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sabato 1 maggio 2021

EVITARE IL NAUFRAGIO B. Traven, “La nave morta” vive

Nome dell’autore: inventato. Nave: “Un punto immaginario sulle onde”. Destinazione del viaggio, scopo, merceologia: tutto falso. Perché dovrà affondare. Perché è una “nave bara”, sovrassicurata (brutto aggettivo, paradosso feroce). Di vero, solo la fatica disumana dei marinai, con o senza nome, comunque inutile perché privi o privati di ogni documento. Né morti né dispersi, a livello ufficiale.

Ma il finale è sublime. Le restanti 383 pagine, capolavoro.

Non si esce indenni da La nave morta: scrittore, personaggi, lettori.

“Chiamatemi Ismalele”. Chiamatelo Gerard Gales: è il protagonista del libro.

E lo scrittore - tra le pagine riaffiorano resti di autobiografia, schegge di paratie taglienti -  come si chiamava l’autore? Bruno Traven? Berick Traven Torsvan o Traven Torsvan Croves? Linn Gale? Otto Feige? Ret Marut?

Forse Ret Marut, anarchico arrestato dopo il tragico Primo Maggio 1919, quando fu soffocata nel sangue la Repubblica Bavarese dei Consigli. Parola del poeta e pacifista anche lui anarchico Erich Mühsam, uno dei leader della rivoluzione scoppiata a Monaco: l’aveva conosciuto come giornalista, ne avrebbe riconosciuto lo stile nei romanzi pubblicati anni dopo.

Il primo, I raccoglitori di cotone, ironia della storia, pubblicato a puntate su Vorwärts, quotidiano della SPD.

Allora potrebbe essere che Traven fosse invece Otto Feige, nato in una città tedesca oggi polacca e con altro nome, eletto capo del sindacato metalmeccanici a Gelsenkirchen nel 1906.

O tutti e due la stessa persona, che da Otto passa a Ret, finisce in Inghilterra nel ‘24 e dichiara al consolato degli Stati Uniti di essere cittadino americano, come l’alter ego Gerard Gales, nato a San Francisco nel 1882, ma senza documenti (e senza essere creduto).

In ogni caso, in questo mare di identità diverse, navighiamo sempre intorno a un arcipelago di personalità che ha come orizzonte di riferimento diversi assalti al cielo della sinistra dell’epoca - anarchici, socialisti o comunisti - reduce dagli orrori sulla terra della prima guerra mondiale (la trincea del pittore socialdemocratico Hans Balushek vale per tutti).

Poi è La nave morta, dato agli stampatori nel ‘26, ultimo fatale rifugio di chi è rimasto privo di ogni sorta di certificato, privato di ogni identità e del diritto a una vita normale, specie se ha combattuto una “normalità” insopportabile, scacciato da tutte le polizie di ogni genere di frontiera.

Le piaghe dei nuovi confini postbellici stanno ai vecchi punti di sutura purulenti della geopolitica europea. Dalle pagine rilegate di Traven si libera come un presagio che va oltre la momentanea ripresa economica di quegli anni, evoca le crisi post ’29, la terribile normalizzazione degli anni ’30 - fra nazismo e purghe staliniane - fino ai nuovi grandi orrori della seconda guerra mondiale.

Terra, sangue e ideologie sanguinarie che tarpano le ali, dove le apparenti vie di fuga sono due navi, nel libro, due carrette del mare già ridotte allo stremo, specchio una dell’altra della tragedia che portano dentro. La prima, la Yorikke, forse ispirata al teschio del buffone di Amleto, Shakespeare: “Compagno di infinito scherzo, di eccellente fantasia; mi ha portato sulla schiena mille volte; e ora, com'è aborrito nella mia immaginazione!”. La seconda, Empress of Madagascar, porta impresso il destino di quel regno africano.

Storia di Ulisse proletari senza Itaca. Bruciati dalla sconfitta non rinunciano a lottare. Come il loro Nessuno, lo scrittore sotto falso nome approdato – forse già l’estate del ’24 – in Messico, dove la rivoluzione aveva vinto (anche se gli equilibri restavano precari).

Per tornare nel ventre di quelle carcasse, dove il lavoro è sotto il livello del mare, le acque già sopra, come il cielo, una valvola di sfogo concessa poche volte agli occhi, quando riescono a emergere dall’“inferno pieno di fumo, illuminato da lampi di fiamme rossastre”. Forma e contenuto saldati nel romanzo come una pala di ferro per il carbone. Tre caldaie sempre accese, ognuna con tre forni da alimentare e da liberare dalla cenere. E il fuoco sale alto, oltre il ponte: “Vedevo solo onde che rotolavano da un orizzonte all’altro, come un’eternità in movimento”.

C’è acqua o eternità a sufficienza per dare sollievo alle ferite della Storia? Bruciava il ricordo della Rivolta della frusta (1910) - la vittoria effimera degli afroamericani della marina militare brasiliana in rivolta contro le stesse punizioni dell’epoca del Bounty (e ne hanno fatto un cioccolato!) - l’ammutinamento di Kiel (1918), con tutti quei ragazzi fucilati dal Secondo Reich, martiri di una repubblica che li avrebbe traditi.

Realismo visionario, dove l’orizzonte della visione è il vero.

Tutto vero anche oggi il dolore, la morte non letteraria fianco a fianco di chi non è neppure marinaio,  costretto ad attraversare il mare verso le suture, le piaghe delle frontiere, l’Europa. E ancora marinai, ancora senza paese, senza nome - il vento batte e strappa le bandiere che vuole - e quei cargo cercano ancora di attraversare gli oceani.

Luca Traini

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