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domenica 14 giugno 2020

TEATRI DI GUERRA 4 Albertino Mussato e Dante Alighieri: teatro horror per virtù civiche

Poesia, politica e storia di un contemporaneo di Dante che è un miracolo se si riesce a fare a scuola. Perché fu geniale e non genio come l’Alighieri, scelse il latino e visse a Padova non a Firenze. Ed ebbe successo, come capita più ai bravi che ai geni. Per il resto ebbe a che fare anche lui con papi e imperatori nella vana speranza che Enrico VII mettesse un freno al caos della geopolitica italiana. E’ quasi certo che sia il padovano che il fiorentino fossero presenti a Milano il 6 gennaio 1311, quando l’imperatore fu incoronato re d’Italia, ma continuarono a ignorarsi fino alla morte. Due galli in un pollaio… E il pollaio in cui era stato allevato Albertino era quello di Lovato Lovati, che aveva riscoperto il corpus delle tragedie di Seneca, il lato oscuro del filosofo romano. Drammi truculenti che avrebbero ispirato tanto il giovane Shakespeare quanto il nostro barocco Carlo de’ Dottori, fino ad arrivare al cinema dei miei amati Romero e Carpenter. Ma il primo in Europa fu Mussato, con la sua Ecerinis o Ezzelinide (1314), tragedia civica in trimetri giambici contro la tirannide di Ezzelino da Romano, morto più di cinquant’anni prima, e, soprattutto, della sua “reincarnazione” contemporanea, Cangrande della Scala.

Attenzione! “Teatro” come lo intendeva il medioevo: “Anticamente nel teatro, che era un’area semicircolare, c’era al centro una casetta che si chiamava scena, nella quale vi era un pulpito, su cui saliva il poeta, come un cantore, e recitava le sue opere come canzoni, fuori vi erano mimi e giullari, che riproducevano con l’atteggiamento del corpo il significato dei testi che il poeta veniva dicendo, adattandolo a ciascun personaggio.” (Pietro Alighieri, Commento alla Divina Commedia).

Ora possiamo immaginare meglio il nostro Albertino, incornato di edera e mirto dal vescovo e dal rettore dell’università nel 1315 (con tanto di lettura natalizia della sua opera da ripetere ogni anno), mentre declama il suo dramma a un pubblico di pre-umanisti con le mani rivestite da guanti da capra perché tragedia deriva dal greco tragoscapro, animale sacro a Dioniso e dato in premio ai poeti tragici (la seconda accezione è quella conosciuta e scelta dal Mussato).

Horror per virtù civiche con Ezzelino, nato (come il fratello Alberico) dallo stupro della madre operato dal demonio in persona e finale con strage della famiglia al completo – adulti colpevoli o meno e giovanissimi innocenti (la scena atroce con questi ultimi ve la risparmio) - condito da episodi di cannibalismo (vi risparmio anche questi):

Ezzelino

Parla, Madre, mi piace udire cose mirabili e atroci.

Adeleita

Quasi simile a un toro: dall’irsuta cervice sporgevano adunche corna, crini d’ispide setole gli cingevano il volto e fetida putredine mista a sangue gli colava da entrambe le orbite; dalle narici uscivano frequenti eruzioni di fuoco, dalle ampie orecchie salivano faville su fino al viso e dalle labbra sorgeva, ad ogni respiro, una vampa sottile; perenne fuoco gli lambiva la barba. Saziate appieno le sue brame, l’adultero riempì il mio grembo di seme letale.
[…]
Il troppo penetrante seme ricevuto mi si accese dentro agitando le viscere. Il mio ventre avvertì il tuo terribile peso, Ezzelino, degna prole del tuo vero padre!

Ezzelino

Dagli dei siamo nati. Non altrettanto grande stirpe vantavano un tempo Romolo e Remo, figli di Marte. Il nostro è ben più grande, è dio di un regno sconfinato, è  re di vendette e sotto il suo impero  espiano le loro colpe principi, re e condottieri. Saremo degni giudici del Foro paterno se con le nostre opere rivendicheremo in terra il regno del padre.

[…]

Coro

Morte è congiunta a tirannide e il continuo temere è peggio che morte.

[…]

Nunzio

In breve Ezzelino vien preso: vano fu resistere. Uno gli sfonda il cranio mettendo a nudo il cervello (chi sia stato si ignora). Lo portano via dal campo di battaglia, gli offrono cibo, ma lui tutto rifiuta, persino le cure. Così muore, minaccioso in fronte, e subito scende alle ombre tartaree del padre.

[…]

Gran numero di dardi trafisse Alberico che stava ritto in piedi; un soldato gli immerse la spada nel fianco destro e la spada rigida uscì dal fianco sinistro: da entrambe le ferite sgorgò copioso sangue. Un altro, come un fulmine, gli calò un fendente fino alle spalle; spaccato il cranio, la testa cadde a terra con un singulto e il tronco rimase a lungo vacillante prima di crollare. Allora il volgo in massa ne dilaniò brano a brano le membra, dandole poi in pasto ai cani affamati.

 

Sarà un caso che solo qualche anno dopo, il 1318, un appassionato sostenitore dei Della Scala come Dante scriva in una lettera proprio a Cangrande: “La commedia è un genere di narrazione poetica che differisce da tutti gli altri. Differisce, infatti, dalla tragedia – genere da lui utilizzato a piene mani, aggiungo io, nel suo Inferno - per questo: che la tragedia all’inizio è ammirevole e quieta, alla fine, alla sua conclusione fetida e orribile, e perciò è così chiamata dal tragus, che è il capro, e dall’oda, quindi canto del capro, cioè fetido alla maniera del capro, come appare evidente in Seneca, nelle sue tragedie”?

Non credo. E proprio quell’anno, sempre il caso, Padova, tormentata dalle continue devastazioni del suo territorio da parte di Cangrande, finiva per rimettere tutti i poteri nelle mani del nobile Giacomo da Carrara, che tra i primi provvedimenti avrebbe spedito in esilio l’ex diplomatico Albertino Mussato.

Eccoli quindi tutti e due esiliati, il poeta (a Ravenna) e il drammaturgo (a Chioggia), a consumare gli ultimi anni con le onde dell’Adriatico a ritmare un presente che non passa mai e un passato che non ritornerà.

Frammenti da un mio dramma dove immagino un incontro fra i due quando l’Alighieri è di ritorno dalla sua ultima missione a Venezia per conto di Guido Novello da Polenta:

[…]

Albertino

E così il profeta del rinnovamento della repubblica celeste è diventato il diplomatico terra terra dei signori.

Dante

Tu sei in esilio da poco e io da troppo. Più ci si avvicina al mare più il pane sa di sale. E non c’è vascello che ci riporterà nella nostra terra.

Albertino

Io ho scritto due opere di storia sui nostri sacri romani imperatori. Lo so che non torneranno più, per questo ho parlato di fatti concreti, non mi sono rifugiato in paradiso o nei sofismi aristotelici della tua Monarchia. Hai qualche altro sillogismo per farmi vedere in cielo due soli e a Roma un papa prigioniero del re di Francia con due imperatori tedeschi che si scannano?

Dante

L’eternità non ha fretta. E il finale sarà comunque lieto. Per questo io ho scelto la commedia e tu la tragedia. Io il volgare e tu il latino. Il mio esilio è stato davvero un “ex solo”:  abbandonare il suolo per salire in cielo, che è la nostra vera patria. Addio!

Il poeta si allontana. Sembra accennare un raro sorriso.

Albertino

A Dio le nostre ali. Ma la storia non la scrive Icaro, ma Dedalo. Col rimpianto di non aver provato l’incendio del sole.

[…]

Luca Traini

da Teatri di guerra (Ideazione 1999, Frammenti scelti)

EPISODIO I Agatarco di Samo ad Atene: questione di prospettive

https://lucatraini.blogspot.com/2019/12/teatri-di-guerra-1-agatarco-di-samo-ad.html

EPISODIO II Ambivio Turpione: commedie?

https://lucatraini.blogspot.com/2020/02/teatri-di-guerra-2-ambivio-turpione.html

EPISODIO III Rosvita di Gandersheim: avanguardia in clausura

https://lucatraini.blogspot.com/2020/04/teatri-di-guerra-3-rosvita-di.html

EPISODIO V Poliziano e Botticelli: componimento di Orfeo, crepuscolo dell’Umanesimo (1494)

https://lucatraini.blogspot.com/2020/08/teatri-di-guerra-5-poliziano-e.html

EPISODIO VI Pietro Metastasio: Arcadia al potere

https://lucatraini.blogspot.com/2020/10/teatri-di-guerra-6-pietro-metastasio.html

EPISODIO VII Georg Bücher: teatro di scienza della rivoluzione

https://lucatraini.blogspot.com/2020/12/teatri-di-guerra-7-georg-buchner-teatro.html

LA SPERANZA LUMINOSA DI KAREEM, LA NOIA DISTOPICA DI ELLROY E I NUOVI “BORGHI PUTRIDI”


La bellissima intervista su Repubblica a Kareem Abdul-Jabbar, mito dello sport ma soprattutto persona di grande umanità da sempre impegnata nel sociale, ci offre una lucida analisi politica ricca di speranza e ne abbiamo bisogno ("Difficile dire, ma io ho speranza. Siamo presi fra Storia e Speranza."). Non solo quando commenta con esemplare equilibrio, contenendo un giustissimo sdegno, l’assassinio di George Floyd, ma anche quando individua quello che è ormai un problema cruciale per ogni soluzione democratica: il sistema elettorale americano. "Bisogna cambiare il collegio elettorale che è un anacronismo. La maggior parte degli americani vivono in città e il nostro corpo legislativo non lo riflette. Riuscire ad avere i risultati elettorali che riflettono quello che la gente in America veramente vuole è una cosa che va fatta. E' un sistema che va cambiato". Il problema dei “borghi putridi” (collegi rurali favoriti rispetto a quelli cittadini) che distorse la rappresentanza parlamentare in Inghilterra fino alla riforma del 1832 (e a quella del 1872) si ripropone oggi negli USA. Nelle presidenziali americane il contrasto fra voti complessivi e grandi elettori, escludendo l’episodio dell’elezione di Harrison nel 1888, non si era fatto sentire fino alla contestata vittoria di Bush junior nel 2000 (Al Gore sconfitto nonostante 500.000 voti più dell’avversario). Con l’ultima tornata elettorale il distacco è diventato di quasi 3.000.000 di elettori: è pericoloso - e ridicolo - che si continuino ad eleggere presidenti non espressione dalla maggioranza complessiva degli elettori o quanto meno con collegi meno sperequati. Specie se, come Trump, non si fa nulla per ricucire questo strappo, anzi.
All’opposto di tale profondità la solita solfa ormai superficiale di James Ellroy col suo lucroso pessimismo di comodo e il suo conservatorismo esibizionista e retrivo, utile a fargli vendere qualche copia in più oltre al pubblico affezionatissimo di radical chic masochisti. Stare dalla parte della polizia non significa essere complici di chi abusa e infanga una divisa per commettere crimini senza pagarne le conseguenze. Certo, non siamo al delirio ripugnante dell’ex nunzio Viganò (una volta tanto do ragione a Lavater), ma, d’altro canto, per gente frustrata come questo genere di scrittori, che vuole vedere criminali dappertutto, i delinquenti senza speranza sono merce preziosa. Dopo il Covid e con quello che succede negli USA, in Brasile o a Hong Kong, solo per fare qualche esempio, spero che almeno ci si cominci a stancare di tutto questo packaging distopico.

P.S. Per quanto riguarda statue abbattute o imbrattate (tutte comunque di scarso valore artistico), mi pronuncio a favore solo nei casi più eclatanti: il mercante di schiavi Edward Colston, il genocida Leopoldo II e anche il razzista Jefferson Davis.
Con l’avvertenza di non inquinare i fiumi o lasciarle in giro come spazzatura, ma semplicemente chiuderle e custodirle in un museo. Con altre opportune avvertenze.

sabato 13 giugno 2020

PASOLINI, "SAN PAOLO"

 Il film mai realizzato che avrei diretto

Paolo, dopo aver scritto la lettera-testamento a Timoteo, esce per  andare a spasso.
E' la prima volta che fa qualcosa di inutile e disinteressato. Arriva al  Central Park.
Osserva la vita quotidiana. Cose, fatti, personaggi, gli avvenimenti quotidiani
- fuori dalla storia e da ogni religione.

Pier Paolo Pasolini, San Paolo (1968-74)


C’è un roveto ardente dove la sacra follia del santo e il linguaggio inattuale dello scrittore bruciano insieme. Anche se a distanza, lo scorgo ancora nei dettagli.
Paolo di Tarso lacerato come il regista: da un lato l’apostolo febbricitante che delira sublime, dall’altro il demiurgo dell’organizzazione ecclesiastica in forze e spietato. Attualizzando la storia dalla Parigi sotto occupazione nazista (Gerusalemme) alla morte sul ballatoio di un piccolo albergo come quello di Martin Luther King, ma a New York (Roma). La scena della conversione in macchina mentre si reca – e dove poteva finire un collaborazionista? – nella Spagna di Franco. L’abiura, la lotta con la Resistenza e poi di nuovo la scissione: ora profeta sofferente, emarginato fra gli emarginati, ora nuovo uomo di potere che instaura il compromesso con l’antico. Sinopia di un affresco grandioso sui rivolgimenti di religioni e rivoluzioni, ma anche di quanto chiamiamo “istituzione” in generale. Sul punto di essere realizzato dopo la Trilogia della vita (1974), abbandonato, poi le Tenebrae di Salò e quella morte.
Il San Paolo è  stato sempre vicino alla mia scrittura. Quante volte mi sono inabissato in quegli appunti! La differenza è che io ho smesso subito di idealizzare il passato. E ho abbandonato il cinema troppo presto per il lavoro nella scuola, alla fine del secolo scorso. Eppure un’idea ce l’avevo fatta. La crisi della Prima Repubblica, il dramma dei nuovi immigrati, il crollo del socialismo reale come i tormenti che iniziavano a infrangere le certezze di Giovanni Paolo II… Ce n’era di materiale per riattualizzare questa scenografia ormai anestetizzata nelle pagine di un libro. Mancarono i finanziamenti, scontato, ma anche il numero giusto di collaboratori e attori culturalmente preparati. E anche dove c’era almeno una formazione intellettuale adeguata – fuori dalla mia provincia di Varese – regnava da un pezzo il disincanto (condizione mentale o di cuore che non capirò mai). Insomma tutto il panorama artistico interno e, soprattutto, esterno al set che non era affatto disponibile. Così la cosa – o pasolinianamente  “Il sogno di una cosa” – morì subito. Forse bisognava “organizzar” di più e “trasumanar” di meno… Ma io, anche se per lavoro devo restare più vicino al primo verbo, continuo ad amare di più il secondo.

venerdì 12 giugno 2020

CANTERBURY TALE

CANTERBURY TALE

Eadmero, Anselmo d’Aosta e i figli di Guglielmo il Conquistatore

Il dramma sacro della politica

(Parte I) 

Commento musicale Godric of FinchaleSainte Nicholaes, Godes Druth

"Anselmo, del quale nessun uomo è mai stato più tenace nella giustizia, nessuno così scrupolosamente erudito,

nessuno così profondamente spirituale, lui padre della patria, lui esempio per il mondo"

Guglielmo di Malmesbury, Storia dei re d'inghilterra

"Eadmero ha esposto con tale chiarezza ogni cosa da farla in certo qual modo rivivere davanti ai nostri occhi"

Guglielmo di Malmesbury, Storia dei vescovi d'Inghilterra




Dopo Re Artù e prima di Robin Hood il mondo tutto concreto, ma non meno affascinante, di storia e politica inglese a cavallo fra XI e XII secolo. Narrato con rigore, passione - e senza miracoli - da Eadmero, discepolo fedele del teologo aostano quanto della musa Clio (peccato che alla lunga provocò la rottura col maestro, poco amante di storici e agiografi). Peccato da noi perdonatissimo, specie in questi brutti tempi di Brexit, perché fonte insostituibile per un periodo poco noto della mia amata storia della Gran Bretagna. Poco conosciuto specie in Italia (Valle d’Aosta esclusa): a scuola tutto si ferma con battaglia di Hastings e Arazzo di Bayeux e si riparte con le Crociate e un Riccardo Cuor di Leone che si fatica a sottrarre alla solita aura leggendaria.

La sua Historia novorum in Anglia è storia di tutta una serie di novità.

Una nuova dinastia normanna, scandinava ma nulla a che fare con la dominazione danese di Canuto il Grande, perché ormai francese, con latino e lingua d'oïl a corte.

Una nuova dominazione benedetta da papi riformatori come Alessandro II, che da tempo cercavano di ricondurre il clero anglosassone sotto l’egida di Roma sul modello di Gregorio Magno.

E un nuovo contrasto fra potere temporale e spirituale che culminerà nel 1170 con l’assassinio del più illustre dei successori di Anselmo all’arcivescovado di Canterbury: Thomas Becket (anche questo idealizzato nel capolavoro teatrale di T. S. Eliot, ma c’era da combattere il nazismo).

Una mappa di Canterbury della metà del XII secolo

Procediamo con ordine. Eadmero è di famiglia nobile del Kent e viene avviato fin da piccolo alla vita di monaco nella sua Canterbury dove, da subito, diventa affamato di racconti dei confratelli più anziani. Lo storico in nuce è già qui: “Sin dalla prima infanzia era mia abitudine osservare con scrupolosa attenzione e imprimere nella mia memoria qualsiasi novità si presentasse, soprattutto nell’ambito della Chiesa… Mi ricordai delle parole che un tempo avevo sentito, quand’ero ancora fanciullo, dalla bocca degli anziani della nostra Chiesa, ossia Edvino, uomo  mirabile, Blacmanno, Farmanno e alcuni altri. Questi uomini degni di memoria erano soliti raccontare del tempo della loro gioventù” (Storia dei tempi nuovi in Inghilterra, II, 973, Jaca Book, 2009).

In tutta la sua opera, che inizia col classico elogio premoderno del passato – quanto sono solito chiamare “il sol dell’avvenuto” – affiora, in simbiosi con la solita nostalgia per i “bei tempi andati”, quelli del clero inglese pre-invasione (“il gloriosissimo re Edoardo… Dunstano, vescovo di Canterbury, tutto plasmato di virtù”), una diffidenza ben poco celata verso i non autoctoni. Quindi cosa finisce per legare con devozione filiale questo anglosassone doc a uno “straniero” come Anselmo?

San Dunstano orante (miniatura dal Glastonbury Classbook, XI sec)

C’è da sottolineare che la dominazione normanna aveva portato con sé nuovi arcivescovi  da oltre Manica (e l’ultimo dei locali, Stigando, non aveva certo brillato in santità): prima Lanfranco da Pavia e poi lo stesso Anselmo. Come ha ben sottolineato Charles Burns (in Storia religiosa dell’Inghilterra, La Casa di Matriona e Fondazione Ambrosiana Paolo VI, 1991): “In nessuna delle epoche precedenti le vicende della Ecclesia Anglicana si intrecciarono così strettamente a quelle della chiesa latina occidentale come nel periodo che va dall’invasione normanna fino alla morte di Giovanni Senzaterra nel 1216… con la cessione del suoi regno in feudo alla Chiesa”. Con l’avvertenza di Coloman Étienne Viola (in Anselmo d’Aosta educatore europeo, Jaca Book, 2003), che evidenzia bene i limiti di questo riavvicinamento della Chiesa inglese a quella romana sotto la dominazione normanna: “Guglielmo il Conquistatore regnava già secondo gli usus atque leges, quelle leggi non scritte, semplici consuetudini che gli davano un potere quasi assoluto anche nel campo dei beni ecclesiastici… Non lasciava deliberare o vietare alcunché al primate del regno, cioè all’arcivescovo di Canterbury, se non era conforme al volere reale e se non era ordinato in primo luogo dal re stesso”.

Sant'Anselmo d'Aosta, canonizzato nel 1163 e proclamato dottore della Chiesa nel 1720, in una delle rarissime rappresentazioni
quasi coeve: qui è ritratto con Matilde di Canossa in una miniatura della seconda metà del XII sec.

Le radici dell’affetto di Eadmero e del dramma politico-religioso di Anselmo trapelano da queste righe, accomunate dal deciso sostegno della primazia di Canterbury su tutte le altre sedi episcopali in terra inglese. Un bel problema, perché le fonti storiche a fondamento di questa affermazione, in primis la Storia Ecclesiastica del mio caro Beda (VIII sec.), erano tutt’altro che chiare, anzi. Papa Gregorio Magno, a cavallo fra VI e VII secolo, aveva previsto per il suo inviato Agostino un arcivescovado a Londra, ma questi aveva potuto esercitarlo solo nella capitale del re di cui era ospite, Etelberto del Kent, cioè Canterbury. Aveva inoltre comandato che stabilisse un episcopato anche a York, altra città importante nella memoria che avevano dell’impero romano, ma che non sarebbe rimasto in subordine alla morte dello stesso Agostino. Progetti di difficile attuazione anche per il forte controllo esercitato anche allora dal potere regio (sembra il peccato originario del cattolicesimo inglese). Come ha sottolineato il grande Peter Brown in quel capolavoro che è La nascita dell’Europa cristiana (Laterza, 1995): “La comunità monastica di Canterbury fu ridotta ad assomigliare a una residenza recintata di privilegiati stranieri – persone apprezzabili ma potenzialmente disgreganti che era meglio tenere sotto sorveglianza vicino alla corte reale – e non le fu consentito di ricreare quell’estesa rete di episcopati ‘romani’ com’era nei voti di Gregorio”.

Quanto resta oggi dell'Abbazia di Whitby

Era stato nei fatti, in seguito a tutta una serie di convergenze di natura politica, che, nella seconda metà del VII secolo, Teodoro, greco dell’Asia Minore bizantina inviato sull’isola da papa Vitaliano, era diventato “il primo arcivescovo cui tutta la chiesa degli Angli acconsentì di obbedire” (Beda il Venerabile, Storia ecclesiastica degli Angli, IV,2, Città Nuova Editrice, 1987). Grazie anche all’operato di un altro coltissimo prelato, il berbero Adriano, che a Canterbury aveva creato una vera e propria scuola dove “sia l’uno che l’altro, istruiti a fondo nelle lettere sia sacre che profane, raccolta una schiera di discepoli, diffondevano ogni giorno fiumi di dottrina  salutare per irrigare i loro cuori. Infatti insieme allo studio delle Sacre Scritture fornivano nozioni di arte metrica, di astronomia, di computo ecclesiastico (per calcolare la data della Pasqua). Ne è prova che alcuni dei loro discepoli conoscono la lingua greca e latina come la loro lingua madre” (Beda il Venerabile, come sopra). Il vescovo poeta Aldelmo di Malmesbury (639-709), il primo grande classico della letteratura anglosassone - di cui abbiamo già parlato in La scuola misteriosa e la grammatica inquietante di Virgilio Marone Grammatico – è uno dei migliori prodotti di questo insegnamento. Grazie a Teodoro e Adriano col Sinodo di Whitby (664) l’influenza della Chiesa di Roma si sostituisce a quella irlandese. Ma il dominio di Canterbury resta pur sempre de facto e Lanfranco da Pavia dovrà fare non poche acrobazie (chiamiamole così) per giustificarlo al Concilio di Windsor del 1072. La questione resterà ancora aperta durante l’episcopato anselmiano e il teologo dell’esistenza a priori di Dio dovrà faticare fino agli ultimi giorni per affermare questa pratica tutta a posteriori.

Eadmero ha stima di Lanfranco per le qualità intellettuali e organizzative, ma non c’è feeling (penso anche per il suo ruolo attivo nella repressione della rivolta antinormanna del 1075). Con Anselmo, invece, è tutto diverso. Il carattere dell’aostano è decisamente più affabile. L’umiltà, nonostante il genio teologico, proverbiale. La sensibilità verso la tradizione ecclesiastica inglese, affinata da tre viaggi nell’isola prima di quello fatidico del 1092, più duttile (Eadmero avrà pensato a un nuovo Gregorio Magno con la sua connessione leggendaria fra “Angli” e “angeli”).

E, soprattutto, non abbasserà mai la testa docilmente ai re anglonormanni con cui avrà a che fare, Guglielmo II ed Enrico I (questo scontro, specie col primo, dà vita alle pagine più appassionanti dell’Historia).

Arriviamo quindi al primo dramma, quello dal finale già scritto. Anselmo collaborava da tempo anche se a distanza con l’arcivescovo Lanfranco, era perfettamente a conoscenza della politica ecclesiastica dei duchi normanni, con cui aveva già avuto modo di puntare i piedi e mettere in gioco il suo prestigio, e sapeva di essere il candidato principe alla successione sulla cattedra di Canterbury. Quando questa, nel 1089, resta vacante – e lo rimane per più di quattro anni! – si guarda bene dal traversare la Manica.  Viaggia verso la sessantina – è dunque già molto anziano per l’epoca – e il suo desiderio, avendo già dimostrato le sue capacità amministrative come priore del monastero di Le Bec, è quello, diremmo oggi, di una tranquilla pensione tutta dedicata ai suoi adorati studi speculativi. Dopo l’enorme successo di Monologion e Proslogion, solo per fare qualche titolo, ha già in mente altre opere.


È un'altra lettura quella preferita dai re anglo normanni, il Domesday Book, letteralmente “Libro del Giorno del Giudizio”, con i dati del censimento catastale del 1085-86, e quindi anche un altro il giorno del giudizio prediletto, quello in cui riscuotere tasse decisamente aumentate che fanno di questi sovrani fra i più ricchi nell’Europa dell’epoca.

È il nuovo contesto storico inaugurato da Gugliemo II nel 1087 a far precipitare la situazione. Un nuovo quadro che in realtà ha molto di vecchio. Costretto a far fronte a cospirazioni interne (lo zio vescovo Oddone) ed esterne (il fratello Roberto duca di Normandia) e quindi a far cassa con una rapacità degna del padre (ma senza il suo prestigio), il giovane re si appropria di tutta una serie di terre ed entrate della Chiesa di Canterbury dopo la morte di Lanfranco e, su suggerimento del consigliere Rainulfo Flambart (ironia della storia, un vescovo), lascia di proposito il seggio vacante. Il rischio di nuove sollevazioni e lo stato endemico di guerra con Scozia e Galles fanno sì che gli espropri, d’altro canto legittimi per il potere laico, non vengano meno, creando un malcontento diffuso nel clero meridionale dell’isola. C’è da chiedersi quanto Guglielmo pensasse di poter ritardare la nomina del nuovo arcivescovo. Eadmero, che naturalmente lo detesta, gli mette in bocca parole pesanti degne di un Enrico VIII o di un dramma shakespeariano: “Ma, per il Sacro Volto di Lucca – così infatti aveva l’abitudine di giurare (interessante questa prima singolare liaison anglo toscana) – nessuno sarà arcivescovo eccetto me”. Dietro le quinte la realtà era più complessa. L’uomo poteva permettersi di essere in privato poco religioso se non addirittura scettico: ho idea che quando Anselmo parla di “infedeli” nel Cur Deus homo, oltre a rivolgersi agli Ebrei invitati in Inghilterra e protetti dai re normanni, si riferisca  proprio a lui quando afferma “Se si chiama ingiusto l’uomo che non rende all’uomo quanto deve, molto di più è ingiusto l’uomo che non rende a Dio quanto deve”. Il sovrano cattolico no, anche se una bella fetta dell’episcopato era tutt’altro che scontenta di una chiesa inglese acefala, non poteva rimandare all’infinito il ripristino di una consacrazione che durava da mezzo millennio.

A smuovere le acque ci pensa, guarda caso, uno dei magnati dell’isola, il normanno Ugo d’Avranches, conte di Chester, vecchio compagno d’armi del Conquistatore e cane da guardia del riottoso Galles. Tre inviti all’amico Anselmo per sovrintendere a un nuovo monastero, reiterati in ragione di una grave malattia da cui, all’arrivo dell’aostano (Anno Domini 1092), sorte vuole che si sia ormai ripreso. Eadmero – e non ci si poteva attendere diversamente – dà una spiegazione tutta religiosa a viaggio, guarigione e speranza rinnovata del clero inglese. Noi, che non dubitiamo del fiuto di una vecchia volpe come il conte così come della rassegnata consapevolezza politica dell’abate di Le Bec, possiamo aggiungere che si trattava con grande probabilità di una mossa per cercare di riportare all’ordine il gioco azzardato del re sullo scacchiere inglese.

Re che gioca in difesa finché può come lo stesso Anselmo, tirato per la tonaca da ecclesiastici e notabili a indossare una mitra di cui ben conosce il peso.

Re che, altro scherzo della sorte, cade gravemente ammalato e in preda ai sensi di colpa. In primo luogo perché quasi certamente omosessuale - Eadmero è esplicito su questo anche se il teatro di Christopher Marlowe preferirà Edoardo II Plantageneto – e il peccato di sodomia era considerato fra i più gravi oltre a essere discretamente diffuso (Anselmo varerà diversi – e duri - provvedimenti a questo proposito, ma almeno le condanne efferate del Codice di Giustiano non facevano parte del corpus giuridico dell’isola e l’epoca più feroce di roghi e atrocità simili sarebbe arrivata molto più tardi).

Gugliemo II in una miniatura del XIII sec. tratta dalla Historia Anglorum di Matteo da Parigi

Il teologo assolve il monarca, che lo nomina arcivescovo nel marzo del 1093. Tutti e due agiscono controvoglia ed entrambi sperano: Guglielmo in un vecchio intellettuale incapace di reagire, che voglia solo essere lasciato in pace; Anselmo che la sua logica da filosofo e la sua debolezza di vecchio convincano i suoi sostenitori a desistere.

Ma la storia vuole diversamente. In nove mesi – guarda caso - si assiste a un’escalation che porta alla consacrazione del nuovo arcivescovo di Canterbury. Che ottiene certo la restituzione dei beni espropriati, ma solo quella. Perché  tutto avviene secondo le usanze normanne di cui sopra e non certo secondo i nuovi crismi stabiliti da Gregorio VII in poi, che vietavano l’investitura dei vescovi da parte dei potentati laici (imperatore in primis ma anche semplici re). La maggior parte degli storici propende per un mancato aggiornamento da parte dell’ex priore di Le Bec, sostenendo che solo più tardi, in esilio a Roma, sarebbe venuto a conoscenza dell’insieme dei cambiamenti messi in atto dalla Santa Sede. Certo che la cosa non stupisce solo me (questa lacuna nella banca dati del monastero normanno, in continuo aggiornamento grazie a una diffusa rete di contatti nella cristianità dell’epoca, lascia perplessi). Se anche uno storico della statura di Southern (che è stato e resta uno dei massimi esperti della figura anselmiana) esprime seri dubbi in proposito - “Nessuno può biasimare la sua ignoranza all’inizio, benché sia strana in uno ch’è stato abate per quindici anni. Ma ciò che è più strano è il fatto che egli non abbia fatto nulla, né immediatamente né nei successivi cinque anni, per colmare questa lacuna nella conoscenza della recente o (per tale materia) antica legge canonica” (Anselmo d’Aosta. Ritratto su sfondo, Jaka Book, 1998) - c’è da chiedersi se il sant’uomo non abbia mantenuto un dotta e devota ignoranza ai fini di un’indispensabile quanto inconfessabile mediazione politica. Eadmero, che in questo caso avrebbe rispettato i vincoli di segretezza, lascia correre e anche il successivo grande biografo, Giovanni di Salisbury, preferirà far perno sull’ultimo periodo dell’arcivescovado di Anselmo piuttosto che su questi inizi per farne il puro precursore apostolico del suo ben più deciso eroe, l’altro santo Thomas Becket.

Il re ha ottenuto quello che voleva: l’omaggio feudale. Già, perché il primate della Chiesa, essendo anche il primo fra i baroni del reame,  restava pur sempre un feudatario del sovrano, con tutti gli obblighi previsti dal sistema. Il destino della prima parte dell’episcopato anselmiano è in un certo senso già segnato. E, scontro dopo scontro, si giunge alla prima sacra rappresentazione. Fine febbraio 1095: concilio nazionale di Rockingham, il primo dopo quasi un secolo. Quattro atti per quattro giornate che si concludono con una tregua armata. Lunghi monologhi in scena di Anselmo alternati a brevi interventi fuoricampo di Gugliemo con presenza per entrambi di un coro di vescovi e uno di nobili laici (più un breve intervento della folla e di un soldato). Molto rumore per nulla, verrebbe da dire, ma è uno dei punti più alti della Storia di Eadmero, degno di Shakespeare (e di Eisenstein).

Urbano II consacra l'altare del monastero di Cluny (miniatura del XII sec.)

In ballo ci sono il pallio, che il prelato dovrebbe ricevere direttamente dal papa a Roma (viaggio non da poco per l’epoca) e il riconoscimento stesso del nuovo pontefice, Urbano II (quello che nel novembre dello stesso anno avrebbe indetto la prima Crociata). Due prerogative che Guglielmo ritiene di sua pertinenza mentre Anselmo, che ha già riconosciuto Urbano II quand’era abate a Le Bec nel 1088, considera fondamentale l’assunzione del paramento liturgico come emblema del suo rapporto diretto col vescovo di Roma.

I brani scelti e drammatizzati che seguono sono tratti dalla parte finale del Libro Primo della Historia novorum.

Il castello di Rockingham in un'illustrazione dell'Archeological Journal  del 1845

Tutti si riuniscono così una domenica, a partire dall’ora prima (le 6.00), nella chiesa situata all’interno del castello (particolare piuttosto esemplificativo), mentre il re e i suoi tramano febbrilmente i loro piani contro Anselmo”.

Anselmo (rivolto ai vescovi): “È piaciuto al re e a voi di scegliermi per questa carica. Ho fatto mille obiezioni, desiderando sottrarmi a questa prelatura, ma voi non l’avete concesso. Ho proclamato, tra le altre cose, di avere riconosciuto come papa questo Urbano, ora oggetto della presente lite, e di non volere neppure per un momento scostarmi dalla sottomissione che gli devo finché viva. E non si è trovato nessuno in quell’occasione a contraddirmi… Avrei preferito quel giorno – se mi fosse stato concesso di scegliere – essere gettato in un rogo ardente piuttosto che essere elevato alla dignità di arcivescovo. E tuttavia, nel vedere l’insistenza del vostro desiderio, mi sono fidato di voi… Perciò supplico ed esorto tutti, ma specialmente voi, miei fratelli nell’episcopato, affinché mi diate con un’ancor più attenta considerazione un consiglio sul quale possa appoggiarmi, così che io non infranga in nulla l’obbedienza al papa e non offenda la fedeltà al re mio signore”.

Coro dei vescovi (risposta inevitabile: erano di nomina reale) “Se aspetti da noi un consiglio secondo Dio che possa opporsi in qualche modo alla volontà del re, i tuoi sforzi saranno vani, perché a tal riguardo non ci vedrai mai sostenerti.” (“e abbassarono il capo come per ascoltare i suoi rimproveri”).

Anselmo (“levati gli occhi al cielo, con viso raggiante e voce solenne”) “’Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio’. Queste sono le parole, questi i consigli di Dio… Per cui tutti insieme vedrete che presterò la mia obbedienza nelle cose che riguardano Dio al vicario del beato Pietro e nelle cose che per diritto competono alla dignità terrena del mio signore, il re, per quanto ne sarò capace, presterò il mio consiglio e il mio aiuto fedele”.

Coro dei vescovi (“profondamente turbati, alzandosi in tutta fretta e con grande tumulto, esprimendo la loro agitazione con voci confuse, tanto da far pensare che lo proclamassero unitamente degno di morte, con tono minaccioso”) “Sappi che non andremo mai in tua vece a riferire le tue parole al nostro signore”.

Davide contro Golia e altre storie del re biblico tratte dalla Winchester Bible (seconda metà del XII sec.)

“Poiché non rimaneva con Anselmo nessuno a cui potesse in tutta sicurezza dare l’incarico di riferire le sue parole al re, si recò egli stesso da lui e gli fece sapere a viva voce quanto aveva detto e subito si congedò. Al che il re, fortemente irritato, cominciò con tutte le forze a cercare, insieme con i vescovi e i baroni ciò che avrebbe potuto obiettare a queste parole, ma non trovò nulla. Dopo essersi dunque rimproverati vicendevolmente fra loro, si divisero in piccoli gruppi, e qui in due, là in tre, altrove in quattro tenevano insieme consiglio, ricercando con la massima diligenza se in qualche modo potevano produrre qualche risposta alle parole di Anselmo, che potesse placare la collera del re senza andare contro le sentenze di Dio che Anselmo aveva addotto… Mentre i conciliaboli dei suoi avversari si prolungavano, questi, appoggiato al muro, si riposava in un dolce sonno. Dopo un lungo indugio i vescovi e i baroni ritornarono dalla dimora del re”.

Coro dei vescovi “Ma rifletti, te ne preghiamo, e rinuncia all’obbedienza verso questo Urbano che, se è offeso il re, non può giovarti in nulla, mentre, se il re è rappacificato con te, non può in nulla nuocerti; scuoti il giogo della schiavitù e libero, come si addice all’arcivescovo di Canterbury, in tutte le azioni rispetta la volontà del re tuo signore e il suo comando”.

Anselmo “Sento ciò che dite; ma per parlare solo di un punto, mi rifiuto assolutamente di rinnegare la mia obbedienza al papa”.

“Nel frattempo tutta la folla cominciò a mormorare contro l’ingiustizia fatta a un così grande uomo, lamentandosi a mezza voce. Infatti nessuno osava parlare apertamente a suo favore, per timore del tiranno”. (Eadmero scrive proprio così, “tyranni”, e di questa notazione avrà certamente fatto tesoro Giovanni di Salisbury per il suo “Policraticus. E c’è qualcuno, in questa folla che mormora, che ha il coraggio di uscire e parlare con voce chiara, un soldato, è anche questa volta l’analogia evangelica è forte).

Pagina dei Moralia in Iob di papa Gregorio Magno in un manoscritto cistercense del XII sec.

Soldato ("avvicinatosi ad Anselmo e inginocchiatosi di fronte a lui") “Signor padre, i tuoi figli ti chiedono supplici, mediante la mia voce, di non turbarti in cuore per ciò che hai udito, ma di ricordarti del beato Giobbe che ha vinto il diavolo sul letamaio e vendicato Adamo che il diavolo aveva vinto nel paradiso”.

“Il re venne a sapere tutto questo e fu sconvolto dall’ira. Guglielmo, vescovo di Durham, portavoce del sovrano in questa faccenda, era del parere che si dovesse costringerlo con la violenza e, se non avesse acconsentito, che gli venissero tolti il bastone pastorale e l’anello e fosse espulso dal regno. Parole che non piacquero ai baroni”.

Guglielmo II “Che cosa vi piacerà, se ciò non vi piace? Finché vivo non sopporterò in alcun modo di avere un rivale nel mio regno. E se sapevate che appoggiava la sua causa su una tale forza, perché mi avete lasciato cominciare questo processo contro di lui? Andate, consultatevi, perché, per il Volto di Dio, se non lo condannerete secondo la mia volontà, sarò io a condannare voi!... E voi, miei vescovi, che dite?”.

Coro dei vescovi “Siamo profondamente dispiaciuti di non poter soddisfare il tuo volere, signore. Anselmo è primate, non solo di questo regno, ma anche della Scozia, dell’Irlanda e delle isole adiacenti, e noi siamo suoi suffraganei. È chiaro dunque che non possiamo né giudicarlo né condannarlo in alcun modo, anche qualora, e non è questo il caso, si possa accusarlo di qualche colpa”.

Guglielmo II “Che resta dunque? Se non potete giudicarlo, almeno potete rifiutargli la fedeltà di ogni obbedienza e l’amicizia della vostra fraterna compagnia?”.

Coro dei vescovi “Sì, questo possiamo farlo se tu ce lo ordini”.

Guglielmo II “Affrettatevi dunque e fate prontamente quanto dite, affinché, quando si vedrà disprezzato e abbandonato da tutti, si vergogni e pianga di aver seguito Urbano disprezzando me, suo signore”.

"I vescovi, uniti a sé gli abati, riferirono al padre, manifestandogli il loro rifiuto di obbedirgli per soddisfare la volontà del re".

Anselmo "Sento ciò che dite... Se rifiutate ogni sottomissione, fedeltà e amicizia che mi dovete come primate e vostro padre spirituale, non agite come dovreste. Dio mi guardi, tuttavia, di rendervi la pariglia... Quanto al re, che mi priva di ogni protezione e dice non volermi considerare come arcivescovo o padre spirituale, gli prometto che, per quanto mi riguarda, come un padre continuerò a prendermi diligente cura della sua anima".

Guglielmo II (rivolto ai baroni) "Ciò che dice suscita in me un profondo disgusto. Proprio perché voi siete baroni del mio regno, rifiutategli senza indugio, come hanno fatto i vescovi, ogni fedeltà e amicizia, di modo che sia chiaro quale vantaggio trarrà da quella fedeltà che conserva alla sede apostolica, facendo offesa alla mia volontà".

Coro dei baroni "Non siamo suoi uomini né possiamo rinnegare una fedeltà che non gli abbiamo mai prestato. È il nostro arcivescovo, deve governare la cristianità in questo paese e, per tale ragione, noi che siamo cristiani non possiamo rifiutarci di riconoscere la sua autorità finché viviamo quaggiù, tanto più che non v'è traccia in lui di alcuna colpa che potrebbe portarci a trattarlo in modo diverso".

"Il re, trattenuta la collera, sopportò questa risposta, guardandosi dal contraddire apertamente il loro giudizio per non offenderli troppo. Nel vedere ciò, i vescovi mostrarono un grande imbarazzo, comprendendo che gli occhi di tutti erano puntati su di loro e che tutti non senza ragione disapprovavano la loro apostasia. Se tu fossi stato presente, avresti sentito or l'uno or l'altro, con uno sbotto di indignazione, indicare questo o quel vescovo con vari soprannomi come: Giuda traditore, Pilato, Erode e altri simili".

Un'immagine idealizzata di armonia fra re e Chiesa tratta da Il Cantico dei cantici (Winchester Bible, seconda metà del XII sec.)

È necessario a questo punto un inciso. Sarà più merito dei baroni che dei vescovi (con la sola eccezione di Gondulfo di Rochester, guarda caso con lo stesso nome, ma versione in positivo, del ben poco tenero padre dell'aostano) se nel concilio di Rockingham verrà trovato un compromesso. La cosa non stupisce dati i numerosi compromessi a cui era sempre costretto un re feudale con i suoi vassalli più armati. L'immagine dura a morire di un medioevo tutto alleanza cristianissima fra trono e altare e sistema feudale ben impostato - vassalli, valvassori e valvassini con tanto di mito della "cavalleria" - non è altro che una vulgata da ancien régime rimasticato in salsa romantica nell'Ottocento. La realtà storica è un'altra. È un gioco di contraltari fra poteri che rivendicano tutti, direttamente o indirettamente, un'origine sacra. Guglielmo ricatta i vescovi mettendoli letteralmente all'angolo nel suo castello, previo il pagamento di cospicue somme per tornare nelle sue grazie. E Anselmo, tutt'altro che ingenuo, ben conscio di essere il primo dei baroni e della tendenza dei suoi colleghi laici a trovare pretesti di ribellione,  gioca la carta dell'esilio volontario.

"All'udire ciò, il re rimase profondamente turbato. Infatti, pur desiderando più di ogni altra cosa la partenza di Anselmo, non voleva tuttavia che partisse rivestito della dignità arciepiscopale, temendo che il nuovo scandalo che poteva derivarne fosse peggiore del primo. Ora vedeva che gli era impossibile privare Anselmo del pontificato. Così, in preda all'agitazione senza curarsi del consiglio dei vescovi, del quale si lamentava perché l'aveva gettato in queste angosce, il re tenne consiglio coi suoi baroni chiedendo loro ciò che si dovesse fare. Essi gli proposero di far ritornare Anselmo".

Coro dei baroni (rivolto ad Anselmo) "Mossi dall'antica amicizia nei tuoi confronti, ci rattristiamo di questa discordia fra il re nostro signore e te. Perciò, desiderando ricondurvi alla vostra precedente concordia, abbiamo pensato che sarà utile in questo momento concedere da entrambe le parti una tregua".

Anselmo "Non rifiuto la pace né la concordia. A dire il vero, mi sembra già di capire ciò che implica questa pace che voi mi offrite".

"Una tregua venne dunque concessa fino all'ottava di Pentecoste e fu dichiarata e sancita con giuramento reale".

Una tregua dai fragili equilibri, dove il papato gioca la sua carta spedendo oltremanica Gualtiero, vescovo di Abano, col sospirato pallio arcivescovile (maggio 1095). Guglielmo risponde cercando di far leva sulla presenza di un antipapa, Clemente III, per farsi consegnare direttamente il paramento liturgico e tentando di barattare il riconoscimento di Urbano II con una cospicua somma di denaro. Progetti che vanno in fumo: l’influenza di Clemente è ormai confinata a Ravenna e zone limitrofe e il re ha troppi nemici interni ed esterni per prolungare le trattative. Si finisce con l’ennesima mediazione: il paramento viene lasciato sull’altare della cattedrale di Canterbury e Anselmo se lo indossa da solo stile Napoleone il giugno dello stesso anno.

È l’ultima vittoria del teologo e non durerà a lungo. Gli interessi geopolitici di Guglielmo sono rivolti alla Normandia. Fallito il tentativo di strapparla al fratello Roberto Cosciacorta, quando questi parte alla volta della prima Crociata (1096), ne assume il temporaneo controllo previo pagamento della spedizione e vuole quindi mani libere per nuove tasse, anche a spese della Chiesa. Ennesima ironia della Storia è proprio il costo della riconquista del Santo Sepolcro che pone le basi della prima perdita dell’arcivescovado da parte di Anselmo, costretto a sostenere l’ipoteca del suo signore feudale con oro e argento del tesoro di Canterbury (e ad alienarsi non pochi ecclesiastici). Vent’anni dopo Eadmero scriverà di “denigratori che ancora oggi accusano Anselmo di avere spogliato la Chiesa”. Già indebolito nel sostegno del clero, l’anno successivo viene accusato da Guglielmo di aver fornito, sempre in qualità di primo barone del regno, un contingente troppo esiguo di truppe contribuendo quindi all’insuccesso della sua spedizione contro il Galles. È la classica goccia che fa traboccare il vaso. Il re può finalmente mettere alle strette il suo arcivescovo e porre condizioni inaccettabili che in pratica lo costringono all’esilio. Esilio che farà suo, come scelta volontaria nel segno di quell’”esilio in terra” del suo essere cristiano. “Deus vult” per la Crociata e per la sua sconfitta. Come un eroe antico ha cercato invano di combattere il Fato. Ma  in tutti e due i casi è stata dimostrata una forza che, per quanto sopraffatta dal mito o dalla consuetudine, verrà riscattata dalla Storia.

“Anno ab  Incarnatione Filii Dei millesimo nonagesimo septimo” – così scrive Eadmero usando il computo annuale che usiamo, non ancora di moda – in pieno ottobre arcivescovo e scrivano si ritrovano a Dover, “trattenuti in quel luogo per quindici giorni, poiché il vento ci impediva la traversata… Tutto il bagaglio fu messo a soqquadro e perquisito nella speranza di trovarvi denaro”.

L’esilio durerà tre anni. Guglielmo trasferirà le proprietà della primazia nel suo patrimonio, ma non riuscirà nell’intento principale: togliere la carica al primate. Anselmo approfitterà del suo periodo di anomia per incontrare i suoi sostenitori nel continente (e conoscere il nipote omonimo, figlio della sorella Richeza, monaco a San Michele della Chiusa), aggiornarsi (se non lo aveva fatto segretamente prima) nelle ultime novità del diritto canonico romano e sostenere con la sua dottrina le lotte del papa. Fino al giorno in cui, fatalità o politica, durante una battuta di caccia una freccia sbucata da chissà dove fa del re cacciatore preda. Il 2 agosto 1100 Guglielmo II muore e, per quanto il duca di Normandia Roberto si affretti a tornare dalla Terra Santa, il trono va più prosaicamente al fratello minore Enrico, sostenuto, non a caso, dalla nobiltà inglese. Grazie a un altro compromesso fra monarchia e Santa Sede, liberatasi anche dell'antipapa Clemente (morto nel settembre dello stesso anno), Anselmo può tornare in Inghilterra.

Guglielmo II con la fatidica freccia (miniatura dagli Stowe Manuscripts)

Sello scontro che lo contrapporrà a Enrico I, dramma che si compone di un secondo esilio e di un deus ex machina finale escogitato dal nuovo papa Pasquale II, parleremo in una seconda parte.

Nel frattempo, dopo sette anni di fedele servizio, si andava consumando lo strappo fra Eadmero e il suo idolo. Il segretario si era segretamente trasformato in biografo. Risultato: quella Vita di Sant’Anselmo (pubblicata in traduzione sempre da Jaka Book nel 1987), ricca di raffinate psicologie pagate a caro prezzo dall’autore. Peccato confessato al successore dell’aostano, l’arcivescovo Rodolfo (di cui lo storico sarebbe diventato consigliere), che avrebbe ordinato di descriverlo in dettaglio come penitenza: “Quando avevo posto mano per la prima volta a quest’opera e in buona parte avevo trasferito alla pergamena ciò che avevo annotato sulla cera, un giorno il padre Anselmo mi chiamò in disparte, chiedendomi cosa stessi abbozzando o ricopiando. Avendo preferito velargli la cosa di silenzio anziché scoprirla, mi ordinò o di desistere dall’intento avviato e di dedicarmi ad altro o di mostrargli quello che stavo scrivendo. Gli obbedii volentieri, dal momento che già per altre opere che avevo composto mi ero affidato al suo aiuto… La mia aspettativa e la mia speranza non rimasero deluse. In questo libretto ha, infatti, corretto più punti, ne ha arrangiato alcuni, modificati altri, approvati altri ancora. Ne provai non poco piacere e ne trassi forse più orgoglio del dovuto... Ma pochi giorni dopo aver corretto l'opera, l'arcivescovo mi convocò a sé e mi ordinò di distruggere completamente i fascicoli... La presi molto male. Non osando tuttavia disobbedire del tutto a quell'ordine e non volendo che andasse perduto quello che avevo messo insieme con tanta fatica, lo presi in parola e distrussi quei quaderni, ma solo dopo aver ricopiato ciò che in essi era stato scritto su altri quaderni. Ciò che ho fatto forse non è esente dal peccato di disobbedienza”.

Factum est. Eadmero resterà segretario ma non sarà più “il figlio carissimo, bastone della mia vecchiaia” del primate. Ne risentirà anche la seconda parte dell'Historia novorum, meno coinvolgente e più povera di documentazione. Il dolore per questa perdita di intimità non abbandonerà più né lo storico né l'uomo. Che, in cerca di redenzione, tenterà di ritrovare parole di conforto nel teologo ricevendone risposte non esenti da un certo risentimento: "Né posso certo dimenticare in che modo mi abbia una volta risposto quando gli chiesi di rendermi partecipe della sua ricompensa nei cieli, così come mi aveva avuto compagno di fatica su questa terra. Disse che certo l'avrebbe fatto con gioia e volentieri, se solo avessi provveduto a non essergli di troppo peso".

Eadmero ritratto in un manoscritto della metà del XII sec.

Oggi il peccato che laicamente, molto laicamente, perdoniamo è quello di Anselmo. Alle cui opere dense e brevi accosto con piacere lo splendido mattone del suo discepolo. Nel piccolo paradiso privato della mia biblioteca.

Luca Traini

mercoledì 10 giugno 2020

DONNE DEL NOSTRO MONDO

Fotografie  di Antonio Cereda dai viaggi
in Africa, Asia, Oceania, America Latina


Dal 13 giugno al 27 settembre l’esposizione al pubblico degli scatti al femminile dell’artista al Museo Castiglioni di Varese

Per le prime settimane sarà visitabile solo di sabato e domenica
Orari: 10:00 – 13:00 / 14:00 – 18:00

Sull'onda del successo delle mostre Come la luce: dai Macchiaioli allo Spazialismo e Guttuso ritrovato si prepara un altro evento importante per la città di Varese, sempre firmato Musea e Banca Generali Private, in collaborazione col Museo Etnoarcheologico Castiglioni.


C’è una donna che riassume tutta la luce dello scatto al femminile nell’opera di Antonio Cereda. E’ la foto della pescatrice del Terai (Nepal) al centro della rete a forma di grande ombrello quasi sferico che imbraccia, come fosse una donna, questa volta una donna, perno del cerchio vitruviano.
Il cosmo al femminile dei viaggi del fotografo segue una rotta di sguardi, gesti, lavori e apparizioni di questa realtà concreta fatta di eleganza, forza e dolcezza che vince ogni luogo comune, ogni esotismo. E’ la vita quotidiana che queste donne rendono poesia.
Ci sono quattro continenti che hanno il nome al femminile (Africa, Asia, Oceania, America Latina), ognuno con i suoi segni e disegni – raffinati, immediati, complessi - che rinviano a un unico denominatore: la bellezza. Una bellezza che non è proprietà esclusiva dell’essere giovani (c’è anche questo, naturalmente), ma soprattutto dell’essere se stesse in quella vita di tutti i giorni che sanno rendere eccezionale, qualunque età esse abbiano, qualunque sia il contesto (la macchina fotografica sembra passi per caso, come fosse un’amica che stavano aspettando e ora accolgono in casa, sul lavoro, per strada). Queste sono immagini di donne libere o liberate, immortalate libere in una foto (l’arte, altro sostantivo al femminile, ha questo potere).
Donne dell’altro mondo, del nostro, se lo vogliamo – e dobbiamo – comprendere. La loro diversità, così pregnante, uno scatto dopo l’altro, diventa esposizione di quanto abbiamo lasciato in ombra. Apriamo l’obiettivo, apriamo lo sguardo.
La luce curiosa, discreta, appassionata delle fotografie di Antonio Cereda è il segno, concreto e perciò ricco di fantasia, che solo l’amore preciso e incondizionato per l’altro - le altre, che sanno bene rendere meno minaccioso e decisamente più gentile questo termine – è, sono la scrittura viva di questa terra.

Il nuovo catalogo TraRari TIPI

Da sabato 13 giugno sarà aperta alla cittadinanza presso il noto museo etnografico nel parco di Villa Toeplitz DONNE DEL NOSTRO MONDO Fotografie  di Antonio Cereda dai viaggi in Africa, Asia, Oceania, America Latina, un affascinante reportage dal Cosmo Donna di quattro continenti, ognuno con i suoi segni e disegni – raffinati, immediati, complessi - che rinviano a un unico denominatore: la bellezza, quella vera, quella dell’essere se stesse in una vita di tutti i giorni che sanno rendere eccezionale, qualunque età esse abbiano, qualunque sia il contesto. L’esposizione supportata da Banca Generali Private porta il logo anche di Rete al Femminile Varesecurata da Debora Ferrari e Luca Traini e con una plaquette pubblicata da Trarari TIPI edizioni. Il concerto Intuitivi scorci sonori di Stefano Ravotti con strumenti tradizionali delle varie popolazioni fotografate avrà luogo in data da destinarsi, all’aperto, insieme ai curatori e al fotografo.
“La mostra temporanea sull’arte etnica -spiega Marco Castiglioni, direttore, “Magie d’Africa. Religioni, simboli, misteri”, che stava incontrando un grande gradimento da parte dei visitatori, sospesa anch’essa per l’emergenza sanitaria, sarà nuovamente visitabile e prorogata almeno fino alla fine di giugno”.

Banca Generali Private - dichiarano Guido Stancanelli District Manager e Daniela Parravano della sede di Varese - è stata sempre sensibile a questa dimensione al femminile così vitale, così fondamentale, in grado di intravvedere prospettive e soluzioni concrete ad ampio raggio. Per questo ha fatto propria con entusiasmo questa mostra fotografica di Antonio Cereda che mette a fuoco ed evoca con grande sensibilità volti e dinamiche del cosmo-donna. Donne di questo mondo, perché, anche se di altri continenti, pongono al centro dell’attenzione, proprio nella diversità, lo stesso coraggio, la stessa grazia, la stessa intensità di tutte le donne oggi nel voler essere se stesse e protagoniste della costruzione di una società più umana. Con questa nuova esposizione, che fa seguito a quella dedicato con successo a Guttuso ritrovato, Banca Generali Private Varese testimonia una volta di più la volontà unire alla consolidata esperienza nel campo degli investimenti percorsi originali e fuori dagli schemi tradizionali di fruizione dell’arte, nel segno della migliore tradizione e innovazione italiana”.


Antonio Cereda è un fotografo che ama girare il mondo insieme alla moglie Anna Canuto, antropologa, nei luoghi meno turistici, che sa restituire con un’evidenza e una familiarità che sembra di essere proprio lì, accanto a lui, a dialogare coi vicini di casa. Nel corso di più di trent’anni ha pubblicato cinque libri: SFULINGO l’ India dei colori (1988), Polepole dell’ Africa adagio, adagio (2003), Papua Nuova Guinea :le maschere danzanti (2007), Gujarat, frammenti (2018). Il suo sito è ALCHIMIA – IMMAGINI DAL MONDO PER IL MONDO.
Ha già pubblicato con TraRari TIPI STREET ART Segno dei tempi (2019), a cura di Debora Ferrari e Luca Traini.



LUGLIO AL MUSEO CASTIGLIONI
Due mostre e quattro presentazioni e libri al Bar Tennis di Villa Toeplitz
Sabato 4-18-25 e Venerdì 17 alle 18.30


Mentre continuano con successo le esposizioni Magie d’Africa.Religioni,simboli,misteri e Donne del nostromondo - Fotografie di Antonio Cereda dai 4 continenti (entrambe fino al 27/9) il direttore del museo Marco Castiglioni propone 4 incontri con gli autori e presentazioni di libri, alcuni in collaborazione con Musea TraRari TIPI e Banca Generali Private di Varese.

4/7 Federico Bianchessi Taccioli, Parole di traverso, ed. Macchione

17/7 Massimo Negri e Giovanna Marini, Le 100 parole dei musei ,Marsilio Editore

18/7 Gherardo Mazzocchi, Di suoni e cristalli, Trarari Tipi edizioni (presentazione con esposizione di cristalli e strumenti musicali usati nel Crystalhealing)



Parco Toeplitz
Viale Vico 46
21100 VARESE
+ 39 334 9687111
+39 0332 1692429

Per la sicurezza dei visitatori, saranno attuate tutte le procedure igieniche previste dalle direttive governative e regionali. Non potranno accedere all’esposizione più di 20 visitatori contemporaneamente, 10 per piano, e non si potrà sostare in più di 5 per ogni sala, naturalmente rispettando le distanze infra-personali previste. L’uscita sarà differenziata dall’ingresso. Il personale e i volontari che collaborano col Museo Castiglioni vigileranno sul rispetto delle regole. Verrà messo a disposizione dei visitatori il gel disinfettante e verrà rilevata la temperatura corporea all’ingresso che sarà consentito solo se inferiore a 37,5° e muniti di mascherina e guanti. Troveranno comunque esposizioni meno congestionate, più silenziose, e con maggior libertà di movimento. Costretto al distanziamento sociale, chi vi accederà potrà ammirare le opere come in poche occasioni si sono viste; avrà la possibilità di sostare da solo, con lentezza e senza confusione dinanzi a un reperto; potrà prendersi più tempo per capire e imparare, potrà approfondire quanto scritto nei pannelli, nelle didascalie o proiettato. Dunque, un’opportunità davvero unica, da non perdere. Peraltro, la comprensione del percorso sarà tutt’altro che penalizzata considerato che, oltre ai consueti pannelli, il Museo Castiglioni in ogni sala dispone di un video che racconta quanto esposto. Si tratta di filmati unici e originali girati dai fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni nei loro oltre sessant’anni di ricerche sul campo nel continente africano che, di fatto, fanno parte integrante della collezione. Così come la sala multimediale dove è stato ricostruito un intero attendamento Tuareg, consentirà al pubblico di immergersi in tutta sicurezza in quello che è un vero e proprio piccolo angolo di deserto.