disperata dal mondo materiale. Perché testimonia al livello più alto la crisi devastante di un mondo e di un modo di pensare che non ho proprio nessuna voglia si ripeta oggi. Noi contemporanei abbiamo e dobbiamo avere la forza di comprendere e assorbire nei valori migliori di sempre, quelli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948 e successivi aggiornamenti), qualsiasi cambiamento. Quando affronto queste pagine mi ronza sempre nelle orecchie quel passaggio sublime nella forma e ripugnante nel contenuto del suo maestro Plotino: “Come sulle scene del teatro, così dobbiamo contemplare anche [nella vita] le stragi, le morti, la conquista e il saccheggio delle città come fossero tutti cambiamenti di scena e di costume, lamenti e gemiti teatrali.” (Enneadi III 2,15, trad. G. Faggin, Rusconi). Gli orrori dell’anarchia militare di Roma nel III secolo ridotti a un gioco di ombre stile grotta di Platone. Come non fosse già terribile la vita in tempo di pace per la stragrande maggioranza della popolazione, schiavi in primis. E io mi immagino tra questi, non un senatore (i miei amati musei di arte antica dovrebbero esplicitarlo che noi moderni facciamo la nostra visita di rovine da privilegiati). Nella diffusa idealizzazione di tutto ciò che è antico, tesa a presentarne solo gli aspetti positivi, specie nei social, spesso in funzione critica di elementi e situazioni del presente (vedere soprattutto il negativo della contemporaneità è una vecchia, peggio, ancestrale abitudine dura a morire), è bene che si facciano vivi esperti del settore in grado di contestualizzare queste importanti eredità culturali in tutte le loro sfumature senza pregiudizi rispetto al loro valore storico, ma soprattutto senza predisposizioni acritiche riguardo a tutta la complessità, nel serio e documentato dosaggio di giudizi positivi e negativi, dei tempi che stiamo attraversando. Quindi, quando si fa l’ingresso nell’antro delle ninfe, cantato da Omero, reinterpretato da un filosofo di mille anni dopo - e anche preda di esaurimenti nervosi e manie suicide in cui Leopardi volle travasare in modo perfetto la sua infelicità - bisogna fare attenzione.

"L'antro di Itaca descritto in questi versi da Omero è un enigma:
In capo al porto vi è un olivo dalle ampie foglie:
Vicino è un antro amabile, oscuro,
Sacro alle Ninfe chiamate Naiadi;
In esso sono crateri e anfore
Di pietra; lì le api ripongono il miele.
E vi sono alti telai di pietra, dove le Ninfe
Tessono manti purpurei, meraviglia a vedersi;
Qui scorrono acque perenni; due porte vi sono:
Una, volta a Borea, è la discesa per gli uomini,
L'altra, invece, che si volge a Noto, è per gli dei
E non la varcano gli uomini, ma è il cammino degli immortali".
(Porfirio, L'antro delle ninfe, 1,1-15, a cura di Laura Simonini, Adelphi, 1986)

Infatti non si tratta solo di una lettura esegetica assolutamente decontestualizzata, ma anche - questa è la mia convinzione – di un messaggio politico neppure troppo velato. Nel canto dell’Odissea in questione, il XIII, Ulisse viene riportato a Itaca dai Feaci e lasciato sulla spiaggia di Phorkys mentre dorme un sonno profondo. Sulla cima del dirupo che contorna il porto si trova il nostro antro con accanto un ulivo che domina il paesaggio: ai suoi piedi i marinari di Alcinoo sistemano le ricchezze dell’eroe greco (“bronzo, oro e molte vesti”). Questi, al risveglio, non riconosce subito la sua isola e solo grazie all’ennesimo travestimento di Atena comprenderà con gioia di essere tornato in patria, di aver conosciuto la verità della sua situazione e di essere tornato a quello che era l’obiettivo principale, il fondamento della sua attività di uomo che ha conquistato quanto necessario per tornare alle radici della sua esistenza arricchito. Naturalmente non solo da un punto di vista materiale per Porfirio. Il suo Odisseo nasconde le sue ricchezze nell’antro sacro e si prepara, sotto le mentite spoglie di un mendicante, a ristabilire il suo potere a corte contro gli usurpatori, i Proci. Come non leggere nella riscossa di questo falso figlio di Penìa (la dea della povertà madre di Eros nel Simposio platonico) quella del mondo pagano caro al filosofo contro gli “intrusi” cristiani? Se la datazione de L’antro delle ninfe, operazione tutt’altro che facile, si può far risalire ai primi tempi della frequentazione di Plotino da parte di Porfirio, ecco che allora troviamo un giovane discepolo che non ha ancora assorbito la fondamentale rinuncia alla vita politica del maestro, ma cerca di rispondere ai drammi dell’anarchia militare senza accettarli come fantasmi  e proponendo una via per una possibile restaurazione ideologica dell’ordine sulla base di una nuova lettura della tradizione. Non è un’interpretazione campata per aria, lo dimostra il carattere sanguigno dell’autore che, una volta scomparso Plotino, riaccenderà la lotta contro il cristianesimo - probabilmente durante l’impero di Aureliano, il costruttore delle mura di Roma (della Penelope ideale assediata) - scrivendo un violentissimo Contro i cristianiCi torneremo.

"Né gli antichi costruivano templi senza simboli mistici, né Omero espose a caso il suo racconto su questo soggetto.
Più si potrà mostrare che quanto riguarda l'antro non è finzione di Omero, ma era stato consacrato prima di lui, più questo luogo sacro si rivelerà un tesoro di antica saggezza: per questo merita un'attenta ricerca ed esige che sia rivelato il carattere simbolico della sua consacrazione."
(L'antro delle Ninfe 4, 9-17).

Ora analizziamo la grande parafrasi del filosofo in dettaglio. Perché quanto alluso dal mito cantato dall’autore o dagli autori dell’Odissea viene soavemente - e disperatamente – ricomposto come un cadavere a cui ridare vita contro il Lazzaro – altro mito, ma vincente – dei cristiani. C’è all’inizio tutta una concretezza ingannevole nel definire questo antro come un assurdo geografico (testimone il filosofo pitagorico Cronio, di cui non ci è rimasto nulla) e una stranezza materiale - come potrebbero tessere le ninfe Naiadi un telaio di pietra? – che altro non è che una tela di ragno dove restare prigionieri di un mondo altro di formidabili simbologie. La corsa verso l’astrazione è un formidabile crescendo che trae spunto dalla presenza nella grotta di api e miele. Quelle api simbolo di purezza che si credeva nascessero per generazione spontanea dal cadavere di un bue (ma anche da un leone, come nel caso biblico che ho già affrontato in La leggenda diAlessandro Magno in Valle d’Aosta): la “bugonia” cantata da Virgilio nelle Georgiche e da Ovidio nei Fasti. Al bue viene poi connesso il toro rappresentato in altri antri, quelli mitraici (così cari all’élite militare), immagine dell’uccisione del toro primordiale, fecondatore di vita, da parte del dio Mitra (“tauroctonia”, per sottrarlo allo spirito del male Arimanios). Api e bovini simboli di rinascita oltre la morte materiale. Ma l’analisi di Porfirio, la cui filosofia al contrario di quella di Plotino è impregnata  di viva partecipazione ai culti misterici, non si contenta di questa affermazione di fondo. Deve ancora fornire un’interpretazione di quella che per lui è la giusta condotta dell’uomo che sa e giustificarla alla luce dell’ordine immateriale che regola il cosmo, l’universo retto da un ordine.

"Consideravano l'antro simbolo non solo, come si è detto, del cosmo, cioè del generato e del sensibile, ma l'oscurità degli antri li indusse  a vedervi il simbolo anche di tutte le potenze invisibili, la cui essenza appunto non è percepibile allo sguardo."
(L'antro delle ninfe, 7, 10-14).

Rielaborando la descrizione delle due porte, quella in discesa per gli uomini e l’altra per l’ascesi degli dei (di cui molto probabilmente sono reminiscenza le quattro aperture del Mito di Er nel X libro della Repubblica di Platone), il filosofo neoplatonico passa oltre l’esposizione del dato di fatto della poesia omerica, trasfigurando le due aperture come emblema della natura e sbocchi di due opposte condotte di vita: “Dato quindi che ovunque le due porte sono simbolo della natura, anche l’antro di Omero non ha un solo ingresso, ma due porte, diverse l’una dall’altra a somiglianza della realtà, e una si addice agli dei e ai buoni, l’altra ai mortali e ai più ignobili” (L’Antro delle ninfe 31, 1-6).

Nascita di Atena, tripode attico a figure nere del VI sec. a.C.

Concludendo con l’analisi dell’immagine iniziale dell’olivo, con un uso sapiente dell’artificio retorico dell’“hysteron proteron” nell’ambito della gerarchia dei contenuti, l’esegesi porta a compimento trionfalmente il suo “metodo” ( il suo "cammino di ricerca”): "Non si tratta, come si potrebbe pensare, di una pianta germogliata lì per caso: essa abbraccia e dà unità all'intero enigma dell'antro. [...] È simbolo della saggezza di dio. L'olivo, infatti, è pianta di Atena e Atena è la saggezza. Poiché la dea è nata dalla testa del padre (Zeus), il teologo pensò che il luogo adatto per l'olivo fosse consacrarlo in capo al porto; con ciò volle significare che l'universo non è formazione spontanea o frutto di un caso irrazionale, ma è realizzazione perfetta di natura intelligente e di sapienza, dalla quale è separato come lo è l'olivo, che si erge staccato ma vicino all'antro e in capo a tutto il porto. [...] Giunti a questo antro, dice Omero, bisogna deporre ogni possesso esterno, denudarsi e assumere l'aspetto di un mendico dal corpo avvizzito, gettare ogni cosa superflua, staccarsi dalle sensazioni e allora deliberare con Atena, seduto con lei ai piedi dell'olivo, su come eliminare tutte le passioni che traviano la propria anima. [...] Non bisogna pensare che tali interpretazioni siano forzose [...] ma pensando quanto grandi furono la sapienza degli antichi e l'intelligenza di Omero e la sua perfezione in ogni virtù, non si disconosca che egli ha nascosto l'immagine di realtà più divine sotto la finzione di una favola." (L'antro delle ninfe, 32-36).

Mosaico Socrate e i Sette Saggi, Baalbek, Libano (III sec. d.C.)

Bisogna ammetterlo: la bellezza della prosa di Porfirio e dei versi di Omero sono una rapsodia perfetta in cui restare intrappolati per essere poi assorbiti dalla lettura allegorica del testo poetico. Volutamente, perché i poemi omerici non erano solo questo: erano lo specchio in cui amava riflettersi la cultura greco-romana e brama anche la nostra, se ci facciamo prendere dai sensi e non usiamo la ragione (e qui sono io a usare gli strumenti del filosofo come lui gli esametri del poeta). Quando il neoplatonico “pagano” del III secolo intraprende una lettura allegorica di quella che è la sua tradizione culturale per eccellenza lo fa sullo stile e in sfida con quanto due secoli prima Filone di Alessandria aveva approcciato l’Antico Testamento della Bibbia (primo di una lunghissima serie). E Porfirio, che era fenicio di Tiro, nell'odierno Libano (il nome originario era Malco, “re”, e quindi la porpora del nome ellenizzato gli era congeniale), conosceva l’ebraico e la traduzione in greco di Antico e Nuovo Testamento (lo testimoniano bene i frammenti rimasti del suo Contro i cristiani). Nulla era a caso, come tipico della letteratura antica. L’antro delle Ninfe Naiadi, quelle delle sorgenti da cui tutto ha origine, diventano per così dire Oceanine, perché la loro grotta diventa simbolo del cosmo, dell’universo ben ordinato tanto caro al pensiero ellenico. Desiderio di ordine tanto più sentito in un’epoca di continui e profondi rivolgimenti. Se L’antro era stata una proposta costruttiva, il testo contro la nuova religione orientale è ormai “destruens”, combatte una guerra che sembra – ed è – già persa.

Per la difficoltà di essere filosofi nella vita di tutti i giorni, dura realtà concreta che Porfirio sperimentò sulla propria pelle, rimando alle pagine magistrali di Peter Brown: "Un filosofo non era solo un uomo che conosceva la filosofia. Era chiamato a 'essere' un filosofo. Ed era un filosofo perché era divenuto padrone delle proprie passioni: poteva parlare con autorevolezza a coloro che non lo erano, come una guida spirituale e, se necessario, come un censore.[...] Il mondo del potere era contrassegnato da un'agghiacciante assenza di freni legali alla prassi amministrativa. Il sistema giudiziario era andato facendosi sempre più brutale. [...] La schiavitù rimaneva una scuola domestica di crudeltà. I logoi erano la sola garanzia di salvezza che le classi colte sentivano di far propria. 'Con parole misurate - scriveva Gregorio di Nazianzo - tengo a freno la mia rabbia'. Le parole erano una riserva d'ordine in un mondo violento. [...] Era un mondo in cui ci si attendeva che ciascuno apparisse equilibrato quanto le proprie frasi. [...] Era solo in questi termini che la cruda realtà del potere poteva venire articolata e assorbita. Il controllo del potere era reso intellegibile nei termini di un sistema culturale su cui le élites greche avevano prodigato, fino al 400 d.C., un'ingente fatica simbolica".
(Il filosofo e il monaco, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. XIX).

Che sia stato scritto sotto Aureliano o abbia gettato benzina sul fuoco delle persecuzioni di Diocleziano il risultato è lo stesso. Il fallimento del tentativo di fermare il tempo storico all’ombra della metafisica tradizionale, nell’estremo connubio di Platone e Aristotele con vecchi e nuovi culti misterici, insomma tutto questo calderone fondamentalmente riservato a un’élite di iniziati, è equivalente alla scarsa fortuna in campo economico del ben più strutturato calmiere dei prezzi del 301 d.C.. La diffusione e, soprattutto, l’organizzazione del cristianesimo a livello di massa, di cui abbiamo già scritto in Palladio, “La storia lausiaca”, era ormai tale da riuscire a resistere alle stragi dei tetrarchi. Soltanto Giuliano, ancora più in ritardo e con pochissimo tempo a disposizione (361-363 d.C.), tenterà di riprodurre qualcosa di simile cercando di pianificare a livello istituzionale una specie di credo pagano unificato. Vanamente, anche perché si trattava di un Olimpo troppo affollato e differenziato.

Di iniziatico e neoplatonico resterà la nuova immagine dell’imperatore, ormai sacralizzato non più solo nelle province e celato, insieme alla sua corte, agli occhi dei comuni mortali, che emana i suoi editti da una realtà superiore a quella terrena come una specie di Uno plotiniano. 

I cristiani risolveranno questo problema dichiarando Costantino “uguale agli apostoli” e le nuove basiliche dei loro vescovi raccoglieranno migliaia di discepoli (numeri che gli antichi filosofi non si erano mai sognati).

Di ninfe restò solo santa Ninfa, compatrona di Palermo, dalla storia assai confusa ambientata nell’epoca di Costantino, probabile invenzione del XII secolo e comunque surclassata dal successivo culto di santa Rosalia.

Ecco il nostro filosofo immaginato a colloquio con Averroè in una miniatura del XIV sec.

Poi, come capita nella storia - quella concreta, umana - dal pensiero di Porfirio e di Plotino prendono a piene mani proprio quei rivali cristiani per potenziare, in modo implicito, la loro egemonia sul mondo (come detto, avevano strutturato i mezzi materiali per farlo). E in modo esplicito per il medioevo occidentale resta solo la radiografia di Porfirio, la logica tradotta da Boezio, la parte utile, stile quanto capiterà per la dialettica hegeliana col pensiero marxiano e marxista (diverso il caso in Oriente con il mio caro Michele Psello che, in pieno XI secolo, elabora un compendio de L’Antro nella cosiddetta “Università di Costantinopoli”).

Fino a quando il neoplatonismo antico non viene rispolverato per quello nuovo di Marsilio Ficino a conclusione dell’Umanesimo di Firenze. Ed è proprio durante la crisi di quest’ultimo, con un Savonarola di cui Lorenzo, per quanto Magnifico, non riesce più a liberarsi, che un pittore dalla sensibilità raffinata quanto vulnerabile come Botticelli cercherà un’estrema sintesi alla pari fra eredità pagana e cristiana inserendo la Natività proprio nell’antro di Porfirio, in un’Adorazione dei magi (1490-1500) dalla composizione tormentata (vedi la bellissima analisi di Giacomo Montanari). Tentativo non riuscito (anche questo). Quadro mai portato a termine.

Sarebbe arrivato il fatidico 1492 con la morte di Lorenzo de’ Medici e l’America di Colombo (all’inizio scambiata per il Paradiso Terrestre). Sarebbero giunti il Rinascimento del ‘500 e poi la Controriforma, con l’eredità “pagana” confinata dietro le quinte. E poi la filologia tedesca dell’Ottocento dove gli studiosi avrebbero viaggiato in treno, come gli eserciti. Fino al testo tradotto in italiano per Adelphi che oggi ho in mano e che richiudo nella speranza, che sarà anche cristiana ma per me è soprattutto quella di Ernst  Bloch, di non ritrovarci ad avere a che fare con nostalgici, predicatori fanatici e rispettivi eserciti. Con l'ennesima crisi materiale e di pensiero e una fuga, meravigliosa ma inutile, impossibile in un nuovo “antro delle ninfe”.

Luca Traini

venerdì 19 marzo 2021

AMORE E PROSPEZIONI GEOFISICHE

 La ragazza, l’ingegnere, l’entroterra marchigiano

Marzo 1973: quei giganti serbatoi di stoccaggio all’inizio della strada che dal Lido portava a Fermo città, la Centrale olio/gas di Maria a Mare accanto al futuro della nuova autostrada e poco prima del Romanico di San Marco delle Paludi. Ho compiuto sette anni e vado a prendere lezioni di violino al liceo musicale di Fermo per fare un piacere a mia madre (ho solo lei) ma, educato a guardare al futuro da una famiglia povera che aveva poco e ancora meno per rimpiangere il passato, non vedo l’ora di tornare nella mia Porto Sant’Elpidio a contemplare i viadotti della A 14, che sarebbe stata aperta finalmente il mese dopo (avrei perso però tutti quei coloratissimi TIR che passavano sotto casa, sulla via principale del paese). La musica per me era la danza di quella fiamma che ardeva accanto a quegli enormi cilindri d’acciaio. Gas o petrolio che fosse, a me bambino sembrava inestinguibile, come il fuoco della creazione di cui parlava la nonna, in simbiosi con le due piattaforme petrolifere al largo della piatta distesa dell’Adriatico, dove credevo di scorgere un altro fuoco che faceva a gara col sole in un giorno di pace, assoluta. E quante volte sperai di intravedere anche la Jugoslavia, dove i vicini di casa mi dicevano che tanti popoli diversi vivevano in armonia grazie al maresciallo Tito...

Illusioni, come quelle del poeta che era vissuto nella provincia accanto alla mia, Macerata, a Recanati. Illusioni. Lo diceva anche mia madre, che faceva la maestra e avrebbe voluto fare solo la pittrice.

E proprio in una visita a casa sua qualche anno fa - le pareti piene dei suoi splendidi quadri di sole donne, comprensibile horror vacui e di uomini - in una pausa da spatola e collage le ricordai anche quegli altri fuochi, l’epoca in cui quasi tutti ci illudevamo che gli idrocarburi avrebbero risolto ogni problema. La Crisi Energetica dell’autunno del 1973 per noi bambini aveva avuto solo il risultato, la conquista di poter giocare a calcio in mezzo alla strada. Oggi, concordiamo, bisogna puntare tutto sulle rinnovabili.

Ma è uno di quei primi pomeriggi dalla luce strana - c’entra probabilmente il cambiamento climatico - quando un lontano ricordo inizia a  brillare nei suoi occhi. Un ricordo personale, privato - cosa stranissima - di quelli che non le chiedo mai, perché sono fatti suoi e io detesto impicciarmi dei fatti altrui, anche quando si tratta della mia famiglia. Però, se vuole proprio condividerlo, non posso tirarmi indietro.

Primi anni Cinquanta, procedendo a ritroso sulla stessa strada, oltre Fermo, fino a Monte Giberto. La casa colonica dove abitava coi nonni mezzadri, quella che ho fatto in tempo a vivere nella mia prima infanzia, ha una visita inattesa. Un uomo giovane, alto, biondo, occhi azzurri, bel portamento e un nome esotico - Jim - forse inglese come quei tre che avevano nascosto in soffitta durante la guerra. Non è il principe azzurro, ma poco ci manca: è ingegnere dell’AGIP. Un tecnico che non riesce a restar freddo più di tanto incontrando quella giovane ragazza già ribelle e cosciente della propria bellezza. È la prima volta che me lo confida, a ottant’anni e passa, ancora con quel sorriso bello da piccola teppista. Dev’essere durato poco ma per sempre quell’incontro di sguardi.

E poi c’è la realtà: “C’è tuo padre?”. È fortunato - lo è davvero? - è appena tornato dal suo giro per i paesi intorno come trebbiatore. Adesso sì che mi ricordo il nonno quando parlava di Mattei, del ragioniere ingegnere honoris causa Mattei, e si toccava la punta del berretto: “A d’era unu de nujatri”, “Era uno di noi”, un marchigiano, e uno dava lavoro. Ho conosciuto così il fondatore dell’ENI, molto prima di studiarlo all’università, confondendolo all’inizio col fondatore della Mattel e un altro eroe, Big Jim.

Si chiamava davvero Jim anche quell’altro ingegnere, quello che venne ad avvisare il nonno che avrebbero fatto delle indagini anche in quella zona per cercare il metano? Mia madre, che per principio rifiuta ogni forma di romanticismo, non risponde. Si accende una sigaretta, la solita Futura. Tempo di parlare di altre cose: prossime visite mediche, nuovi quadri con le Donne che hanno fatto la Storia… Ma il linguaggio non verbale continua a rivelare un’altra storia.

Parto quindi per conto mio a navigare su internet cercando tracce di quella prospezione, di quello scavare a fondo nelle ere geologiche della terra per dare energia al presente, per fare luce sul passato.

Nel sito pionierieni.it scovo un dattiloscritto della direzione mineraria AGIP sulle attività del 1950. Anno Santo, ma di giubilo anche per l’Azienda Generale Italiana Petroli, che operava a tutto campo fra Pianura Padana e Marche con un esercito di tredici squadre di prospezione per un totale di circa 2000 lavoratori (un decimo dei quali tecnici diplomati e laureati). Data la mole e l’urgenza di questa specie di campagna di conquista, ci si era rivolti anche a compagnie straniere (gli anni dello scontro frontale ENI e “Sette Sorelle” erano ancora lontani): l’americana Western Geophysical Company, l’inglese Seismograph Service Limited e la francese Compagnie Gènèrale de Geophysique  Nella terra di mia madre erano stati spediti proprio questi ultimi. Quindi che ci faceva un inglese tra i francesi? A distanza di più di settant’anni dalla liberazione del suo paese dai nazisti da parte dei polacchi del generale Anders, che dipendevano dall’Ottava Armata britannica, anglosassone come i tre ospitati e salvati in casa sua, avrà confuso la nazionalità di chi si era invaghito di lei, subito ricambiato? Sapendo com’è fatta - e quanto le costi ancora, lei così riservata, rivelare a ottantaquattro anni l’ennesimo amore sfortunato, il primo desiderio di fuga senza seguito - ho qualche dubbio. Ma anche questa volta non chiedo più nulla e si parla di altro. Sempre di storia, di Storia, ma più antica. Meglio. Meglio pensare che “Jim” fosse in visita di piacere ai colleghi francesi. Poi, un piccolo aiuto con questi testoni di italiani che - al contrario di me (facile dirlo oggi) – per tutta una serie di motivi amavano poco la Francia. Teste cresciute con quel sole, quegli occhi abbacinati dallo splendore dei campi di grano sulle colline, dai giochi di luce sulla piatta ma incerta pianura di acque dell’Adriatico.

Come me, che non trovo risposte certe. Neppure quando mi tornano in mente certe parole della nonna, che amava tanto raccontare quanto suo marito tacere: “Avesse stroato lo gasse do’ se statìa nujatri, quanto sarrìa stato mejo: atro che zappa’!”, “Avessero trovato il gas dove stavamo, quanto sarebbe stato meglio: altro che zappare!”. Per comprendere - e rivivere – le grandi attese, le concrete speranze di quegli anni consiglio la visione del documentario commissionato da Mattei in persona a Joris Ivens L’Italia non è un Paese povero (1960).

Ma in quelle terre che stanno tra i fiumi Ete Vivo ed Ete Morto la fortuna toccò a un altro comune, Rapagnano.

E Jim, o un  altro nome per quel principe ingegnere, sarà dovuto certamente andare lì. E forse avrà dimenticato quella ragazza di mia madre. Lei ricorda che passò ancora una volta prima di scomparire. Ma i nonni sapevano fare bene la guardia. Restò solo quell’incrocio di sguardi, prima che la mamma finisse a studiare dalle suore. E loro a trebbiare e zappare, senza che uno straccio di zampillo di petrolio uscisse da quei solchi: succede solo nei film.

La realtà fu una fuga al nord, per insegnare a Varese. La consolazione, la libertà di mia madre: una Fiat 500 tutta sua, rifornita (prezzo più basso in Europa) di benzina Supercortemaggiore.

Luca Traini


mercoledì 3 marzo 2021

MUSEI E GALLERIE VIRTUALI

PROSPETTIVE DEMOCRATICHE DELL'IMMAGINE

Il nostro modo di concepire le mostre è cambiato continuamente da quando è nato il museo moderno con la Rivoluzione Francese. È da allora che il popolo sovrano ha conseguito il diritto di godersi l’arte con la “quieta grandezza” e il punto di vista di un re e non di sfuggita, curvo a spazzare il pavimento. Una fruizione democratica sempre più dinamica che è stata il punto di partenza per tutta una serie di ampliamenti di prospettiva. La scolarizzazione di massa prima e poi la definizione come disciplina della storia dell’arte con il suo inserimento nei piani di studio. Quindi tutte le progressive connessioni dell’arte tradizionale con i nuovi media produttori di nuova arte - la fotografia, i libri con foto,  il cinema, la televisione, gli universi in espansione dallo schermo di un computer o di uno smartphone – con le reciproche interazioni e ispirazioni che hanno portato a rivoluzionare in senso dinamico la pura dimensione contemplativa (che comunque “pura” non è mai stata).

Insomma si è entrati nei musei sempre più preparati e pieni di sempre nuove aspettative dettate da un immaginario anch’esso in continuo mutamento. Se vedere un quadro dopo aver conosciuto solo il teatro è diverso dal prenderlo in considerazione dopo essere stati al cinema, lo è tanto più oggi quando si sceglie dove viaggiare in Rete, si è interagito nei social o si è stati protagonisti di un videogioco. Lo spettatore è diventato sempre più protagonista, o meglio, co-protagonista di ciò che vede (così come sono diventate protagoniste le strutture dei nostri musei, esse stesse opere d’arte contemporanea) e le gallerie virtuali, il cui sviluppo è stato solo accelerato dalla pandemia, sono quindi il medium principale - nuovo contenitore e nuovo soggetto estetico – per soddisfare, in  first-person perspective, questa nuova Sindrome di Stendhal informatica. Che deve in ogni caso essere anche informata e resa consapevole delle visioni precedenti.

[…]

Continua in https://www.virtualvernissage.com/luca-traini-fin-dallantichita-la-storia-dellarte-e-piena-di-gallerie-virtuali/


PRIVACY, SOLITUDINE E RIPRODUZIONE NELL'ARTE


E se democrazia vuol dire diritto di rappresentanza universale, significa anche diritto di rappresentazione, rispecchiamento e autorappresentazione per tutti. Il desiderio famelico di produzione di immagini di sé che caratterizza la nostra epoca è quindi una vera e propria riappropriazione di un diritto naturale e culturale, la reazione a una privazione antica di millenni (o a una riproduzione indesiderata e di parte: pensiamo solo all’immagine del contadino visto dal nobile, bestiale o arcadica).

Senza dimenticare il mito ancestrale di Pigmalione. Le vorremmo vive queste immagini, sempre più efficaci a livello di feedback. Le desideriamo il più verosimili possibile, quasi a farle uscire dallo schermo che ci separa o entrarci per vivere una vita parallela più bella (finché durerà questa divisione fra reale e virtuale, che, ad esempio, non sembra sussistere a livello subatomico).
Per chi, come me, è cresciuto nutrendosi di rappresentazioni a base di tecnologie avanzate (la televisione o anche il semplice libro illustrato, sempre più ricco di foto a colori) il discorso sull’originale non è stato più essenziale. A questo proposito rimando al mio lavoro Crossmedialità antica: Lisippo dove ho esemplificato come libri, video e siti per una o più immagini d’arte (per quella greca quasi sempre copie) suppliscano in modo preciso, adeguato e appassionato all’originale (quando c’è, appunto).
Poi uno va a Delfi, resta incantato di fronte all’Auriga e naturalmente fa penitenza. E’ bene tuttavia scrollarsi al più presto la cenere dal capo e riflettere sulla meravigliosa solitudine delle opere d’arte nei nostri musei. Sia ben chiaro: è un ecosistema estetico che mi piace e considero importante conquista della critica e della curatela contemporanea. Ad ogni opera il suo respiro come il giusto spazio vitale per ogni cittadino di una comunità democratica: la migliore soluzione possibile, progetto e sfida valida anche per il futuro. Purché si tenga ben presente che l’originale in origine ben di rado godeva di questa privacy, essendo quasi sempre compattato con altre opere o strettamente vincolato in architetture all’insegna di un implacabile horror vacui. Quando guardo le gallerie settecentesche del mio amato Pannini la mia personale Sindrome di Stendhal dura quanto il piacere di una bella camicia stretta che finisce per soffocarti, specchio magnificente, magniloquente, ma di una società chiusa: aria! E poi c’è il freddo che uno può ben immaginare dentro quegli spazi enormi d’inverno.
Controcanto: oggi anche questo formidabile album di figurine di capolavori è a disposizione di tutti. Basta andare sulla pagina delle Immagini di Google. Non dobbiamo indossare una parrucca incipriata per goderci al caldo una muraglia continua di rappresentazioni di ciò che amiamo, più lunga di qualsiasi incipit di Guerre Stellari, su computer, iPad, iPhone. Neppure è necessario cliccare una pagina, un sito: la meraviglia, specie per i suoi esperti, vale anche solo una schermata, la discesa con un dito o un semplice tasto verso gli inferi, come gli eroi del mito, fino alla scritta See All. E oltre.



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54.Biennale di Venezia




martedì 2 marzo 2021

SAMUELE ARCANGIOLI, "FELINI"

 Una nuova mostra curata da Debora Ferrari e Luca Traini, un nuovo catalogo TraRari TIPI

Dall’8 al 28 marzo 2021 l’esposizione al pubblico in Sala Veratti, via Veratti 20 Varese

PROROGATA FINO AL 18 APRILE

“Seconda natura del leone. Quando il leone dorme nella tana, i suoi occhi vegliano: infatti rimangono aperti”.

Il Fisiologo (II-V sec. d.C.)

Il vero incontro con i felini è al buio, è vedere la notte. E riemergere dall’oscurità con quegli occhi. Da Caravaggio in poi sappiamo che l’arte è felina e restituisce quello sguardo che è lampo nella tenebra e luce tenebrosa. Perché abbiamo fame. Perché c’è la morte. E i gatti hanno sette vite. Samuele Arcangioli è quindi come il leone del Fisiologo: un artista dalla doppia natura. C’è nelle sue opere una fame insaziabile di rappresentazione della vita, di tutte le vite che possono rappresentare i gatti e divorare i leoni o le pantere (colore della criniera che ricorda quello del sole o nero implacabile del manto di una notte senza stelle, dalle fauci spalancate)

[…]

LucaTraini



Produce incessantemente, sempre a tecnica mista su tavola, con una elaborazione particolare che prima somma pigmenti e disegni e poi sottrae, come a lasciare la sinopia, l’anima, di ciò che è emerso dalle profondità della sua ispirazione. Maestro in incisione e litografia, graffia le lastre, le pietre e crea mondi. Quasi medianico nel raffigurare umani, quando dipinge felini africani (dove ha vissuto con la famiglia quando era bambino, esperienza che lo segna per tutta la vita)

[…]

Debora Ferrari

Banca Generali Private e Musea presentano “Felini” di Samuele Arcangioli

con il patrocinio e la collaborazione del Comune di Varese-Musei Civici

Dall’8 al 28 marzo 2021 l’esposizione al pubblico in Sala Veratti, via Veratti 20 Varese

Pronto alla partenza, in osservanza al nuovo DPCM, un altro evento per la città di Varese, sempre firmato Musea e Banca Generali Private, in collaborazione con i Musei Civici-Sala Veratti.

Da lunedì 8 marzo sarà allestita nella prestigiosa sala affrescata dalla bottega di Magatti e dal Baroffio “FELINI”, un affascinante aggiornamento della produzione del pittore varesino Samuele Arcangioli che ha dedicato molte delle sue opere ai grandi felini africani (da lui conosciuti durante il periodo della sua vita in Africa) e ai nostri felini domestici, curata da Debora Ferrari e Luca Traini e con una plaquette pubblicata da Trarari TIPI edizioni.

Le visite, sospese in zona arancione, potranno essere prenotate via e-mail in attesa della possibilità di aprire la sala. Si potrà pregustare l’evento online, tramite video e foto a cura di Gianmarco Taietti, sul gruppo di Musea Trarari Tipi in Facebook.

Banca Generali Private -dichiarano Guido Stancanelli District Manager e Daniela Parravano della sede di Varese- testimonia una volta di più la volontà unire alla consolidata esperienza nel campo degli investimenti percorsi originali e fuori dagli schemi tradizionali di fruizione dell’arte, nel segno della migliore tradizione e innovazione italiana. Due leoni s’incontrano: il marchio storico di Generali e la cifra di stile di un artista. Una simbiosi che apparenta due felini anche nel contenuto. Entrambe le immagini rappresentano infatti un animale in pace, un’anima forte ma pacifica. Nel caso di Generali il rimando del logo leonino, fin dalla sua creazione del 1861. Un marchio sottoposto a successivi aggiornamenti e restyling in diversi anniversari - 1881, 1911, 1971, 1991, fino al più recente del 2014 - e rivisitato negli anni in campo pubblicitario da diversi importanti artisti (Achille Beltrame, Marcello Dudovich, Gino Boccasile, giusto per fare qualche nome). Un leone in sintonia quindi con i Felini di Samuele Arcangioli, anch’essi portatori pacifici e possenti di un messaggio di forza vitale”.

Samuele Arcangioli produce incessantemente, sempre a tecnica mista su tavola, con una elaborazione particolare che prima somma pigmenti e disegni e poi sottrae, come a lasciare la sinopia, l’anima, di ciò che è emerso dalle profondità della sua ispirazione. Maestro in incisione e litografia (che insegna all’Accademia di Bologna), graffia le lastre, le pietre e crea mondi. Quasi medianico nel raffigurare umani, quando dipinge felini africani nello sguardo sembra comunicare un’altra umanità, dove ANIMA di animale è comune a entrambi. La necessità dello sguardo viene prima della necessità di raccontare e insieme al bisogno di dipingere. Essenza e esistenza nelle sue tavole coincidono. (Debora Ferrari, Luca Traini)

Info, contatti stampa e prenotazioni: culturalbrokers@gmail.com

Quando sarà possibile la mostra prevede al mercoledì la visita con l’autore e al giovedì la visita coi curatori, sempre dalle 15 alle 18. Obbligo di mascherina, gel e prova temperatura in loco.

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