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domenica 31 marzo 2024

LODOVICO POGLIAGHI (1857-1950) E LE SUE ANTICHE CREATURE

Commento musicale  G. Martucci, Notturno (dir. Arturo Toscanini, 1938)
 

Casa Museo Lodovico Pogliaghi in cima al Sacro Monte di Varese, patrimonio dell’UNESCO: la dolcezza del tramonto lombardo fa quasi dimenticare il freddo che scende su questi ariosi contrafforti della Controriforma.

Doveva finire qui lo scultore della porta maggiore del Duomo di Milano, concepita durante le aperture di Leone XIII e collocata in piena chiusura antimodernista sotto Pio X. Nella sua giovinezza, lontano ricordo, i primi importanti lavori portati a compimento proprio nel Comasco. In qualità di pittore e nel segno della Vergine per la chiesa parrocchiale di Solzago (1878) e per quella di San Donnino a Como (1885). Sulle orme dell’amato Benvenuto Cellini  il crocefisso e i candelabri per il Duomo del capoluogo (1886).

La villa, cioè il museo (cosa che era già in vita l’artista), è un coacervo di stili che riassumono il lato ombroso della Belle Époque. Qui abitava un sognatore raccolto in contemplazione sincretica, ma ordinata. Una tradizione figurativa sentita ancora come viva quando già morta e sepolta. E riportata in vita con quella specie di spiritismo scientifico tipico dell’epoca.

Teurgia di bronzo la porta del Duomo, di cui resta la monumentale anima di gesso nella parete di fondo del grande salone-studio.

Prima: una finestra di alabastro. Perché qui, tranne qualche apertura su panorami struggenti, lo sguardo è introverso: il passato ha fatto sua questa casa, che non era né sarà mai contemporanea.

Sarcofagi egizi, vasi cinesi, greci, statue romane, frammenti, suture di un sogno.

Due tele del Magnasco da intravedere alla luce tremante delle candele, alcuni caravaggeschi. E tappeti, tappeti enormi, come puzzle intessuti del Grande Gioco euroasiatico.

Una testa di Dioniso e una di Mercurio reinnestate su copie romane acefale di originali greci.

Tutto l’insieme è di un’armonia commovente: la spinta al grandioso, esausta, si raccoglie in un intimo definitivo silenzio.

“Illuminato, immemore e fiorito come un quieto camposanto. Il tempo non s’era limitato a disfare antiche creature: vi aveva reso possibili, vi aveva creato raggruppamenti nuovi.” (Marcel Proust, Il tempo ritrovato).

[…]

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venerdì 29 marzo 2024

LE “MEMORIE” DI PHILIPPE DE COMMYNES Ricordi, dubbi, rimpianti

"Una grandissima efficacia di rappresentazione.
Personaggi e paesi sono colti sul vivo o con pochi tratti essenziali e
caratteristici che li rendono indimenticabili. Par di vedere sul volto,
solitamente grave del nostro autore, un finissimo sorriso che è già
un po' quello dello humour. Come Erasmo, Commynes conosce gli
uomini e compatisce le loro follie con discrezione e indulgenza"
Maria Clotilde Daviso di Charvensod

 
Ricordi, dubbi, rimpianti
Commento musicale Antoine BrumelSicut lilium

La Storia si fa coi “se” e i “ma” se sono i protagonisti a farla. E Philippe de Commynes lo fu ai più alti livelli, ministro e consigliere privato di sovrani in due grandi corti della seconda metà del XV secolo, prima in Borgogna e poi in Francia, dove si decidevano i destini dell’Europa nell“autunno del medioevo” (secondo la felice definizione di Huizinga). I suoi ricordi, i suoi dubbi, i rimpianti nei suoi Mémoires: seCarlo il Temerario non si fosse ostinato contro gli Svizzeri, se Luigi XI non si fosse accanito contro Maria di Borgogna, se Carlo VIII non avesse sperperato una fortuna per la sua calata in Italia…
Tutti quei soldi, tutti quei morti.
E forse non li avrebbe scritti se non invitato da Angelo Catone, arcivescovo di Vienne, cui dedicò l'opera. Il vescovo era un umanista, lui no, il passato lo aveva rispolverato dopo essere caduto per la prima volta in disgrazia, nel 1489, ma era il presente che aveva contribuito a costruire che avrebbe raccontato nel suo francese non troppo curato ma vivo, come bozza per una possibile messa in scena di altri, magari in latino, ma cosciente che dietro quella finzione ci sarebbero state le sue quinte, dove la storia che pulsa è fatta anche di giri di parole, di ripetizioni, di smemoratezze volute o impreviste. Non c’è traccia di idealizzazione nel racconto di questo uomo, di questo ministro e diplomatico razionale che ci ricorda il Guicciardini, pragmatico e costruttivo, che volle raccontare soprattutto quanto aveva vissuto in prima persona: il lento lavoro che prelude alle decisioni ponderate come ai compromessi e le improvvise accelerazioni imposte dagli eventi (dalle soluzioni geniali o da apparente follia).


Sconvolgimenti epocali

Sotto gli occhi vigili, prudenti e spesso spaventati di un memorialista che non si fa pudore di ammettere la paura come uno dei fattori determinanti dell’azione politica, nella fattispecie militare, viene passata in rassegna, senza ombra di retorica, un’età feroce e spregiudicata caratterizzata da mutamenti imprevisti, sconvolgimenti epocali. Nelle sue pagine non troviamo ancora descritti quegli elementi strutturali economici, politici e sociali, cardine del mutamento storico, fatti propri dalla nostra storiografia nell’ultimo secolo. Duchi e re sembrano ancora decidere i destini dei propri popoli e le memorie di un ministro avrebbero dovuto educarli alla giusta misura delle proprie azioni.
Ecco, in questo Commynes è in un certo senso anche umanista, quando rispolvera il suo Tito Livio di base, così diverso da quello del Machiavelli, e il punto di vista vincente di un imperatore elogiato per la sua tradizionale “misura” come Ottaviano Augusto. E visto che si parla di Machiavelli c’è da chiedersi come mai la teorizzazione del memorialista francese sia così scarsa a confronto di quanto espresso dallo scrittore de Il principe. La risposta, in sintesi, è semplice: le teorie rivoluzionarie, di norma, nascono dalle sconfitte mentre la prassi del regno francese era stata vincente, per meriti come per fortunate circostanze. Squadra che vince non si cambia e Commynes aveva assistito, dopo il disfacimento della potenza inglese sconvolta dalla Guerra delle Due Rose (1455), al tracollo improvviso e imprevisto del Ducato di Borgogna (1477), che sembrava destinato a sostituire come superpotenza continentale sia la Francia, reduce dagli incubi della prima metà del ‘400, che il Sacro Romano Impero germanico (in crisi da secoli). Il suo Dio, che ogni tanto compare fra le righe senza miracoli ma armato di legge implacabile (e imprevedibile), sembrava proprio parlare francese. Il rischio paventato, quella superbia che aveva travolto Inghilterra e Borgogna.


Gabbie di ferro e cannoni

Un “peccato” compiuto da Carlo VIII nella sua impresa italiana, che vide Commynes, consigliere poco ascoltato, decisamente contrario al tentativo di riconquista francese del Regno di Napoli. Lo storico conosceva bene la nostra penisola, era stato in missione a Firenze nel 1478, dove aveva avuto occasione di conoscere e stimare Lorenzo de’ Medici: sapeva quale razza di pericoloso intrico si nascondesse dietro il fragile equilibrio sorto dalla Pace di Lodi. D’altro canto qualche “peccato” l’aveva compiuto pure lui, tramando contro il giovane Carlo VIII  e finendo rinchiuso otto mesi, nel 1487, in una gabbia di ferro nel titanico castello di Loches (vi finirà prigioniero i suoi giorni anche Ludovico il Moro nel 1508, non in gabbia ma nel torrione), con tanto di confisca di un quarto dei beni. Riabilitato, viene spedito come ambasciatore a Venezia nel biennio 1494/95 per assicurasi la neutralità della Serenissima: "Io tardai qualche giorno a partire perché il re ebbe il vaiolo e fu per morire; gli venne la febbre, ma non durò che sei o sette giorni... Lasciai il re ad Asti e credevo fermamente che non sarebbe andato più oltre. In sei giorni giunsi a Venezia con muli e carri, poiché la strada era la più bella del mondo." (Mémoires VII, 7). Da questo punto di vista privilegiato analizzerà il formidabile - e inaspettato - successo della discesa in Italia delle truppe francesi: "Dappertutto in Italia non avrebbero avuto altro desiderio che ribellarsi, se le cose del re fossero state condotte bene, con ordine e senza ruberie." (Mémoires VII, 8). E Venezia resterà nel suo cuore per la bellezza e il sistema di governo, una repubblica aristocratica che, insieme al parlamento inglese, darà le ali al suo sogno, mai realizzato, di una monarchia affiancata da un forte potere assembleare della nobiltà. La borghesia e, tanto meno, il popolo minuto non rientravano nei disegni di questo signorotto di provincia assurto ai più alti onori, non è possibile chiedergli tanto. In compenso la sua descrizione di Venezia ispirerà molto l’immaginario francese fino a Proust e ad Assassin’s Creed II.
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venerdì 22 marzo 2024

POESIE PER IMMAGINI: LUCA TRAINI SU INSTAGRAM (lucatraini66)


Cercavo immagini per la dimensione ancestrale e allusiva della parola e le ho trovate usando la tecnologia più recente: contraddizione che amo.
L’immagine mi serve per la poesia, che è il titolo.
Nella pubblicazione il titolo dopo l’immagine virtuale.
Tutto impalpabile e concreto, come lo scatto, la parola.
L’onda sonora trapassa in quella visibile della luce.
La materia affiora nel silenzio: è lì, è altrove.
Dove sono io.


Foto scelte da sinistra verso destra dall’alto:
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venerdì 15 marzo 2024

MUSICA, CINEMA E MUSICISTI A CONFRONTO Händel_Domenico Scarlatti, Charlie Parker_Buster Smith, Jimi Hendrix_Eric Clapton

In primis la gara di virtuosismi organizzata dal cardinale Ruspoli a Roma in Palazzo Ottoboni fra i giovani Händel e Domenico Scarlatti, in quel meraviglioso sceneggiato tv God Rot Tunbridge Wells! che mi è rimasto nel cuore anche se passato in RAI più di 30 anni fa. 
Certo l’incontro è un po’ romanzato - la sfida in realtà fu doppia, su clavicembalo (dove ai punti vinse l’italiano) e organo (dove ebbe la meglio il tedesco) - ma ogni volta che lo vedo su YouTube l’emozione è sempre la stessa.

Quindi il jazz in un altro film che amo, Bird di Clint Eastwood (1988), con il grande Charlie Parker degli inizi nel suo rapporto contrastato con un protagonista del sassofono della generazione precedente, Buster Smith.

Infine il recente Jimi: All Is by My Side (2013), dove il mio adorato Hendrix sciocca al primo incontro un altro nume tutelare della chitarra, Eric Clapton.
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sabato 9 marzo 2024

IL DITTICO DI STILICONE

Flavio Stilicone, console per la prima volta.
Ritratto insieme alla moglie Serena e al figlio Eucherio, davanti a un frontone non più triangolare ma trapezio, non inquadrati da un cerchio perfetto.
Vorrebbe guardare il cielo, ma è come se esitasse.
Sono al culmine della gloria, eppure qualcosa non torna. Spira come un’aura di tristezza, di quella malinconia fatta di trionfi e di rovesci improvvisi. Tu lo vedi che non dura (per gli esseri umani voglio dire, non per l’avorio).
Lei era figlia adottiva di Teodosio, ma in realtà nipote, nata da un fratello di cui resta solo il nome: Onorio.
E a te, altro avorio, altro Onorio avevano fatto sposare una figlia appena adolescente.
E morta quella un’altra ancora, che di li a poco avresti rinchiuso in convento.
E mai uno straccio di erede.
Ah! Ah! Ah! Come ti definiva lo scolaretto di sant’Agostino, il piissimo storico Orosio? ”Di continenza ammirabile in un re”!
Beh, noi della poco pia setta dei senatori mormoravamo solo: “Impotente!”.
Crudeli noi; crudele tu, che hai sterminato l’intera famigliola; crudeli tutti, perché abbiamo festeggiato quella strage.
Cos’è, amico mio? Un brivido di gelo? È sceso il vento della Coumba Frèide?
Ma non parlavamo di arte?
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venerdì 1 marzo 2024

ALESSANDRO MAGNO IN VALLE D’AOSTA: IL CASTELLO DI QUART


Come uscito da un quadro di Mantegna ma concretamente piantato a guardia dell'antica "Via delle Gallie", a quattro miglia romane da Aosta, il castello di Quart domina anche l'autostrada assorto nel suo trono di montagna. Fondato intorno al 1185 dai Signori di Quart (già Signori della Porta di Sant'Orso nel capoluogo), passato di mano più volte, vissuto fino alla metà del secolo scorso, ha più la storia e l'aspetto di un corpo vivo, ricco di tutte le sue età e stratificazioni, assopito come una specie di Endimione di pietra.
Ispirato dagli articoli apparsi sul Bollettino della Soprintendenza, in un giorno di apertura straordinaria dei lavori di restauro ho la fortuna ammirare dal vivo gli affreschi del donjon ( XIII-XIV sec.)...
Stanno emergendo dalla coltre di scialbo che li ha coperti per più di mezzo millennio a calibratissimi colpi di laser - ti sembrano quasi quei piccoli schiaffi che si danno ai dormiglioni - e quanto comincia a stamparsi nei nostri occhi è una specie di puzzle delle meraviglie dove si incrociano frammenti e destini di Alessandro Magno e Sansone, eredità grecoromana e giudaicocristiana rivestite cogli abiti dell'età di mezzo per Giacomo III di Quart.
Il condottiero macedone, di leggenda in leggenda ormai diventato anche modello di vita cavalleresco, è giunto ai confini del mondo, in un'India favolosa dove ci si nutre di opobalsamo e incenso. Sta ascoltando l'oracolo degli Alberi del Sole e della Luna, carichi di teste umane secondo la tradizione orientale dell' Albero Secco: "Alessandro, invincibile in guerra, tu potrai, come hai chiesto, essere il solo signore del mondo: ma non rientrerai più vivo in patria". Poi a riflettere non è più il re, ma l'uomo: "Sentendo queste parole io rimasi sbigottito, colpito nel profondo dell'anima: fui dispiaciuto d'aver portato con me tanti uomini fin laggiù, a quegli alberi sacri".
Si tratta di brani tratti dall'incantevole ma fittizia Lettera di Alessandro ad Aristotele, testo di grande diffusione dalla tarda antichità fino a tutto il medioevo (fra i prediletti dalla scuola filosofica di Chartres). Il sovrano descrive al maestro lo stupore e il prezzo della sua gloria terrena: la morte ancora giovane (alla fatidica età di 33 anni). È ora di tornare indietro. È una lezione di umiltà.
Ecco allora spuntare sulla parete accanto i resti di una rappresentazione che non sembra avere nulla a che fare con il viaggio verso l'ignoto: quella, tutta quotidiana, del Calendario. Felice contrasto, raffigurazione di grande successo all'epoca, ma quale il legame?
Il nodo di Gordio può essere reciso se facciamo riferimento a un altro bestseller di quei tempi, il poema Roman de Alexandre di Alexandre de Paris (XII sec.), il padre del verso principe della letteratura francese: il dodecasillabo "alessandrino". Infatti alla strofa 95 troviamo descritto l'interno della fantastica tenda del Macedone: "I dodici mesi dell'anno vi sono tutti illustrati/ Così come ognuno mostra quel che sa fare/ ... E sopra tutto è dipinto l'anno nella sua maestà". Proprio come nel più antico dei due mosaici del coro della cattedrale di Aosta (seconda metà del XII sec.), in forma di signore elegante e multicolore che regge nella destra il sole e nella sinistra la luna contornato dai medaglioni dei mesi (senza contare che anche nel mosaico più recente, inizi XIII secolo, la raffigurazione di animali fantastici insieme al Tigri e all'Eufrate potrebbe essere anch'essa retaggio di quelle fantastiche avventure).
Tutto sembra proprio tornare. Come il ciclo invincibile del tempo, a cui anche i grandi devono sottostare. Ritorno all'ordine, ruota che gira implacabile, ma anche vita che torna a sbocciare ogni primavera, naturalmente simbolo di rinascita spirituale.
Ecco perché quindi anche Sansone, anch'esso già presente in Valle in un altro splendido mosaico del XII secolo, quello  della chiesa aostana di Sant'Orso (guarda caso), mentre spalanca le fauci al leone cerchiato dall'enigmatica scritta palindroma "Sator arepo tenet opera rotas". Ma cosa c'entra col resto questa lotta uomo/animale, quest'altra impresa del giudice veterotestamentario rivisto e affrescato per un nobile cattolico?
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