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lunedì 10 maggio 2021

LA PERFETTA IMPERFEZIONE TECNOLOGICA DELL’ARTE

Viviamo nella lunghezza d’onda del visibile e a questa cerchiamo di ricondurre anche quanto le sfugge. Con lo sviluppo accelerato della tecnologia – un discorso che data dalla fine del Neolitico, dall’origine delle città e della conseguente “civiltà” – abbiamo racchiuso la raccolta di informazioni a tutto tondo degli occhi in una cornice ad angolo retto (la nostra forma prediletta di in-formare). E’ una prospettiva che oggi consideriamo “naturale”, come aprire una porta o una finestra, che infatti hanno questa forma e bene si adeguano alla struttura delle nostre abitazioni, siano fatte di mattoni, pietre squadrate o pali in legno verticali e trabeati o incrociati ad angolo retto. Queste informazioni racchiuse di norma in un rettangolo le abbiamo chiamate di volta in volta “stele”, “tavoletta”, “affresco”, “quadro”, “libro”, “televisione”, “schermo” del cinema, del pc o del cellulare: la forma è sempre quella. Se da diecimila anni non riusciamo a farne a meno è perché, oltre a darci un forte senso di stabilità sulla terra con cui descrivere più comodamente quanto ci circonda - la circolarità sulla terra è instabile - e a contrastare con una disposizione internamente compiuta l’horror vacui, grazie alla sua cornice ci permette di delimitare lo spazio delle informazioni rispetto al contesto vitale in continuo mutamento in cui siamo immersi. Non è totalizzante come la vita fisica perché presenta un confine ben definito oltre il quale l’occhio può andare per interrompere la visione, per distrarsi. Dalla vita invece non ci si può distrarre se non in sonno o in sogno, cioè in realtà non vitali e dinamiche in senso stretto e di norma collegate alla morte o all’aldilà. 


Luca Traini, Contemplare la distrazione

L’arte più recente invecchia prima.

Questione di forma, che in tempi ravvicinati si comporta come una moda.

Questione di storia delle forme, perché oltre l’invecchiamento c’è l’antichità, sia in termine stretto (Età Antica) che relativo (per i media più recenti si parla di decine di anni).

Analogia con la vita: quando siamo giovani non vediamo l’ora di cambiare; quando siamo passati oltre, parti del nostro remoto sembrano affiorare intatte rispetto a mutamenti indefinibili dalla cronologia più prossima. Percezioni vive che basta una vecchia foto a far tornare visioni oggettive. Ma un eventuale ritratto disegnato o dipinto, tecnica arcaica e quindi nobilitata, fa meno impressione.

Quanto ai contenuti più generali - amore in primis, nelle sue diverse declinazioni - questi vengono percepiti e attualizzati, anche a costo di travisamenti, con più facilità rispetto a quelli più specifici (delegati progressivamente a una minoranze sempre più di nicchia di esperti).


Spazi-tempi dell'entropia formale

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L’“entropia formale” della nostra cultura si attiva più rapidamente quando lo strumento che è alla base dell’opera racchiude una maggiore complessità a livello tecnologico ed è ancora molto diffuso, fruito o usato a livello di massa.

I casi contemporanei più eclatanti sono quelli della foto, del video e della riproduzione musicale. Per non parlare di quanto, molto semplicisticamente e sinteticamente, relazionato ai mondi virtuali generati dalla rivoluzione informatica, che si parli di computer, di videogame (da pixel o bit delle origini all’odierno iperrealismo) o di veste grafica e spazi di contenuto dei social (dalle prime rudimentali chat alle piattaforme transcontinentali di oggi). L’uso, recente e compassionevole, di una definizione come “vintage” salva prodotti anche vecchi solo di una decina d’anni da quelle condanne di “passatismo” che erano caratteristiche del secolo appena passato (censure violente anche perché rivolte contro fenomeni e resistenze datate nell’ordine di secoli).

Perché questo? Perché lo strumento, il medium espressivo, è ancora comunemente usato in quanto tale e non ha assunto come principale la valenza simbolica di quelli che lo hanno preceduto. “Tavolozza e pennello” o “penna e calamaio”, per quanto sostanzialmente superati, hanno creato una tale aura intorno a sé da farli diventare sinonimo di “arte” come un’epifania e sembrare quasi eterni, dimenticando la fatica che originariamente hanno fatto per affermarsi rispetto ai mezzi espressivi precedenti.


Radiazione culturale di fondo

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Non sono passate indenni migliaia di anni in cui l’epoca presente veniva interpretata come decadenza da una mitica Età dell’Oro. È stato così per quasi 10.000 anni, da quando è sorta quella cultura specifica che noi chiamiamo “civiltà” perché all’origine dei nostri insediamenti stabili sempre più estesi e che, finché ha basato la sua economia sull’agricoltura, ha vissuto in diverse forme un senso di peccato originario, un misto di fragilità e desiderio di onnipotenza ogni volta frustrato da quelle stesse divinità a cui si faceva sovrintendere la fertilità dei campi.

Dalla Rivoluzione Industriale in poi a questa radiazione culturale di fondo si è sovrapposta, eclissandola ma non senza mai eliminarla del tutto, una nuova prospettiva di sviluppo e di progresso che ha accelerato dinamica, sensazione e comprensione di quanto definiamo “cambiamento”, presentandolo in termini sempre più positivi, soprattutto come “rivoluzione” (rielaborazione tutta terrena e propulsiva di quanto prima era un tranquillo moto astrale).

Più di due secoli di escalation culturale che hanno rimesso in discussione e ribaltato etiche ed estetiche precedenti. Recuperandole tuttavia come oggetto di studio sempre più approfondito e riconnettendosi in modo critico ad altre epoche, specie a quelle considerate affini nel desiderio di riappropriarsi della tradizione in vista di un cambiamento. E questo proprio perché più aumentava la differenza col passato preindustriale più lo si poteva inquadrare nella sua diversità. Considerata questa grande diversità di base, si possono allora visualizzare e considerare la decisa minoranza di elementi simili, simili soprattutto nella loro immagine generale più che per come sono stati vissuti. La migliore ricostruzione del passato è quella che ci offre la nostra contemporaneità. È una bellissima compassione da cimitero, lo dico senza ironia: equivale alla pietà verso una persona cara che è scomparsa. Nessuno ha mai amato con maggiore disinteresse il passato come noi, meglio, come i nostri migliori studiosi. Amore, comprensione e dialogo per la differenza, che dovrebbero anche essere la cifra diffusa a livello di massa del nostro vivere civile.


La perfetta imperfezione della Democrazia

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Per tornare all’arte, si fa fatica a capire nelle nostre democrazie quanto spesso sia stata negletta nel passato al di là dei contenuti che erano utili al potere. Certo, anche oggi è utile alla democrazia, ma la democrazia, è sempre utile ricordarlo, è migliore di qualsiasi sistema politico del passato - quanto meno degli ultimi diecimila anni – e in questo breve scritto prendo in considerazione solo gli esempi migliori.

Abbiamo recuperato, grazie alla scienza archeologica, civiltà di cui si era persa la memoria, considerandole con grande rispetto e senza le condanne preventive di tutte le altre epoche. Abbiamo cercato di ridare vita all’originale cercando sempre meno di ricostruire in base alle nostre mode. E questo perché la cultura democratica ha quella cura particolare del singolo individuo che coinvolge anche le singole culture e/o civiltà. Ha cura di un’equilibrata e paritaria relazione fra i singoli e quindi è – dovrebbe essere - sempre attenta anche alle correlazioni fra le diverse culture nel presente come fra quelle passate e quelle odierne, sempre in vista di quel futuro migliore promesso dal binomio sviluppo e progresso.

Un equilibrio fragile e sempre messo in discussione, che ha posto in evidenza come mai prima la fragilità di ogni esperienza civile e quindi dell’arte. Altro che “monumentum aere perennius” (“monumento più duraturo del bronzo”) cantato da Orazio: conservare è un duro lavoro, anche quando si tratta di piramidi.


Elogio dei contemporanei

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Divenuti esperti nel confrontarci con le nostre eredità, cerchiamo di conservare i nostri passati proprio grazie a quegli strumenti di cui il passato era privo: le nuove tecnologie. Si tratta di una contraddizione solo apparente perché, tranne occasionali eccezioni, le epoche che ci  hanno preceduto tenevano a presentarsi, in modo esplicito o implicito e a seconda delle diverse condizioni (dalle classi più umili alle élite), con il massimo della tecnologia possibile. Allora come oggi l’abito della festa. Ma le strade per incontrarsi sono tutt’altro che pulite: occorre liberarsi di continuo di tutta una serie di preconcetti che rischiano di impolverare le nostre migliori intenzioni. La polvere delle tradizioni, dopo essere stata inventariata, va rimossa con estrema cautela, come fa un paleontologo con un fossile. Ricerca, conservazione e riproposizione devono essere portati avanti con i migliori strumenti di cui ogni volta si dispone, sia dal punto di vista degli esperti che compiono il lavoro sia del pubblico a cui si rivolgono. Strategia e tecnica di questa restituzione del passato al presente in vista del futuro implicano una più ampia discussione riguardo alla “tecnologia” presa alla radice del suo significato, che è “discorso intorno a progetti, norme e strumenti da usare”.

Quali i modi migliori per ridare vita al passato? Tutti “artificiali”, nel senso migliore del termine, cioè, frutto di un duro lavoro da parte di esseri umani per cercare di immedesimarsi in epoche non vissute in prima persona. Facendo uso della migliore strumentazione presente, spesso inventata per tutt’altri fini, per conservare quanto altra tecnologia, come quasi sempre successo in altre epoche, avrebbe semplicemente eliminato come inconveniente. Pensiamo a quanti affreschi medievali sono stati cancellati con una mano di bianco perché non più compresi dal nostro Rinascimento (ma si potrebbero fare tanti altri esempi in ogni arte). Pensate a tante epoche considerate “decadenti” a fronte delle certezze, tutt’altro che inossidabili, di altre… E noi, tanto vituperati contemporanei, a sudare per far tornare alla luce e a cercare di comprendere tutta la ricchezza di forme un tempo solo motivo di fastidio!


Nuove Tecnologie, nuovo discordo intorno all'arte

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Diciamolo: l’"antico passato" può restare "antico presente" solo grazie all’uso consapevole delle nuove tecnologie.

Che lo proteggono come nipoti nei confronti di avoli e bisavoli. Certo, a volte travisandolo - chi è che non sbaglia e almeno oggi ne siamo coscienti - pensiamo soltanto ai nostri musei con le loro brave luci elettriche fisse come il sole quando tutte quelle opere erano viste tremanti alla luce delle candele. Non è l’unico esempio. Vediamo anche al caso opposto (uno dei tanti), in cui dei capolavori venivano piazzati in una posizione infelice e lasciti lì: i Caravaggio della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, provate a goderveli senza mettere la moneta nella macchina che fa luce.

Oggi (ma è così da più di due secoli), parchi archeologici e monumenti ancora in situ a parte (ma fino a un certo punto, perché anch’essi faticose e mai certe ricostruzioni), abbiamo scelto di salvare il passato dall’antica entropia culturale curandolo in musei, fotografie, cataloghi con foto e documentari in video. Il costo è stato la decontestualizzazione, ma l’abbiamo pagato volentieri cercando di indurre il visitatore - o lo spettatore – a una visione dalla riflessione e dalla fantasia cosciente, aiutati in questo, altro elemento fondamentale, dalla scolarizzazione di massa. È il pubblico che deve rielaborare e immaginare, nei modi prima sperimentati dagli studiosi, come quanto oggi racchiuso dovesse sbocciare e diffondersi, all’aperto o al chiuso, nei periodi della storia o della preistoria presi in considerazione.


Realtà Virtuali in atto

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Oggi c’è a disposizione tutta una “realtà virtuale”, ma in atto a livello planetario, che può rendere ancora più viva l’esperienza estetica del contatto con esistenza e bellezza forgiate da altre epoche storiche. Si tratta di uno strumento o, se vogliamo, di un contenitore nella sua sostanza presente non diverso da quelli ideati da cultura e pensiero astratto (caratteristica di noi Sapiens) nei tempi che ci hanno preceduto (dal recinto sacro al tempio quadrangolare alla chiesa al museo).

Naturalmente, come i musei non hanno soppresso le chiese o i templi, così la realtà virtuale non elimina le forme precedenti di rivisitazione delle nostre eredità culturali, ma si pone in simbiosi potenziando la curiosità, la molla interattiva che ci spinge a confrontarci con quanto abbiamo di fronte, in tutta la sua ricchezza di connessioni fra passati e presenti (il plurale, se parliamo di scienza, è d’obbligo).

E come per l’immaginario del Novecento è stato giusto tradurre lo studio storico in immagini in movimento – esempio classico il documentario in ambito cinematografico e televisivo – così, nella concreta realtà virtuale del XXI secolo, non possiamo che trasporlo anche nel medium espressivo che più le appartiene, cioè, quello del videogame, con le regole date dal “game” e i piaceri insiti nel gioco stesso, il “play” (faccio mia la suddivisione di Umberto Eco nell’introduzione a Homo ludens di Huizinga). Non quindi una semplice successione di fotografie (medium che viaggia verso i duecento anni) o un girovagare per nuovi labirinti deformati, ma una visita capace di mettere in gioco l’esperienza di vita e cultura di esseri umani che, proprio sulla base dell’interazione, prerogativa principe di artisti e studiosi, da semplici spettatori diventano protagonisti della riscoperta di un passato che gli appartiene e di cui, grazie anche alla “realtà aumentata” e a tutta una serie di elementi innovativi caratteristici dei nuovi media, vogliono diventare parte viva - perché è questa la realtà concreta in cui vivono - e quindi attiva, per trasmetterla nel futuro nel modo più efficace possibile.


Metamorfosi della Conservazione (un finale aperto)

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Debora Ferrari, Luca Traini, Neoludica Game Art Gallery

Non dobbiamo quindi stupirci né tanto meno scandalizzarci per questo: ci ritroveremo sempre nel mondo studiato, vissuto e sognato perché torni in forme nuove presenza forte e pregnante contro ogni oblio.

“Riunire, da collezioni pubbliche o private di tutto il mondo, un gran numero di opere di un artista nel corso della sua carriera ci permette di esaminare il suo sviluppo (o l’assenza di questo) con un’accuratezza che né lui né i suoi mecenati potevano permettersi, neanche quando disponevano di stampe tratte dalle sue creazioni principali” (Francis Haskell, La nascita delle mostre, Skira, 2008).

Haskell scriveva della nascita delle antologiche, di nuovi punti di vista d’insieme sulla storia e sull’arte mai sperimentati prima e portati avanti con metodo. Parla di stampe, altro medium relativamente recente, figlio della rivoluzione del libro a stampa, più fragile della tela o della tavola originale come un libro stampato rispetto alla pergamena. La modernità – e quindi la modernità del passato – è sempre a rischio. Sta a noi proteggerla con modalità sempre aggiornate.

Perfetta dunque in senso letterale – e soprattutto umano - è questa imperfezione di base, forse rispetto alla vita invincibile (forse quella degli archeobatteri), questa specie di insoddisfazione e fame inestinguibile di vivere nelle forme più diverse che sappiamo ci appartiene e ha generato quelle inesauribili metamorfosi che chiamiamo “arte”.

Luca Traini

lucatraini.blogspot.com/p/arte.

sabato 1 maggio 2021

EVITARE IL NAUFRAGIO B. Traven, “La nave morta” vive

Nome dell’autore: inventato. Nave: “Un punto immaginario sulle onde”. Destinazione del viaggio, scopo, merceologia: tutto falso. Perché dovrà affondare. Perché è una “nave bara”, sovrassicurata (brutto aggettivo, paradosso feroce). Di vero, solo la fatica disumana dei marinai, con o senza nome, comunque inutile perché privi o privati di ogni documento. Né morti né dispersi, a livello ufficiale.

Ma il finale è sublime. Le restanti 383 pagine, capolavoro.

Non si esce indenni da La nave morta: scrittore, personaggi, lettori.

“Chiamatemi Ismalele”. Chiamatelo Gerard Gales: è il protagonista del libro.

E lo scrittore - tra le pagine riaffiorano resti di autobiografia, schegge di paratie taglienti -  come si chiamava l’autore? Bruno Traven? Berick Traven Torsvan o Traven Torsvan Croves? Linn Gale? Otto Feige? Ret Marut?

Forse Ret Marut, anarchico arrestato dopo il tragico Primo Maggio 1919, quando fu soffocata nel sangue la Repubblica Bavarese dei Consigli. Parola del poeta e pacifista anche lui anarchico Erich Mühsam, uno dei leader della rivoluzione scoppiata a Monaco: l’aveva conosciuto come giornalista, ne avrebbe riconosciuto lo stile nei romanzi pubblicati anni dopo.

Il primo, I raccoglitori di cotone, ironia della storia, pubblicato a puntate su Vorwärts, quotidiano della SPD.

Allora potrebbe essere che Traven fosse invece Otto Feige, nato in una città tedesca oggi polacca e con altro nome, eletto capo del sindacato metalmeccanici a Gelsenkirchen nel 1906.

O tutti e due la stessa persona, che da Otto passa a Ret, finisce in Inghilterra nel ‘24 e dichiara al consolato degli Stati Uniti di essere cittadino americano, come l’alter ego Gerard Gales, nato a San Francisco nel 1882, ma senza documenti (e senza essere creduto).

In ogni caso, in questo mare di identità diverse, navighiamo sempre intorno a un arcipelago di personalità che ha come orizzonte di riferimento diversi assalti al cielo della sinistra dell’epoca - anarchici, socialisti o comunisti - reduce dagli orrori sulla terra della prima guerra mondiale (la trincea del pittore socialdemocratico Hans Balushek vale per tutti).

Poi è La nave morta, dato agli stampatori nel ‘26, ultimo fatale rifugio di chi è rimasto privo di ogni sorta di certificato, privato di ogni identità e del diritto a una vita normale, specie se ha combattuto una “normalità” insopportabile, scacciato da tutte le polizie di ogni genere di frontiera.

Le piaghe dei nuovi confini postbellici stanno ai vecchi punti di sutura purulenti della geopolitica europea. Dalle pagine rilegate di Traven si libera come un presagio che va oltre la momentanea ripresa economica di quegli anni, evoca le crisi post ’29, la terribile normalizzazione degli anni ’30 - fra nazismo e purghe staliniane - fino ai nuovi grandi orrori della seconda guerra mondiale.

Terra, sangue e ideologie sanguinarie che tarpano le ali, dove le apparenti vie di fuga sono due navi, nel libro, due carrette del mare già ridotte allo stremo, specchio una dell’altra della tragedia che portano dentro. La prima, la Yorikke, forse ispirata al teschio del buffone di Amleto, Shakespeare: “Compagno di infinito scherzo, di eccellente fantasia; mi ha portato sulla schiena mille volte; e ora, com'è aborrito nella mia immaginazione!”. La seconda, Empress of Madagascar, porta impresso il destino di quel regno africano.

Storia di Ulisse proletari senza Itaca. Bruciati dalla sconfitta non rinunciano a lottare. Come il loro Nessuno, lo scrittore sotto falso nome approdato – forse già l’estate del ’24 – in Messico, dove la rivoluzione aveva vinto (anche se gli equilibri restavano precari).

Per tornare nel ventre di quelle carcasse, dove il lavoro è sotto il livello del mare, le acque già sopra, come il cielo, una valvola di sfogo concessa poche volte agli occhi, quando riescono a emergere dall’“inferno pieno di fumo, illuminato da lampi di fiamme rossastre”. Forma e contenuto saldati nel romanzo come una pala di ferro per il carbone. Tre caldaie sempre accese, ognuna con tre forni da alimentare e da liberare dalla cenere. E il fuoco sale alto, oltre il ponte: “Vedevo solo onde che rotolavano da un orizzonte all’altro, come un’eternità in movimento”.

C’è acqua o eternità a sufficienza per dare sollievo alle ferite della Storia? Bruciava il ricordo della Rivolta della frusta (1910) - la vittoria effimera degli afroamericani della marina militare brasiliana in rivolta contro le stesse punizioni dell’epoca del Bounty (e ne hanno fatto un cioccolato!) - l’ammutinamento di Kiel (1918), con tutti quei ragazzi fucilati dal Secondo Reich, martiri di una repubblica che li avrebbe traditi.

Realismo visionario, dove l’orizzonte della visione è il vero.

Tutto vero anche oggi il dolore, la morte non letteraria fianco a fianco di chi non è neppure marinaio,  costretto ad attraversare il mare verso le suture, le piaghe delle frontiere, l’Europa. E ancora marinai, ancora senza paese, senza nome - il vento batte e strappa le bandiere che vuole - e quei cargo cercano ancora di attraversare gli oceani.

Luca Traini