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sabato 13 giugno 2020

PASOLINI, "SAN PAOLO"

 Il film mai realizzato che avrei diretto

Paolo, dopo aver scritto la lettera-testamento a Timoteo, esce per  andare a spasso.
E' la prima volta che fa qualcosa di inutile e disinteressato. Arriva al  Central Park.
Osserva la vita quotidiana. Cose, fatti, personaggi, gli avvenimenti quotidiani
- fuori dalla storia e da ogni religione.

Pier Paolo Pasolini, San Paolo (1968-74)


C’è un roveto ardente dove la sacra follia del santo e il linguaggio inattuale dello scrittore bruciano insieme. Anche se a distanza, lo scorgo ancora nei dettagli.
Paolo di Tarso lacerato come il regista: da un lato l’apostolo febbricitante che delira sublime, dall’altro il demiurgo dell’organizzazione ecclesiastica in forze e spietato. Attualizzando la storia dalla Parigi sotto occupazione nazista (Gerusalemme) alla morte sul ballatoio di un piccolo albergo come quello di Martin Luther King, ma a New York (Roma). La scena della conversione in macchina mentre si reca – e dove poteva finire un collaborazionista? – nella Spagna di Franco. L’abiura, la lotta con la Resistenza e poi di nuovo la scissione: ora profeta sofferente, emarginato fra gli emarginati, ora nuovo uomo di potere che instaura il compromesso con l’antico. Sinopia di un affresco grandioso sui rivolgimenti di religioni e rivoluzioni, ma anche di quanto chiamiamo “istituzione” in generale. Sul punto di essere realizzato dopo la Trilogia della vita (1974), abbandonato, poi le Tenebrae di Salò e quella morte.
Il San Paolo è  stato sempre vicino alla mia scrittura. Quante volte mi sono inabissato in quegli appunti! La differenza è che io ho smesso subito di idealizzare il passato. E ho abbandonato il cinema troppo presto per il lavoro nella scuola, alla fine del secolo scorso. Eppure un’idea ce l’avevo fatta. La crisi della Prima Repubblica, il dramma dei nuovi immigrati, il crollo del socialismo reale come i tormenti che iniziavano a infrangere le certezze di Giovanni Paolo II… Ce n’era di materiale per riattualizzare questa scenografia ormai anestetizzata nelle pagine di un libro. Mancarono i finanziamenti, scontato, ma anche il numero giusto di collaboratori e attori culturalmente preparati. E anche dove c’era almeno una formazione intellettuale adeguata – fuori dalla mia provincia di Varese – regnava da un pezzo il disincanto (condizione mentale o di cuore che non capirò mai). Insomma tutto il panorama artistico interno e, soprattutto, esterno al set che non era affatto disponibile. Così la cosa – o pasolinianamente  “Il sogno di una cosa” – morì subito. Forse bisognava “organizzar” di più e “trasumanar” di meno… Ma io, anche se per lavoro devo restare più vicino al primo verbo, continuo ad amare di più il secondo.

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