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mercoledì 1 marzo 2023

ELIODORO, "LE ETIOPICHE"

Amore e geopolitica in un romanzo ai confini di un’epoca
 
Ho letto "Le Etiopiche” di Eliodoro. […] La storia viene abbellita dall’inserimento nel filo del racconto di eventi attesi 
e di colpi di scena, nonché da inopinati salvataggi dalla sventura, il tutto espresso in un linguaggio limpido e puro.
Fozio, Biblioteca

Amore, esotismo, peripezie: tutto a lieto fine. Gli ingredienti fondamentali per un bestseller di successo non sembrano cambiare mai. E sono bene o male gli stessi che caratterizzano quasi tutti i pochi romanzi ellenistici sopravvissuti (altro happy end).

Diverso il discorso per i pochissimi latini (specie se consideriamo il Satyricon), di qualità anche superiore (parliamo di autori come Petronio e Apuleio).

In ambito greco l’unico capolavoro è la mia amata Storia vera del grande Luciano di Samosata, uno dei primi romanzi di fantascienza mai scritti (con tanto di Star Wars fra Seleniti ed Elioti armati di Caulomiceti e Psyllotoxoti), in parte probabilmente splendida parodia del perduto Le incredibili meraviglie al di là di Thule di Antonio Diogene, opera tanto enigmatica quanto ricca di reminiscenze pitagoriche - al contrario del ben più laico e ironico Luciano - e per questo cara a neoplatonici come Giamblico e Damascio (parola di Fozio, Biblioteca, 111b).

Ancora più complessa la stratificazione del Romanzo di Alessandro dello Pseudo Callistene, dalla data di origine altrettanto ignota e perennemente in fieri fra antichità e medioevo, di cui ho già scritto poiché all’origine della mia avventura come curatore d’arte di Neoludica.

Ma torniamo a Eliodoro, la cui opera sta per qualità a metà strada fra Luciano e gli altri romanzieri (per comodità li trovate tutti in Wikipedia). La storia d’amore dei naturalmente bellissimi Cariclea, figlia del re d’Etiopia, e Teagene, discendente di Achille, ambientata ai primordi dell’età classica nell’Egitto sotto la dominazione persiana, viene recensita con affetto nella Biblioteca di Fozio - da bravo bizantino sempre attento a quanto riguardava il regno africano, ormai nel IX secolo cristianizzato da mezzo millennio e potenziale alleato prima contro i Persiani e poi gli Arabi - quindi, riscoperta in Occidente durante l’Umanesimo, diventa fonte di ispirazione per scrittori del calibro di Tasso e Cervantes. Senza contare gli influssi sulla letteratura francese del Seicento e su quella inglese di epoca elisabettiana, in questo caso grazie alla traduzione della versione latina del gesuita polacco Stanislaw Warszewicki (le ironie della Storia qui si sprecano).

In Biblioteca con Fozio, in Etiopia con Nonnoso https://lucatraini.blogspot.com/p/letture.html

La cosa che subito stupisce noi moderni è la formidabile capacità “cinematografica” di Eliodoro - e stupisce sia me che l’ottimo curatore dell’opera per la UTET, Aristide Colonna, che non ne abbiano ancora fatto un film - quella maestria descrittiva nella panoramica che, per quanto mi riguarda, collego a un maestro contemporaneo del  genere come il bulgaro Anton Donchev, non a caso anche sceneggiatore, e al suo Manol e i suoi cento fratelli (dei molti pregi - e di alcuni difetti nazionalisti, preludio delle successive politiche dell’era Živkov - di quest’opera, pubblicata nel 1964 e subito tradotta non a caso da Longanesi, parlerò in un prossimo post).

Basta solo leggere l’inizio delle Etiopiche: “Stava appena sorgendo una ridente giornata e il sole illuminava con i suoi raggi le cime dei monti, quando degli uomini, armati da predoni, affacciandosi al di sopra dell’altura che si estende presso le foci del Nilo e la bocca chiamata Eracleotica, si fermarono un momento e percorsero con lo sguardo il mare sottostante E rivolti dapprima gli occhi al mare aperto, constatando che, privo di navi, non offriva loro nessuna preda, si fermarono a guardare la spiaggia circostante. C’era lì ormeggiata una nave da carico, priva di uomini, ma con tutto il suo carico; questo lo si poteva notare anche da lontano, perché il peso faceva salire l’acqua fino alla terza cintura della fiancata. La spiaggia poi era tutto un groviglio di corpi umani trucidati da poco: alcuni erano davvero morti, altri invece agonizzavano; inoltre era piena di membra che ancora guizzavano e che indicavano che la battaglia era appena finita. E le tracce che si potevano scorgere non erano quelle di una regolare battaglia, ma si potevano vedere, mescolati, i miseri resti di uno sfortunato banchetto, terminato tragicamente. Infatti c’erano tavole ancora cariche di cibi, alcune strette fra le mani di quelli che giacevano a terra, i quali se ne erano serviti come armi durante lo scontro. […] Poco lontano dalla nave e dai caduti si presentò loro uno spettacolo ancor più misterioso dei precedenti. Una ragazza stava seduta su un masso, bella di una bellezza incredibile e tale che avrebbe potuto essere presa per una dea. […] Con lo sguardo fisso in giù, il viso immobile, contemplava un giovane che giaceva ai suoi piedi. Questi appariva deturpato dalle ferite ricevute e sembrava riemergere da un sonno profondo, simile a quello della morte; ciononostante, risplendeva ancora di una virile bellezza”.

Eccoli i protagonisti, due statue pronte a prendere vita in testo e contesto la cui dinamica inizia “in medias res” (a metà dell’azione) come i poemi di Omero, ritenuto dall’autore - altro elemento singolare - egizio. In una serie di avventure ambientate solo nel finale in Etiopia e per il resto, tranne una lunga parentesi a Delfi, proprio in Egitto, terra di mistero, saggezza e occulto per eccellenza fin dai tempi della Grecia arcaica, come esplicitato da Eliodoro nel secondo libro del romanzo: “Per un greco le leggende e le storie egiziane sono le più affascinanti di tutte” (II, 27).

Altra stranezza: la protagonista, Cariclea, pur essendo figlia della coppia regnante etiope e abbandonata nella culla stile Mosè, non è nera, ma di carnagione chiara. Non si tratta di razzismo, perché l’antichità non conosceva questa sciagurata ideologia sorta dal colonialismo in età moderna, ma guardava i diversi coloriti delle carnagioni come semplici curiosità e trattava da pari a pari con i regni “etiopi” di Meroe prima e di Axum poi. Il problema è un altro: la credenza, giunta a livello popolare fino in epoche neanche tanto lontane, che quanto visto da una donna incinta potesse influenzare nel fisico la creatura - e non uso a caso questo termine - che aveva in grembo. Per quello riguarda la regina Persinna il candore epidermico della figlia era dovuto al fatto che aveva contemplato a lungo un dipinto che raffigurava il mito greco di Perseo che libera Andromeda (con tutti i simboli misterici annessi all’omonima Costellazione). Potere magico delle immagini: nel racconto mitologico la stessa Andromeda era già figlia di una coppia regnante etiope (una di quelle possibili esemplificazioni delle radici afroasiatiche della civiltà ellenica del sempre affascinante Atena nera di Martin Bernal) e - per tutta una serie di motivi cui rimando alla lettura de Le relazioni dei Greci con Kush e Axum di S. M. Burstein in STORIA EINAUDI DEI GRECI E DEI ROMANI I Greci oltre la Grecia - fin dalle origini anche lei di colorito chiaro (sempre che non fosse albina o caratterizzata da rutilismo, come il faraone Ramses II).

Fatto sta che nelle Metamorfosi di Ovidio (IV, 663-752) Perseo la crede inizialmente una statua di marmo e Filostrato Maggiore nel sue Immagini (di cui abbiamo già parlato) descrive un quadro sul tema che avrebbe potuto benissimo trovarsi nella reggia di Meroe: “Questo non è il Mar Rosso, né questi sono gli Indi. Sono gli Etiopi, un uomo greco in Etiopia e la lotta che di sua volontà osò affrontare per amore. […] Perseo, che - dicono – abbia ucciso un mostro dell’Atlantico che in Etiopia aggrediva le greggi e gli uomini. Il pittore apprezza questa storia e compiange Andromeda poiché è stata consegnata al mostro; ora il combattimento è già compiuto: il mostro è stato gettato sulla spiaggia e la inonda di rivoli di sangue che rendono il mare scarlatto. Eros però libera Andromeda dai legacci: è dipinto alato come al solito, ma contrariamente alla regola, con l’aspetto di un giovinetto, ansimante e ancora affaticato. […] La fanciulla è graziosa poiché è una bianca in Etiopia. […] Ci sono anche molti pastori che offrono latte e vino da bere, Etiopi, graziosi, con quel loro strano colore e quel sorriso fiero, visibilmente felici. Perseo, apprezzando questi doni, si appoggia sul gomito sinistro, solleva il torace gonfio d’aria guardando verso la fanciulla e lascia al vento il suo mantello purpureo.” (Filostrato Maggiore, Immagini, trad. Letizia Abbondanza, Nino Aragno Editore, 2008). Ulteriore conferma l’affresco della Casa dei Dioscuri a Pompei, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Ma soffermiamoci proprio su Filostrato, che scrive nella prima metà del III secolo, in piena epoca della dinastia dei Severi. È un dettaglio non indifferente, perché proprio uno degli imperatori più enigmatici di questo periodo, Eliogabalo, era sacerdote del dio Sole (El-Gabal) di Emesa in Siria. E proprio Eliodoro nelle due ultime righe a firma del romanzo si definisce “un Fenicio di Emesa, della stirpe di Helios, figlio di Teodosio”. Questo ha portato inizialmente non pochi studiosi, tra cui Erwin Rohde, amico di Nietzsche, a collocare autore e romanzo proprio alla metà del III secolo, in piena temperie della Seconda Sofistica. Dalla metà del XX secolo, tuttavia, a partire da un importante saggio breve di Marchinus van der Valk del 1940 (con successivi approfondimenti dello stesso Aristide Colonna), si è cominciata a spostare la datazione verso la fine del IV secolo, sia perché certe operazioni militari descritte nel romanzo sembrano prendere spunto da testi di Giuliano l’Apostata (imperatore dal 360 al 363), sia perché lo storico della Chiesa Socrate Scolastico (attivo nella prima metà del V secolo) nella sua Historia Ecclesiastica parla di un Eliodoro, promotore del celibato sacerdotale nella regione greca della Tessaglia ai tempi dell’imperatore Teodosio, “divenuto vescovo della città di Tricca, di cui si tramanda un’opera, una storia d’amore, che compose quando era giovane e a cui assegnò il titolo di Etiopiche”. Un romanzo già ossessionato dall’ideale di castità propagandato dalle filosofie “pagane” neoplatoniche e neopitagoriche e per questo privo di qualsiasi riferimento alle pratiche omosessuali dell’antichità greco-romana presenti nei testi di simile struttura che l’avevano preceduto, quindi riferimento privilegiato per l'ortodossia cristiana della cultura bizantina e per il Rinascimento, specie nella sua appendice controriformista.

Un altro elemento che, a mio parere, rende questo testo affascinante figlio di quell’epoca terminale di struttura e sovrastruttura sociale e culturale dell’antichità “classica” è anche la connessione fra Omero e la dimensione misterica ormai assunta della cultura egizia (ne ho parlato rispetto ad Assassin’s Creed Origins nel 2017, prendendo spunto dal fondamentale lavoro di Jan Assmann, Sapienza e mistero. L’immagine greca della cultura egiziana, in STORIA EINAUDI DEI GRECI E DEI ROMANI I Greci oltre la Grecia). Se Eliodoro scrive “Omero, che era egiziano ed era stato istruito nella sacra dottrina […] e l’ha espressa simbolicamente nei suoi versi” (III, 13), chiaramente parliamo di un’interpretazione oggi inaccettabile e antistorica, ma fra IV e V secolo - ne ho già scritto per L’antro delle ninfe del neoplatonico Porfirio,

ma si può benissimo far riferimento anche ai noiosissimi, ma fondanti, Misteri dell’Egitto di Giamblico, punto d’incontro fra neopitagorismo e neoplatonici (e tutti e due i filosofi sono di origine fenicio-siriaca) - di grande vulgata fra gli intellettuali dell’epoca. E tra questi rientra certamente il Nostro, per nulla superficiale, che, stile il Lucrezio del De rerum natura, nelle quinte del suo romanzo, dietro il miele della storia d’amore, celava il responso amaro della fine di un intero, cruciale periodo storico. Fine a cui avrebbe cercato di rispondere con l’unica etica che si era venuta strutturando in modo concreto e diffuso come alternativa per il futuro: il cristianesimo. Le peripezie amorose delle Etiopiche preludevano in un certo senso a quelle mistiche, sempre di ambito egizio (il deserto della Tebaide), narrate pochi decenni dopo da Palladio di Galazia nella Storia Lausiaca.

Eliodoro è anche un finissimo cesellatore dei segni della passione. Amore che pervade le fibre dei corpi ancora tutto pagano, ma già manifestazione di quella predominanza dell’anima che caratterizza la perdita di fisicità della presenza storica. Un ottimo esempio è il primo incontro di sguardi - “Preferiamo la vista a tutto” scriveva Aristotele nella sua Metafisica, titolo e termine tecnico che ormai aveva acquisito il senso trascendente che tutti conosciamo - fra Cariclea e Teagene a Delfi: “Appena si videro, i due giovani si amarono, come se la loro anima avesse riconosciuto fin dal primo incontro l’anima gemella e si fosse lanciata verso ciò che era degno di lei. Dapprima rimasero immobili, colpiti da un improvviso stupore, poi lentamente lei gli tese la fiaccola e lui la prese. A lungo si fissarono negli occhi, come se cercassero di ricordare se si fossero già visti o conosciuti da qualche parte; quindi accennarono a un sorriso rapido e furtivo, svelato soltanto da un lampo dello sguardo.” (III, 5).

Dietro c’è chiaramente la lezione di Euripide - e il Nostro aveva letto a dovere tragici e commediografi tanto da usare spesso similitudini che si richiamano al teatro - arricchita da tutta una serie di letture che spaziano fino al IV secolo e da una notevole capacità, sia quantitativa che qualitativa, di creare nuove parole, termini originali di cui non troviamo riscontro negli autori precedenti.

Domina il piacere di raccontare e di inserire racconti nei racconti (a volte mi ha ricordato il caro Jan Potocki), finché la matassa non si sbroglia nel finale alla corte di Meroe dove, tra mille peripezie e altrettanti riconoscimenti, l’eroina e l’eroe possono finalmente sposarsi e diventare sacerdoti rispettivamente della Luna e del Sole (questa in armonia, contrariamente alle "guerre stellari" di Luciano).

L’autore - che quindi non a caso si definisce “della stirpe di Helios”, del Sole - può mettere la parola fine al suo romanzo con i “dei ex machina” teatrali da lui preferiti. Fra gli applausi del grande pubblico degli Etiopi e dei loro saggi gimnosofisti - che avrebbero dovuto trovarsi in India (come ho scritto nel mio dramma su Plotino), ma nell'antichità potevano essere tranquillamente spostati in un altro luogo favoloso come l’Africa interna - il re Idaspe abolisce anche i sacrifici umani

Lo stesso monarca che, nel Libro IX del testo, aveva appena sconfitto i Persiani assediando la città strategica di Siene (l’odierna Assuan), è ora un prezioso - e purificato - precedente per giustificare quella politica anti Sasanide che unisce imperatori romani pagani e cristiani nel cercare l’alleanza prima con Meroe e poi con Axum.

Romanzo d’amore raffinatissimo, certamente filosofico, probabilmente anche politico, di uno scrittore siriaco diventato vescovo nella Tessaglia dove il mito aveva posto il regno di Achille.
Non mancano certo i motivi per rileggere ancora una volta Le Etiopiche.

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